Nella Vienna post-imperiale e repubblicana del 1919, attanagliata dai disagi e dalla povertà di un dopoguerra durissimo, l’ispettore August Emmerich si imbatte nella morte misteriosa di tre reduci del fronte orientale. C’è qualcosa di strano che lega i decessi ed Emmerich, ex soldato lui stesso, è convinto, a dispetto di ciò che pensa il medico legale, che vi sia in circolazione un pericoloso assassino. Scortato dal giovane collega Winter, decide di abbandonare le indagini sulla borsa nera, più attiva che mai, e cerca di mettersi sulla pista del giallo, alla ricerca della verità, ma anche di una promozione a lungo sperata. Il destino, però, sembra cospirare a suo sfavore. Una vecchia ferita lo tormenta in modo insopportabile e il suo superiore gli è caparbiamente ostile. A capo dei borsaneristi, inoltre, c’è lo spregiudicato Veit Kolja, vecchia conoscenza e vecchia canaglia: di lì non si passa; gli tocca pure di far buon viso a cattivo gioco. Per di più, nel frattempo, nel torno di pochi giorni, Emmerich perde la compagna, resta senza casa, viene completamente derubato ed è addirittura arrestato, accusato della morte di una giovane donna. Naturalmente se la caverà, facendo ricorso a tutta la sua tenacia. Scoprirà, tuttavia, che l’onda lunga del conflitto non si è abbattuta su Vienna soltanto con i morsi della fame e della crisi, e che i suoi più terribili e innominabili artigli sono ancora vivi e vegeti, e molto vicini.

August Emmerich è un investigatore che appartiene alla serie degli empatici; assomiglia più a Marlowe che a Dupin, e infatti la sua arma segreta, quella che lo aiuta a togliersi d’impaccio, sta in un istintivo senso del rischio anziché in una particolare propensione alla cultura della razionalità. Anche l’ambientazione storica coopera in questo senso, tanto che larga, se non massima, parte della narrazione non è altro che un affresco realistico delle macerie – materiali, morali, politiche e sociali – dell’impero austroungarico sconfitto: lo scenario perfetto per un eroe che non ha alcuna paura di sporcarsi pur di raggiungere il risultato di giustizia che gli sta a cuore. Il finale, che forse è un po’ troppo compresso (anche se l’effetto sorpresa ne riesce indubbiamente enfatizzato), fa presagire che Emmerich promette di dare battaglia non solo ai criminali, di guerra o comuni che siano, ma ad un intero contesto di degrado, frammentazione e abbrutimento, che costituisce il reale bersaglio dell’atto d’accusa che l’Autrice ha messo in scena, e che rappresenta il pericolo concreto verso il quale, per ragioni diverse, tendiamo sempre a scivolare, anche alle soglie del 2019.

Recensioni (di Alessandro Moscè; di Ranieri Polese)

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Ferencs Ernesto Balla è un ufficiale dell’esercito austriaco, di madre trentina e padre ungherese. Ha studiato letteratura balcanica a Vienna ed è un vero poliglotta; a casa Wittgenstein è sempre ospite gradito. Ha prestato giuramento per l’Austria felix, multiculturale e multietnica, ma la Grande Guerra sembra essere finita presto per lui: è stato ferito sul fronte russo e ha perso del tutto l’uso di un braccio. Poteva andargli decisamente peggio, perché il colpo era diretto al cuore, e soltanto il cappuccio della sua fedele penna Elmo lo ha salvato, deviando il colpo sul gomito. Eppure il suo destino deve ancora realizzarsi proprio nel bel mezzo del conflitto, perché, per le sue spiccate doti linguistiche, viene reclutato dal servizio segreto dell’Impero per infiltrarsi nell’alto comando italiano, spacciandosi per il tenente Vittorio Bottini, morto poco dopo la cattura sull’Ortigara. Comincia così, per Balla, una nuova vita di spia, dietro le linee nemiche, dove diventa presto uno dei collaboratori più fedeli del servizio informazioni italiano, del quale segue tutte le trame, specialmente dopo la disfatta di Caporetto. L’azione si svolge nelle immediate retrovie del fronte, alle porte dell’Altopiano di Asiago, tra Breganze e Marostica: Ferencs/Vittorio si integra perfettamente nella compagine del nemico, tanto da legarsi ad altri commilitoni, per i quali comincia a provare anche un po’ di ammirazione; e ha anche il tempo di innamorarsi, prima di lanciarsi nelle fasi più concitate della cruciale battaglia del Solstizio, per provare a mutarne le sorti già segnate.

Per chi mastichi un po’ di tedesco, e conosca il mondo piccolo di Bassano del Grappa, lo pseudonimo dietro il quale si cela l’Autore è fin troppo facile da decifrare, tanto più che il romanzo sembra il fresco diversivo di chi pratica assai bene la storia, le strategie, i retroscena e i teatri del primo conflitto mondiale, specialmente quelli della Pedemontana veneta. Tuttavia il libro merita attenzione anche al di là dell’inevitabile gossip su chi può averlo scritto. Le vicende di Balla/Bottini ci mettono, infatti, in comunicazione con alcuni dei più suggestivi punti cardinali di un territorio che ancora oggi porta i segni di tante battaglie. Ci invitano a visitarlo, a riscoprirlo con una rinnovata perizia, e anche a conoscerne, e frequentarne, alcune gloriose curiosità, come la fabbrica delle penne Montegrappa (ché quella di Balla/Bottini oggi si chiamerebbe così) o l’intramontabile Osteria Madonnetta (di Marostica, luogo sacro dell’eroico editore e dei suoi tanti amici) o lo stupefacente Archivio Storico Dal Molin (“pozzo senza fondo” per tanti giovani e vecchi studiosi e appassionati) o, ancora, il prezioso Museo Hemingway e della Grande Guerra (per essere scortati, anche con Dos Passos, sui campi di battaglia italiani, sotto la guida dell’imperdibile – e forse oggi introvabile – volume di Giovanni Cecchin). La scrittura di Paul Schachtbrunnen non è quella di Anne Perry, e l’impresa editoriale è veramente opera di un ardito, ma i lettori ne riusciranno compensati da alcune ore di autentico svago. Conclusivamente, vale per tutti l’invito che lo stesso tenente Balla avrebbe formulato nel suo idioma ufficiale: viel Spaß beim Lesen!

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Un po’ per prepararsi all’imminente centenario della Grande Guerra, un po’ per fare un viaggio suggestivo nelle radici della cultura e della popolazione della Pedemontana veneta, e un po’ per calarsi nelle sensazioni di un ragazzo curioso e spontaneo al cospetto delle tragiche tracce del conflitto e di una maturità che aspetta soltanto il momento opportuno per sbocciare completamente. Ecco: questi possono essere alcuni buoni motivi per leggere il bel libro di Paolo Malaguti.

L’ultima di queste ragioni rappresenta anche la cornice di senso capace di ordinare la felice sequenza di immagini e di ricordi in cui si risolvono tutti i brevi capitoli: dall’infanzia alle pendici di una montagna presto destinata a diventare teatro di scontri decisivi e sanguinosi all’adolescenza del primo amore e di una spensieratezza che, di fronte al duro lascito di morte e di smarrimento collettivo, pareva perduta e che, invece, conosce, al pari della natura, una nuova fioritura. Ciò che resta impresso, però, non è l’itinerario complessivo, che in fondo si muove sul cliché del racconto di formazione. Sono le sue tappe a colpire il lettore, i singoli e specifici riquadri in cui esse si risolvono, una per una, e nei quali è possibile attingere ad una sensibilità stilistica e compositiva particolarmente affinata.

Con una mescolanza linguistica che ricorda un altro ottimo precedente della stessa casa editrice e che si presta in modo particolare a stimolare empatia e a tradurre anche la vicinanza emotiva dell’Autore, l’io narrante disegna luoghi e figure indimenticabili, a volte terribili, a volte struggenti nella loro statura quasi poetica. È terribile, infatti, ma efficacissima, la descrizione di ciò che il giovane protagonista vede durante la sua precoce attività di recuperante sui campi di battaglia del Monte Grappa (pp. 75 ss.); allo stesso modo, è estremamente ficcante e delicata la rievocazione del vecchio Michele e di Moro Frun (pp. 89 ss.), numi tutelari di universi – uno tutto sociale, l’altro tutto naturale – che per secoli sono cresciuti in reciproca armonia e che la guerra ha improvvisamente separato. E poi c’è il tratto lieve e rarefatto, ed armonioso, con cui viene descritta la città di Bassano, la sua peculiare posizione storica e geografica, i suoi “riti”, il suo ruolo (nel caso, tutto letterario) di scenario ideale per la coltivazione dell’intelligenza del nostro eroe. A sprazzi, il romanzo può anche suscitare qualche istante di autentica commozione, soprattutto nelle parti in cui compare la figura paterna, la sua silenziosa testimonianza, la sua discreta sollecitudine.

Paolo Malaguti – cui si deve, recentemente, anche un grazioso Sillabario veneto – riesce nell’impresa di consegnarci un meccanismo quasi perfetto e di farlo, per di più, riportando alla luce uno dei momenti più sconvolgenti della storia nazionale ed europea. Le percezioni che l’interprete di questo libro avverte di fronte all’oscenità della montagna ferita dalla guerra sono sempre ed esattamente quelle che ancora oggi si può provare calpestando quel medesimo terreno e sperimentando un interrogativo che da allora in poi non può più smettere di tormentare la nostra coscienza (p. 80): «In quella prima mattina di contatto brutale e quasi ferino con la guerra, avvertivo tutto l’immenso e pericoloso fascino del baratro aperto di fronte a me. Pendevo incerto sull’orlo di una voragine che aveva inghiottito generazioni intere, e ora, miracolosamente, si era inceppata proprio mentre mi aggiravo sul suo labbro tumido di sangue giovane. Con quale diritto mi apprestavo a vivere, io? Quale sorte lungimirante, o cieca del tutto, mi aveva destinato al respiro e al sole, condannando invece quelle marionette, ossute e incerte nell’abbrancare spasmodiche il filo spinato arrugginito, all’umiliazione più nera, all’oblio più anonimo?».

Una recensione (di Gianni Giolo)

Il Monte Grappa nella controffensiva italiana dopo Caporetto

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