Daniele Mallarico vive a Milano, è anziano. È reduce da un fastidioso intervento chirurgico. Ha anche un lavoro urgente da fare: è un famoso illustratore, gli sono stati commissionati alcuni disegni per una nuova e lussuosa edizione di The Jolly Corner, un racconto di Henry James. Ma la figlia Betta gli ha chiesto di scendere a Napoli per pochi giorni, perché possa restare a casa con il nipotino, il piccolo Mario, mentre lei e Saverio, suo marito, partecipano a un importante convegno di matematici. Daniele non se la sente di sottrarsi. Quindi torna nella vecchia casa di famiglia, per accudire Mario e dare a sua figlia e al genero una nuova occasione, sì che risolvano i loro costanti dissensi coniugali. E poi potrebbe anche approfittarne per lavorare un po’, per mettere mano a quei disegni che lo assillano e dimostrare al giovane editore di meritare ancora la reputazione che gli viene riconosciuta nell’ambiente. Tuttavia la faccenda si rivela un po’ più complessa di quello che sembra. Da un lato la casa di famiglia pare animata da fantasmi e ricordi del passato, che gettano il vecchio artista in una specie di malinconica crisi di identità. Dall’altro Mario, bimbo apparentemente compìto e istruito alla perfezione, proprio non concepisce di lasciare in pace il nonno, coinvolgendolo in una serie di piccole avventure casalinghe. Tanto che, di gioco in gioco, di scherzetto in scherzetto, si genera una tensione crescente, della quale, ad un certo punto, si comincia a temere qualsiasi risultato. L’epilogo, in verità, è semplice, normalizzante, come lo può essere una tranquilla passeggiata nella nuova metropolitana di Napoli. Ma il libro non è finito, perché al racconto seguono appunti e schizzi di Daniele Mallarico, una specie di diario di viaggio, che funge da corredo quasi critico alla storia, a chiarimento di ciò che essa ha potuto significare per il suo protagonista.

Poco tempo fa, in un’intervista televisiva, Dacia Maraini ha detto due cose formalmente contraddittorie, che ora, però, mi tornano sorprendentemente utili, ossia: 1) che sugli scaffali della sua libreria campeggia tutta l’opera di Henry James; e 2) che leggere i bravi scrittori italiani è essenziale, soprattutto per chi vuole imparare a scrivere. Bene. Queste, in estrema sintesi, sono esattamente le due (ottime) ragioni per leggere Scherzetto, che ci invita a riscoprire un assaggio di James, e dunque a correre subito in biblioteca a procurarsene dell’altro, e che al contempo appartiene all’articolato e ricco immaginario di uno dei narratori più capaci e coerenti del panorama letterario italiano, da conoscere e da frequentare anche al di là del suo ruolo ufficiale di consorte di Anita Raja, alias Elena Ferrante. Il libro, del resto, è interessante sia per motivi stilistici, sia per contenuto. In primo luogo Scherzetto è tale di nome e di fatto, nel senso che è esso stesso uno scherzo, un gioco, una variazione elaborata dall’Autore a partire da un plot e da una tecnica narrativa predefiniti e classici. Starnone dimostra di essersi impadronito molto bene dell’abilità, tipica di James, di creare dal nulla atmosfere cariche di suspense. In secondo luogo, anche Daniele Mallarico, come lo Spencer Brydon del racconto di James, si trova immerso in una situazione quasi diabolica, attratto e colpito da un trick psicologico potenzialmente fatale e concretamente rigenerante. Lo spiritello, in questo caso, non è un misterioso e antagonista alter ego, ma si nasconde nell’impertinente spontaneità del nipote, che all’improvviso consegna al nonno, stupefatto, il suo ritratto più vero. E l’angolo, qui, è uno spigoloso e pauroso balcone, sospeso sul traffico, nel buio e nella pioggia. In ogni caso, come nel racconto di James, l’obiettivo non consiste tanto nel riflettere sulle occasioni perdute o sulle sliding doors che la vita pone di fronte ad ogni uomo. Si tratta, in modo molto più naturale e pure assai più drammatico, di saper cogliere l’autentica svolta che è implicata in una piena e matura accettazione di se stessi e degli altri.

Recensioni (di Annalena Benini; di Alessandra Galetto; di Michela Murgia; di Pier Luigi Razzano; di Gianluigi Simonetti)

Le case di Domenico Starnone (di Davide Coppo)

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Ho deciso di accostarmi a questo libro in occasione di un viaggio a Napoli. Di Rea avevo già letto lo splendido L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato. Anche Mistero napoletano mi ha colpito, lasciandomi, tuttavia, un senso di sottile e ambivalente inquietudine, e che nonostante ciò direi comunque positivo. Rea riesce ad intrecciare con efficacia il viaggio sentimentale, l’indagine giornalistica e il saggio socio-politico, facendo perno, però, sulla ricostruzione dolorosa di una tragedia personale e familiare. Il racconto della drammatica traiettoria di Francesca Spada, giornalista della sede partenopea de L’Unità, e della sua doppia e tumultuosa relazione, con il partito comunista e con Renzo Lapiccirella, colto e irregolare compagno della medesima redazione, diventa così il pretesto per raccontare della Napoli degli anni Cinquanta, delle gabbie costrittive di un PCI ancora avvinto dallo stalinismo, della militarizzazione forzata di una città in tal modo condannata a non conoscere più un vero e proprio sviluppo. Si tratta di uno scorcio appassionante, in cui si rievocano le divisioni tra la frangia amendoliana del partito e le proposte destabilizzanti del cd. “Gruppo Gramsci”, tra le tesi di un meridionalismo forse un po’ troppo ambiguo e quelle di un approccio più radicale, teso a porre nuovamente al centro dell’attenzione la questione dell’unità dello Stato come questione della garanzia presupposta di qualsiasi rivoluzione democratica della società nazionale.

Tutta la narrazione, però, è funzionale ad un unico scopo: comprendere le ragioni del suicidio di Francesca, e quindi riviverne il carattere, le ambizioni, i desideri e l’istinto quasi romantico per un comunismo ribelle e anticonformista. Nell’affresco di Rea, che l’ha conosciuta e ne è stato amico, l’epilogo della storia di Francesca ha la forma di un sacrificio estremo al Moloch di un’organizzazione che l’ha sempre rifiutata, e anche di un assurdo atto d’amore per la salvezza politica di Renzo e dei loro figli. In definitiva, Francesca muore da sconfitta e da eroina allo stesso tempo, e choc e commozione sono inevitabili, perché preparati sin dall’inizio da un’indagine talmente intima e sofferta da suscitare la partecipazione più acuta. In questa prospettiva, la scelta di articolare il discorso come se si trattasse di un diario è particolarmente azzeccata. Ma la sorpresa più grande è che la lettura stimola la più universale nostalgia per tutti i sogni civili e sentimentali della giovinezza; anche di chi, pur non avendo vissuto i dolori, i timori e le grandi speranze del dopoguerra, può accorgersi all’improvviso di aver conosciuto il sua, personale, eroe e di aver sperimentato il sapore amaro di una sconfitta morale e sociale apparentemente ineluttabile. Mistero napoletano, comunque, può essere anche una formidabile fonte di riflessione: su figure geniali e pressoché mitologiche, come Renato Caccioppoli, e sull’esistenza di una napoletanità alternativa ad ogni stereotipo e mitteleuropea, possibile faro, mai realmente acceso, di una comunità intellettuale nazionale che ha sempre e fin troppo amato il potere e l’istituzione.

Una vecchia recensione di Erri De Luca

Per continuare a seguire il racconto di Ermanno Rea: Il caso Piegari

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Per il noir dell’estate possiamo scegliere se pescare qualcosa tra le ultime novità, fidandoci magari di qualche nome di grido, o fare un tuffo nel passato, dedicandoci a qualche fidata rilettura. È noto che il noir si addice alle riletture, come accade per i fumetti. Quindi opto per la seconda possibilità. E avendo voglia di trovare senz’altro soddisfazione, mi dirigo risolutamente su Attilio Veraldi, uno dei padri riconosciuti, in Italia, del genere.

Potrei scegliere La mazzetta (1976), il pezzo forte, il debutto, ineguagliabile come tutti i debutti e trascinante come la fortunata pellicola che ne trasse Sergio Corbucci, con Nino Manfredi nei panni di Sasà Iovine, il protagonista assoluto. Invece scelgo Uomo di conseguenza, uscito due anni dopo, nel 1978: Veraldi, del resto, aveva scoperto un suo nuovo talento (oltre a quello di traduttore) e, un po’ come succede per tutte le sorgenti che sgorgano per la prima volta, il getto creativo esigeva un’immediata riproposizione, ma in questo caso abbisognava (forse) di ulteriori stimoli e (soprattutto) delle ripetute insistenze dell’editore.

Con Uomo di conseguenza, quindi, continuano le avventure napoletane di Sasà, mezzo traffichino e mezzo sensale, ufficialmente “commercialista”, per tutti “l’avvocato”, per il panorama letterario italiano una decisa ed indimenticabile figura di successo. Con essa, Veraldi diventa il riferimento di tutti gli scrittori e di tutti gli appassionati che siano alla ricerca di un detective improvvisato, un po’ flaneur e un po’ impacciato, un po’ belloccio, un po’ sfrontato e un po’ cinico, senz’altro acuto, ma sempre sfortunato.

Nonostante oggi l’editore Avagliano proponga soluzioni assai gradevoli, rileggo il libro nella prima edizione economica BUR del 1980, ennesimo frutto di un saccheggio veloce sul tavolaccio della bancarella preferita. Mi sembra, del resto, che anche questa sia un’azione vintage, adatta al volume che mi appresto a “sbranare”. Tutto, effettivamente, torna. Veraldi non delude e il suo Iovine, già dalle prime scene, si ritrova imbarcato, ancora all’interno del suo “studio”, in un intrigo molto pericoloso e senza capirne bene il motivo. Una visita ambigua, un’irruzione pericolosa, un ricevimento che potrebbe essere chiarificatore, un assalto con omicidio: tutto si sussegue, tanto per cominciare, in pochissimo tempo e sempre nella stessa stanza.

Così Sasà comincia a districarsi, come sempre, tra l’esigenza di salvare la pelle e quella di guadagnarci magari qualche cosa, imbattendosi in uno degli uomini più potenti del paese e nei torbidi e “distruttivi” segreti della sua famiglia. Il gioco si fa sempre più duro e ci “scappa” anche l’immancabile “avventura”. Ma, ecco, interviene un “uomo di conseguenza”, dotato del physique du rôle che, come ogni lettore è istintivamente portato ad intuire, sempre contraddistingue simili imperturbabili profili. Forte di un sistema di valori quanto mai discutibile, l’“uomo di conseguenza” indica al Nostro di guardare oltre gli angoli del labirinto, per cercare di riportare un “ordine”, non importa quale, laddove la polizia stessa è ciecamente e stolidamente incapace di farlo, avvitata com’è nel destino tragicamente perdente di coloro che se ne fanno alfieri.

Dov’è quindi la grandezza di Veraldi? Se sono molti a considerarlo il primo “responsabile” dell’hard-boiled in salsa partenopea (e questo non è poco…), non è possibile, nel contempo, non tributare a questo scrittore tardivo (aveva esordito soltanto cinquantenne…) un merito ancor più rilevante: ci troviamo di fronte, cioè, ad un perfetto “caratterista”, ad un abilissimo costruttore di “profili” ben riusciti, così come lo è stato il fantastico duo Fruttero&Lucentini. Dalla più piccola e marginale alla più importante e “centrale”, tutte le figure che popolano i suoi libri sono sempre perfette e indimenticabili, pienamente “comprese” da parole, espressioni o descrizioni inappuntabili e calzanti, memorabili e incisive. Se esiste, pertanto, in Italia un’ottima palestra per narratori agli esordi, questa la si può certamente individuare tra le righe dei romanzi di Veraldi.

E poi c’è sempre, in questi romanzi, una compita rassegna di vizi e di stereotipi tipicamente italiani, tanto caricaturali, a volte, quanto drammaticamente onnipresenti e inconfutabili: l’assenza di confini tra vita pubblica e vita privata, l’avidità e l’avarizia, una potenziale e costante connivenza con il “malaffare”, con quello “piccolo” ma anche con quello organizzato, l’oscenità del potere e dei suoi abusi… Ma Veraldi è anche il primo ad accorgersi di ciò che, già negli anni Settanta, stava accadendo nelle preoccupanti “mutazioni” di una malavita sempre più violenta, aggressiva e diffusa. Un Carlotto ante litteram, dunque; ma anche un osservatore sagace e dotatissimo.

Una recensione (da www.simonepiazzesi.it)

Fahrenheit su Attilio Veraldi

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