Al primo piano di un condominio, in Israele, vicino a Tel Aviv, abitano Arnon e Ayelet, una giovane coppia. La voce narrante è quella di Arnon, che racconta allo scrittore, suo amico, gli eventi recenti che lo hanno sconvolto. Arnon è convinto che la figlia Ofri abbia subito una violenza per mano di un anziano signore, che vive in un appartamento sullo stesso pianerottolo, con la moglie. Ne è così persuaso, che, nonostante tutti tendano ad escludere che il fatto sia realmente accaduto, Arnon arriva a farsi giustizia da solo, finendo per essere preda in prima persona, in una sorta di fatale contrappasso, di un impulso incontrollabile e irrimediabile, che pare, però, voler rimuovere completamente. Nel frattempo, al secondo piano, Hani scrive una lettera alla sua migliore amica, emigrata negli Stati Uniti, e le confida tutte le difficoltà del rapporto con il marito Assaf, spesso all’estero per lavoro. In realtà la confessione che vuole farle è un’altra: forse è un sogno, forse no; ma sente di aver vissuto un’improvvisa e magica avventura con il fratello di Assaf, rifugiatosi da lei per nascondersi, perché ricercato dalla polizia e dai clienti che ha truffato in uno spericolato calembour di speculazioni immobiliari. Al terzo piano, infine, c’è Dvora, giudice in pensione, che ritrova una vecchia segreteria telefonica e, dopo avervi sentito la voce registrata del marito defunto, ex giudice anch’egli, decide di incidere il racconto di ciò che le è successo nell’ultimo periodo: ha partecipato ad una manifestazione contro le politiche governative, è stata in mezzo ai giovani e ha cercato di aiutarli, ha conosciuto per caso il vecchio e misterioso Avner e ha deciso di vendere l’appartamento; soprattutto, però, è tornata in contatto con il figlio Adar. Ed è un’occasione, questa, che ha pensato di non voler perdere.

In quest’ultimo romanzo di Nevo ad ogni piano dell’edificio in cui vivono i protagonisti corrisponde una storia diversa, con donne e uomini che si sfiorano, si intravedono appena e sperimentano situazioni e pulsioni particolari, che paiono l’una indipendente dall’altra. Anche lo stile, di volta in volta, sembra cambiare, in una ricerca di piena e coerente corrispondenza tra la personalità, l’inclinazione dell’attore principale e il tono della sua voce. Queste storie, tuttavia, non sono slegate. I loro (anti)eroi – Arnon, Hani e Dvora – hanno molte cose in comune: 1. abitano nello stesso luogo, anche se si conoscono solo superficialmente; 2. affrontano un’esperienza individuale di crisi, che in larga parte ha a che fare con la loro vita di coppia e familiare; 3. per comprendere e superare il problema che li affligge, scelgono (o meglio, hanno bisogno) di confrontarsi con un interlocutore via via più lontano, più profondo. La combinazione di questi tre elementi tradisce l’espediente che l’Autore ha coltivato. Così rappresentate, infatti, le tre storie emergono per quello che realmente vogliono mettere in scena: i tre luoghi psichici di uno stesso soggetto (Es, Io e Super-io), alle prese con una vera e propria seduta psicanalitica, che è anche la seduta alla quale l’Autore sottopone buona parte della nostra quotidianità più spicciola e dei reconditi anfratti di cui essa è spesso costituita. Ma Nevo si guarda bene dal seguire questa strada fino in fondo: non pare che il suo obiettivo sia quello di eleggere il paradigma freudiano a chiave di lettura e criterio risolutore di qualsiasi incidente di percorso della vita affettiva. Ciò che lo preoccupa non si muove sul piano strettamente introspettivo, il suo vuol essere un apologo – a formazione progressiva, piano dopo piano – sull’indispensabilità delle relazioni e sui pericoli, per il singolo come per la società in cui vive, della ricerca autoreferenziale della felicità. Può apparire singolare, specie ai lettori più ingenui, che sia uno scrittore israeliano a fornirci la descrizione più semplice e incisiva dello stato di smarrimento emotivo che è così tipico dei contesti più strettamente occidentali. Il fatto è che, da tempo, dobbiamo proprio alla letteratura israeliana e alla sua rigorosa esperienza, ormai affermata e radicata, la capacità di interpretare al meglio tutti i nostri disagi; e ciò perché, sia pur nella sua estrema singolarità, Israele, soprattutto se visto da vicino, ci pare sempre di più l’avanguardia più ricettiva delle trasformazioni e dei problemi che più ci riguardano.

Recensioni (di Eleonora Barbieri, Annalena Benini, Sandee Brawarsky, Michele FazioliAyelet Gundar-GoshenElena Loewenthal)

Tre interviste all’Autore (da ilmanifesto.it, da letteratura.rai.it, da stradanove.net)

I labirinti invisibili di Eshkol Nevo

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Nella Gerusalemme di fine 1959, Shemuel Asch, giovane e goffo intellettuale socialista, sta lavorando a una tesi di dottorato su “Gesù in una prospettiva ebraica”. È in difficoltà: non riesce ancora a capire quale possa essere questa prospettiva, che tuttavia lo affascina; la ragazza lo ha lasciato, per sposarsi con un suo ex; e ancora, come se ciò non bastasse, la ditta del padre è fallita, così la sua famiglia non può più aiutarlo a pagarsi gli studi e l’alloggio. Decide, allora, di abbandonare la ricerca e di rispondere a un annuncio che ha letto in un caffè. Si trasferisce in una vecchia casa ai confini della città, dove deve badare a un anziano, malato e loquace signore, Gershom Wald, tenendogli compagnia, e dove conosce Atalia Abrabanel, che vive con il vecchio e che sembra custodire molti e grandi misteri. Le cose, in effetti, stanno proprio in questo modo. Perché Atalia è la figlia di colui che gli israeliani considerano un grande traditore, dell’uomo, cioè, che si era opposto alla creazione del nuovo Stato. Il padre Shaltiel sognava la convivenza pacifica tra ebrei e arabi; per questo era stato trattato come i cristiani avevano trattato Giuda, l’apostolo prediletto dal Cristo e il più infedele al contempo, la figura su cui Shemuel, il dottorando in crisi, medita incessantemente. Ma ciò che più lo assilla – stretto tra la preoccupazione per le sorti del suo tormentato Paese e la valenza decisiva dell’interpretazione del ruolo di Giuda – è il fascino di Atalia, la sua triste e cinica bellezza, di cui è destinato a conoscere fino in fondo la sensuale profondità e le drammatiche ragioni. Come nei migliori racconti filosofici, la risposta a tutti gli interrogativi di Shemuel viene sulla strada del deserto e sta nell’individuazione dell’unico interlocutore possibile, se stesso.

Le chiavi di lettura di questo romanzo sono diverse, eppure tra loro comunicanti. Un primo motivo è quello che intreccia il discorso sulla fondazione dello Stato di Israele e sull’azione della classe politica che l’ha realizzata con l’enigma del significato della figura di Giuda negli avvenimenti della morte di Gesù e della nascita del cristianesimo. Seguendo un canone tanto famoso quanto obliquo, Giuda viene rappresentato come l’autore di un tradimento necessario, tanto provvidenziale quanto capace – in prospettiva ebraica, per l’appunto – di concretare l’evento da cui è sorta e prosperata un’ideologia nuova e irresistibile, ma eccessiva. Eccessiva e, quindi, degenerata quanto lo sono l’origine e la sorte sempre e irrimediabilmente conflittuali di uno Stato che non riesce a evitare la violenza e che, nel dialogo con gli altri popoli medio-orientali, non sa ripercorrere la chance che Gesù aveva proposto alla sua gente. Da questo punto di vista, Oz si conferma, innanzitutto per il suo Paese, una voce risolutamente critica e controcorrente: è agli israeliani di oggi che parla, a quella società complessa e multiculturale che, ora più che mai, cessata l’età eroica del sionismo militante e della sua vincente espressione laburista, è attraversata da forti e pericolose radicalizzazioni identitarie. E che, come Shemuel, deve cominciare a farsi delle domande, senza attendere che una soluzione giunga improvvisa dall’esterno. Esiste, poi, anche un’altro livello narrativo, ben più sofisticato, tutto racchiuso nel faticoso e ingenuo rapporto tra il giovane dottorando e Atalia. È il piano, o il campo, del risentimento, che alla seconda impedisce di amare davvero, e che non si rivolge solo contro coloro che hanno mandato a morire il giovane marito, poiché la sua genesi è, per prima cosa, nella percezione dell’indifferenza del padre. Qui la lezione di Oz si complica, nonostante il nesso con la rievocazione di Giuda sia strettissimo: è sempre il mistero dell’amore a farla da padrone, e in questo secondo caso si comprende che non può mai trattarsi di un istinto esclusivamente intellettuale, né di una pulsione unilaterale, bensì di una pratica concreta, che si alimenta di una relazione di ascolto reciproco e di una dimensione emotiva e corporea fragile e incommensurabile. Va detto che, soprattutto per il lettore europeo, l’ultima fatica del grande scrittore israeliano può non sembrare all’altezza delle opere precedenti. Tuttavia è solo un’impressione, dovuta alla sublimazione in immagini estremamente semplici di un’interrogazione profonda, personale e collettiva, nella quale ogni personaggio è molto al di là di ciò che apparentemente incarna. Ci sono tanti libri che, per risultare appaganti, esigono di essere letti almeno due volte. Per lo più è un difetto; nel caso di Giuda è il marchio di una fabbrica che si conferma particolarmente affidabile.

Un’intervista all’Autore

Oz presenta il libro

Recensioni (di Sivan Kotler, di Paolo Perazzolo, di Giulia Maselli)

Un ritratto di Oz

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