Nel Palace Hotel di Fort Romper, Nebraska, si incrociano casualmente le strade di cinque uomini: lo Svedese, un uomo dell’Est, un cowboy, il giovane Johnnie e suo padre, Pat Scully, che è anche il proprietario di questo singolare albergo dipinto di azzurro, immerso nel selvaggio West e in una furiosa tempesta di neve.
La situazione è subito ambigua, carica di tensione, perché lo Svedese sembra animato da un comportamento innaturale, da una paura che gli altri avventori non riescono a comprendere, quasi che su di lui penda il rischio di un’inevitabile sventura. Un po’ di whiskey ne cambia l’umore, che presto si fa sfrontato e provocatorio. Così, durante un banale gioco di carte, il destino si ripresenta e i nodi vengono drammaticamente al pettine: “All’improvviso risuonarono tre parole terribili: ‘Tu stai barando!’ Sono situazioni, queste, che confermano come gli ambienti non abbiano la benché minima predestinazione. Qualsiasi stanza può essere buona per una tragedia o per una commedia. Quel particolare, piccolo locale adesso sembrava odioso come una camera di tortura: le espressioni assunte dagli uomini l’avevano trasformato all’istante” (p. 35). Non è, tuttavia, il duello che segue a questa scena a far sì che la dura sorte dello Svedese si realizzi. Certo, ha accusato il figlio di Scully e lo ha battuto, e il cowboy e lo stesso Scully non sono per nulla contenti. Ma la notte dello Svedese si evolve diversamente. Una volta andatosene dall’albergo, si reca in paese, e qui si consuma, quasi inaspettatamente, ciò che si poteva presentire sin dall’inizio del racconto.
Stephen Crane non è un Autore che si capisce “al volo”. Quando avevo letto Il segno rosso del coraggio (1895) – da molti ritenuto il primo grande romanzo moderno sulla guerra (reperibile anche on line) – ero rimasto disorientato. Avevo compreso che vi erano già illustrate le stesse accuse che di lì a poco avrei letto anche ne Il fuoco (1916) di Henri Barbusse o ne La paura (1930) di Gabriel Chevallier o ne Un anno sull’altipiano (1938) di Emilio Lussu. Che si trattasse della Guerra Civile Americana o della Grande Guerra, le esperienze di un giovane soldato erano perfettamente comparabili, nello smarrimento e nell’eroismo, ma anche nella scoperta di orrori indicibili e nella tragica consapevolezza di essere “carne da cannone”. Però nel libro di Crane c’era qualcosa in più, qualcosa di diverso, di intimamente legato ad un addebito specifico e inafferrabile, che non si nutriva esclusivamente di condivisibili istanze di rivendicazione sociale o di denuncia umanitaria.
Forse questo addebito aveva a che fare con la verità crudele che in The blue hotel (1898), questo perfetto congegno narrativo, viene affermata in chiusura dall’uomo dell’Est: “Anche il peccato viene da una specie di collaborazione tra le persone (p. 63)”. Ecco, probabilmente la morale è proprio questa: non c’è mai un solo carnefice, e spesso colui che si ritrova a rivestire il ruolo del colpevole è solo l’ultimo anello di una catena assai aggrovigliata, nella quale non basta essere stati meri spettatori per poter essere veramente assolti. È l’umanità ad essere dannata, e nella grande letteratura non c’è niente di più americano di questa terribile acquisizione.
Sorry, the comment form is closed at this time.