In questo saggio – che è la rielaborazione di un discorso tenuto dall’Autore il 7 ottobre 2021 alla Biennale Democrazia – si ragiona distesamente, in modo colloquiale e piacevole, su che cosa sia una lezione. E su quali siano le implicazioni, o le ridondanze, di una possibile definizione. La riflessione comincia da uno spunto etimologico: la lezione è qualcosa che richiama l’atto del raccogliere, del mettere insieme persone e parole. Da un lato, è un’esperienza di socializzazione, dall’altro, di riflessione continua sul linguaggio, sulla sua idoneità ad animare le cose che ci circondano e sulla sua magia, intesa come capacità emancipante e veicolo di scoperta. La lezione naturalmente è anche un luogo di trasmissione, ma il professore non va inteso solo come fonte di informazioni standardizzate e omogeneizzanti: la lezione è vera lezione solo se è “tempo di scorrimenti di materia da un luogo a un altro, ciascuno con i propri diritti e doveri, cioè con la propria dignità da rispettare”. Da un simile punto di vista, la lezione non può risolversi nella ripetizione di testi o manuali, che, piuttosto, forniranno premesse o conoscenze utili per la lezione stessa. Soprattutto, però, la trasmissione compresa nella lezione non va concepita come un trasporto meccanico, bensì come una passeggiata, il tempo che ci si prende per praticare uno “sguardo intorno”, diverso da quello dello “sguardo mirato, puntato”; del resto, la lezione non procede necessariamente in linea retta, secondo una traiettoria prestabilita a tavolino, ma è sempre “in corso d’opera”. Può anche terminare prima che il suo fine sia raggiunto e può conoscere preziose digressioni, favorire, cioè, “fermentazioni” che vadano al di là di un programma e siano aperte a sguardi sintetici e all’utilizzo di linguaggi relazionali (con metafore, immagini, suggerimenti).
È in una lezione di questo tipo che si acquisisce l’occasione per sperimentare l’unità del sapere e per apprendere che non vi sono scienze veramente neutrali. Ed è sempre in questa lezione che si misura l’opportunità di restare in equilibrio fra finalità di pura istruzione e finalità educativa, di ammaestramento: perché essa è luogo di auto-formazione, di libero e responsabile scrupolo e spirito critico, da mettere alla prova tra complessità e razionalità, ovvero, come scrive efficacemente Zagrebelsky, tra lo spirito di Gerusalemme e lo spirito di Atene. Ciò può accadere, però, solo se la lezione rimane il luogo in cui volersi occupare di cose differenti da quelle che, fuori dall’aula, ci assordano quotidianamente. Chiedere silenzio alla classe, prima della lezione, assume dunque un senso particolare. Le lezioni, non a caso, avvengono proprio nelle classi, che sono sempre diverse l’una dall’altra, sono specchio della società e possono rivelarsi sia laboratori di esperienze democratiche, sia incubatori di sopraffazioni. In classe, poi, non si deve semplicemente stare, occorre esserci. Molto dipende dal professore, che nella classe deve saper far risuonare la propria voce, al di fuori di qualsiasi routine didattica. Alla fine di un percorso di lezioni, verranno, di solito, esami e voti, che pure non rappresentano lo scopo di quel percorso: in astratto, forse, potrebbero essere anche aboliti, anche se è vero che costituiscono tuttora soglie mediamente oggettive per dare un valore riconosciuto al merito.
Quella di Zagrebelsky, all’evidenza, è una lezione sulla lezione, che viene messa in pratica con gli stessi toni e metodi che il libro intende suggerire. Quindi è un esempio di come si potrebbe concepire una lezione, almeno per l’Autore. È anche una carrellata di grandi riferimenti intellettuali (Lemkin, de Maistre, Calamandrei, Florenskij, Levi, Condorcet, Talleyrand, Bobbio…) e di rinvii e suggerimenti alla migliore tradizione pedagogica (non solo italiana). Vale, in certo senso, come concentrato ripasso, cui ogni insegnante potrebbe rivolgersi per trovare o rinfrescare motivazioni e prospettive. Due sono gli aspetti che colpiscono. Il primo riguarda ciò che il volume non dice, e che tuttavia si può ricavare semplicemente. Perché è palese che le condizioni prime affinché sia praticabile un modello di lezione come quello prefigurato nel testo hanno a che fare con la difesa di uno spazio riservato di azione e comunicazione, un rapporto speciale tra docenti e studenti, che a sua volta non può che poggiare su una forte autonomia di orientamento intellettuale e scientifico delle istituzioni in cui quel rapporto si svolge. La realtà non è sempre, o non è più, coerente con questi presupposti. L’altro punto che merita di essere sottolineato è che La lezione è un esemplare, e ottimo, prodotto generazionale. È la perfetta filosofia della lezione, che, scherzando con un noto motivo hegeliano, diremmo giungere, come la nottola di Minerva, al tramonto storico di un’esperienza, nel chiaroscuro di un fenomeno formativo grandioso, tessuto da grandi Maestri. Saranno in grado, i contemporanei, di ripercorrere e rinnovare i fili di questa trama?