“Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri ma a produrne delle nuove, che siano in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali” (p. 11). Per questo oggi è indispensabile discutere di religione civile, e il pamphlet di De Luna, in effetti, contribuisce senza dubbio a fornire precise coordinate sui (tanti) vizi e sulle (poche) virtù che sul punto la società politica italiana ha dimostrato dall’Unità ai giorni nostri. 

Trasformismi genetici e ricorrenti, localismi radicati e familismi trasversali, speranze tanto nobili quanto disattese, possibili punti di svolta e occasioni perdute: l’implacabile rassegna dello storico colpisce al cuore del problema e illustra con efficacia la frustrante continuità con cui il nostro Paese – in età liberale, durante il fascismo, nella Resistenza, nella Prima come nella Seconda Repubblica – ha sperimentato l’incapacità di costruire uno spazio pubblico e riconosciuto di appartenenza e di cittadinanza. Sono due i profili su cui la ricostruzione si sofferma in modo particolare. Da un lato, i reiterati e scoraggianti fallimenti dei tentativi volti ad instaurare un sano e maturo equilibrio tra sfera politica e orientamenti religiosi, con conseguente pregiudizio per il processo fondativo di un vero Stato laico e di un’autentica coscienza civica; dall’altro, la mancata metabolizzazione della necessità di un patto sulla memoria, dell’instaurazione, cioè, per la costituzione e la sopravvivenza della democrazia, di un certo rapporto con il passato. Le pagine migliori del volume sono quelle in cui De Luna spiega l’importanza che a tale riguardo avrebbe potuto avere, e avrebbe tuttora, l’esperienza del Partito d’Azione, fatalmente travolta, anche nella sua feconda eredità costituzionale, da una costante ondata di “desistenza”. Tuttavia, non sono meno efficaci i richiami alle profetiche raffigurazioni di Pasolini, sinistramente presàgo della montante melassa di ignoranza, conformismo e “consumismo all’italiana” in cui è destinata a galleggiare, ormai, soltanto l’idea di una “cittadinanza bancomat”, costruita sui bisogni e sulle paure, distante anni luce dal senso ultimo della partecipazione civile quale “scelta”.      

Occorre dire che la descrizione della situazione attuale è quasi disperante, e tale appare, a suo modo, anche la conclusione. Citando Leopardi – e rammentandoci che “Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci del nostro stato presente” – l’Autore ci motiva ad andare oltre le ultime righe e a ripercorrere le profonde intuizioni del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1827). La questione, infatti, non è meramente istituzionale, non è soltanto quella, pur ragguardevole e centrale, sulla tecnica più efficiente e proficua con cui aggiustare l’equilibrio dei poteri e delle competenze. Il tema è, ancora oggi, quello della drammatica  latitanza di una “società stretta”, che faccia sì che l’opinione pubblica abbia “buon tuono” e che la nazione intera possa alimentarsi di virtù e di valori sempre e comunque capaci di essere matrice comune di posizioni anche assai diverse. Può sorreggerci la Costituzione? Ecco, se c’è un altro e finale interrogativo sul quale questo piccolo saggio può aiutarci a meditare, esso coincide proprio con la riflessione che induce a compiere sulla Carta del 1948, sul dibattito che tanto si agita attorno alla sua riforma e sulle ragioni per le quali prendere posizione a favore di una delle tante tesi – e delle tante motivazioni – che si stanno fronteggiando.

Recensioni (di Emilio Gentile, Antonio Carioti, Simonetta Fiori, Gianfranco Sabattini)

Un’ulteriore lettura sulla religione civile (di Vito Mancuso)

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