Leggere Wendy Cope significa comprendere nel modo più diretto ed istintivo che cosa voglia dire l’espressione “fare il verso” e come sia possibile conciliare in un’unica identità una normalissima insegnante del Kent e una pluripremiata e popolare poetessa. C’è del casalingo, del sicuro, in questa figura, soprattutto nella sua irrefrenabile ricerca della rima, che strizza sempre l’occhio ad un senso ordinario delle cose e all’opinione più scontata, forse a quella che, come tale, e sia pur nella sua linearità, è la più serena e felice. Nello stesso tempo, però, c’è anche grande ironia, voglia di prendere in giro e di prendersi poco sul serio, desiderio di non stupire e di dare voce anche alle più piccole emozioni: come se anche quelle più grandi non possano che essere comprese per assemblaggio di istantanei quanti di positività, magari nella speranza, volta per volta, che l’insieme, anche se appare vuoto, ci comunichi un tanto sperato e quasi sorprendente senso di pienezza.
Emergono diversi protagonisti in questo “assaggio” di Cope, comprese, per così dire, le sue più celebri hits. Spicca tra tutte la “creatura” per eccellenza, Mr. Strugnell, di Tulse Hill, piccolo sobborgo londinese, con gli imperdibili e saggi sonetti (pp. 69 ss.) e con i fulminanti e quasi comici haiku (p. 83) di cui questo alter ego figura come il disincantato e pur tormentato autore. Possiamo apprezzare, poi, Il mio amante, decisamente un capolavoro, così come tutti gli altri brevi pezzi sull’amore, “addormentati” e come “avvolti” in se stessi, tra evidenti parodie, passioni durature, istinti facili e una specie di “sconfortante dolcezza”. E, infine, perla tra le perle, L’angolo degli ingegneri, che in verità apre il volume e che dice molto, quasi con sarcasmo, sullo stato di solitudine in cui versa il poeta: L’incertezza del poeta (p. 87) è più di una scontata variazione sul tema, e Lettura poetica (p. 155) è la messa in scena della nozione farsesca che della poesia ha la maggior parte della gente, ivi compresa quella che si ritiene più “colta”.
Il curatore di questa prima silloge italiana – cui si deve senz’altro un plauso, perché non è per nulla semplice tradurre la semplicità fatta verso – avverte che la “leggerezza” è la cifra distintiva di Wendy Cope. In effetti, ci sembra di ritrovare qualcosa di Collins (nell’assunzione di uno sguardo quotidiano e nell’esser stata poeta laureato) e qualcosa di Ginsberg (nella tendenza alla canzonatura), ma anche, in alcuni passaggi, qualcosa di Wilcock (nel linguaggio paradossale dei sentimenti) e di Sermonti (per intendersi, di quello, inatteso, de Ho bevuto e visto il ragno).
È il gusto dello scherzo ad essere onnipresente, anche sotto forma di impertinente civetteria ed anche quando ci si potrebbero attendere, per immagini o temi, toni banalmente malinconici o comunque venati di agrodolce consapevolezza. Se si volesse individuare un divertito manifesto dell’atmosfera sostanzialmente light della poesia di Wendy Cope, allora si potrebbe dire che Progredire nella noia (p. 129) ne potrebbe essere un capitolo importante: Un compagno e una casa è tutto ciò che amo; / ho trovato un rifugio da cui non puoi distrarmi; / non ho altre ambizioni, e quel che bramo / è solo continuare ad annoiarmi.
Penso che l’immagine più ficcante per rappresentare l’idea che questo libro mi ha lasciato sia questa: nella poesia e nella letteratura, come anche nella vita, tra la coltivazione delle orchidee e quella dei gerani, scegli sempre la seconda; bastano piccole zappature serali e un po’ di fondi di caffè per rendere il balcone una cascata di coloratissimi spunti vivaci. Se poi hai anche il tempo di sorbirti una birra fresca al pub, in compagnia, allora il gioco è fatto.
Canzoncina per i poeti
Per me tutti i poeti erano byroniani,
perversi, un po’ pericolosi e strani.
Poi ne incontrai qualcuno. È buffa la realtà:
l’acqua tonica liscia è più frizzante,
un piano-pensionati è più rassicurante.
Eppure ti assicuro, non molto tempo fa
Per me tutti i poeti erano byroniani,
perversi, un po’ pericolosi e strani.
Definendo il problema
Non posso perdonarti. E se anche lo potessi
non mi perdoneresti tu d’averti visto dentro.
Ma non posso nemmeno guarire dall’amore
per ciò che mi sembravi prima di smascherarti.