L’ultimo di Villoro è un romanzone concentrato e ipnotico, con una colonna sonora di tutto rispetto. Tony Góngora, zoppo e senza una falange, è l’ex bassista degli Extraditables e ha consumato la sua giovinezza tra droghe di ogni genere, sfiorando per pochi attimi l’olimpo del successo e seguendo il mito di Jaco Pastorius e dei Velvet Underground. Si è bruciato. Ha perso parte della sua memoria, è stato lasciato da Luciana, l’unica donna che ha cercato di amarlo, e ha trovato l’anonima e claustrofobia occupazione di doppiatore di suoni per cartoni animati. Finché non è tornato Mario Müller, Der Meister, il suo più caro amico, che ora dirige la Piramide, un grande albergo della città turistica di Kukulkán, e che lo vuole di nuovo vicino, nella sua organizzazione, per trasformare i suoni dei pesci in armonie musicali. Ma la Piramide, i cui proprietari fanno capo ad un lontano consorzio di imprenditori inglesi e il cui socio di maggioranza, in loco, è il misterioso “Gringo” Peterson, un americano del Vermont à rebours in Messico, non è un comune hotel. Alla Piramide si offre una vacanza con svaghi pericolosi, finti rapimenti, incontri con guerriglieri. Niente di ciò che accade può essere davvero reale. E ciò giustifica il grande successo della struttura, almeno fino al momento in cui accanto alla piscina viene rinvenuto il cadavere, vero, di Ginger Oldenville, sommozzatore e ammaestratore di delfini. Chi è l’assassino? Tony è coinvolto nelle indagini e si trova subito avviluppato nei suoi ricordi, nei tanti sospetti e nelle ombre allucinate di figure ostinatamente ambigue e perdute, dalla fascinosa gringa Sandra al meschino vigilante Támez, dal solerte poliziotto Rios all’indecifrabile James Mallet. E nel frattempo, tra simbologie maya e traffici illeciti, scopre che Mario Müller è malato, che l’albergo ha i giorni contati e che, per lui, c’è un destino tenero e inatteso.
Il finale induce a concepire il libro secondo una traiettoria un po’ troppo semplice, ma questo è sicuramente un primo (essenziale) livello di lettura: il Messico è sempre quello lubrico, sconfitto, estremo e irrimediabile, alla Carlos Fuentes; una via di speranza c’è, e tuttavia si tratta di una via di fuga; non c’è altro da fare, tutto è profondamente corrotto. La città turistica altro non è se non il paravento di un mercato post-moderno di anime morte (e la citazione di Gogol, espressa nel testo, è più che calzante). Oltre a questa, però, c’è anche un’altra prospettiva: la Piramide allude al Tempio di Kukulcán, alla religione precolombiana del serpente piumato, del demiurgo civilizzatore di cui si attende il ritorno rigenerante. E quello di Tony, in effetti, è un ritorno alla vita, mediato da una catarsi che sembra resa assurdamente possibile da un ultimo sacrificio umano: come se si trattasse di uno studiato e ultimativo piano di condanna (per un Paese dominato dal crimine e dalla delazione) e di redenzione (per il protagonista – immagine di una nazione allo sbando – salvato da una catena quasi inconsapevole, eppure decisiva, di fortunosi gesti d’amore). Il fattore dominante del libro, ad ogni modo, è la complessità narrativa, che può essere sempre una grande risorsa, specie quando viene abilmente plasmata da una penna capace, al medesimo tempo, di lunghi spezzoni obliqui e narcotizzanti, ma anche di intuizioni rapide e gnomiche. Villoro vuole produrre spaesamento, un po’ per assecondare la sensazione, naturalissima, di un’aggrovigliata visione lisergica (dei paradisi artificiali, del resto, Toni è un sopravvissuto), un po’ per comunicare la percezione disorientata di una metamorfosi in atto, con improvvisa e felice agnizione conclusiva e universale (“Perché in apparenza questo eravamo: una ‘famiglia’. L’espressione non sembrava inesatta, non in quel momento”). Il segreto di un classico sta sempre nel mezzo di questa sintesi improbabile, tra un’esperienza individuale chiaramente irripetibile e un largo e rassicurante ponte empatico a diretta disposizione di qualsiasi lettore. Su questo crinale Villoro si trova a suo agio, e La Piramide non verrà certo dimenticata tra la letteratura caraibica minore.
Recensioni (di Goffredo Fofi, Giulia Lavagna, Rossella Gaudenti, Paolo Massimo Rossi, Andrea Consonni, Rosa Beltrán)