Un ragazzo che non è più un ragazzo sta per diventare padre. Che nome può dare al figlio che verrà? Il nome di suo nonno, Marino, fascista della prima ora? O il nome del prozio, Almo, comunista irriducibile? Per lungo tempo la storia dei due fratelli, così emotivamente vicini e così politicamente lontani, ha percorso i destini della famiglia, lacerandola più volte. Il ragazzo, dunque, non vuole sbagliare; prima di tutto, però, vuole capire. Vuole comprendere come sia stato possibile che una famiglia tanto unita sia rimasta travolta dall’avvento del fascismo e dalla tragedia della seconda guerra mondiale. La narrazione è alternata: da un lato si raccontano il viaggio e le riflessioni del ragazzo, alla ricerca di una sintesi esistenziale, sulla scorta delle poche residue tracce del passato; dall’altro si ripercorrono le peripezie di Marino, di Almo e dei loro affetti più stretti, in un susseguirsi di vicende drammatiche, che spaziano da Este a Padova, da Treviso a Milano, da Roma a Gaeta, dall’Istria alla Sardegna. Il nome del figlio, alla fine, salterà fuori; e forse la scelta del ragazzo (ai lettori la scoperta) sarà proprio quella giusta, per non restare più prigionieri della storia e per dare voce piena alla forza rappacificante dell’amore e del futuro, necessariamente nuovo, che essa può prefigurare.
Questo è un libro intimo e collettivo allo stesso tempo. Qui sta il suo punto di forza. D’altra parte le vicissitudini di una famiglia al tempo del fascismo sono sempre le vicissitudini del Paese; stimolano immedesimazione. Non è strano, quindi, che la dialettica tra due fratelli ben rappresenti le divisioni e le pulsioni di un’identità nazionale tormentata, emotiva, passionale; e forse condannata dalle colpe di un padre-giudice tanto apparentemente rigoroso quanto incapace di ascolto, di perdono e di riconoscimento. Se poi la storia di quella famiglia – di una famiglia realmente esistita… – si origina dalle terre che più hanno vissuto i conflitti sociali che hanno portato al fascismo (sono i luoghi di Matteotti…), allora la verosimiglianza e l’efficacia della scrittura sono garantite. Tanto che, più che a un romanzo, viene quasi da pensare alla sceneggiatura di una fiction da prima serata, di sicuro successo. È qui che, paradossalmente, qualche perplessità può sorgere. Non è certo lo stile ad essere un problema. Il fatto è che l’ottima narrazione popolare si mescola ambiguamente a messaggi parzialmente assolutori, che sembrano ammiccare all’idea che vi sia stato un fascismo buono e sincero, animato da nobili intenzioni sociali, e che il modo migliore per superare un tragico passato sia la ricerca (per l’appunto) della bontà e della sincerità delle ragioni intime dei “vinti”, al fine di andare definitivamente oltre. Se così fosse, però, la riscossa dei sentimenti segnerebbe anche il trionfo della rimozione, il vizio più instancabile e invincibile del Paese. Il significato vero del libro, evidentemente, è altro, e forse per il lettore avveduto, che abbia voglia di leggere e rileggere la poesia di Alfonso Gatto, dalla quale il titolo trae ispirazione, questo significato può rivelarsi come l’opposto di quanto superficialmente appare: il passato è sempre un macigno e per superarlo occorre il coraggio di guardarci veramente dentro e di farlo restare tuttora protagonista – testimone tanto assente quanto silenzioso e incombente – dei momenti più importanti della nostra vita.
Recensioni (di Davide Brullo; di Fabio Cozzi; di Giorgio Montefoschi; di Francesca Visentin)
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