All’inizio degli anni Novanta Andrea suona la chitarra in un gruppo rock e passa le sue giornate di giovane studente a leggere da solo, sui gradini dell’università. Un giorno conosce Q, chitarrista e benzinaio, con cui condivide lunghe partite a scacchi in una birreria all’aperto; e scopre il grunge. Così esce dal gruppo, smette di studiare e comincia a suonare proprio assieme Q, che lo introduce all’amicizia di Squama, Sasquatch e Chico, allegri e incoscienti sfaccendati. Per il protagonista comincia anche un lungo periodo introspettivo, che gli ricorda i problemi della sua famiglia e lo porta alle soglie della depressione. La musica dei Pearl Jam, di Ten in particolare, scandisce le emozioni e le avventure dei cinque ragazzi, dediti a serate alcoliche, viaggi lisergici e feste scatenate. Dopo l’ennesima devastazione, Andrea parte in treno con Q, verso la Francia, l’Inghilterra e la Scozia, per un viaggio da vivere giorno per giorno: suonano per le strade, dormono dove capita e fanno incontri più o meno fortunati. La fame, la sete e la nostalgia li riportano a Roma, ma solo per ripartire di nuovo verso Amsterdam, ritornare ancora, rischiare la vita in un brutto incidente e capire che forse è venuto il tempo di passare oltre e definire per sempre un sodalizio decisivo.
“I dischi e i libri sono specchi, più o meno deformanti, in cui cerchi te stesso, le parole e i suoni che sei. E quando li trovi, è allora che esisti, totalmente, pienamente, che sei, senza propaggini, senza scaturire oltre i limiti, solo nel tempo che permane, nel preciso istante”. Basterebbe questo estratto per farsi l’idea, ingannevole, che Anni luce sia un concentrato di luoghi comuni triti e ritriti, e per etichettarlo come il più tipico romanzo generazionale, con Eddie Vedder a fare la parte che in altra epoca è toccata a Jack Kerouac (che pure viene citato nel testo…) e con l’Autore a raccontare nuovamente (assieme a Kafka, ugualmente citato…) l’impossibilità della giovinezza eterna e la funzione catartica di alcuni classici riti di passaggio. C’è da sperare che non sia per queste virtù che Anni luce è stato pronosticato come uno dei potenziali candidati allo Strega di quest’anno. Se così fosse, allora sarebbe bene che i giurati si facessero un esame di coscienza: se intendessero premiare un romanzo a sfondo musicale sull’adolescenza profonda, meglio rileggere L’erba cattiva di Ago Panini, fare un doveroso confronto e trarne ogni conseguenza, sia pur fuori ogni tempo massimo. Il racconto di Pomella, in verità, merita consensi per altre ragioni; in particolare per i vari e sparsi frammenti in cui si parla del grunge, del falso dualismo tra Nirvana e Pearl Jam, dell’evoluzione che questi hanno affrontato (da Ten a Vitalogy) e dell’individuazione delle loro radici (come, forse, di quelle di tutto il grunge) nella ruggine e nelle interruzioni di una narrazione, e di una classe, popolare che si scopre intimamente stanca, delusa e depressa (sul punto scrivere di – e citare – Steinbeck è calzante). Insomma, Anni luce fa venire la voglia di ripescare un intero arsenale di buona e sana musica, ed è questa la sua bontà.
Recensioni (di Francesca Fiorletta; di Gianni Montieri)
Una famosa performance dei Pearl Jam
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