Prima cosa: lo confesso; penso che, alla fine, il maggior merito dell’edizione, da vero bestseller, che “confeziona” quest’ultimo libro di Enrico Pandiani sia la fotografia che riprende l’Autore, artatamente sistemata nel risvolto cartonato opposto alla quarta di copertina. La trasformazione, in altri termini, è già avvenuta: Pandiani ritratto à la Simenon.

Scherzi a parte, il passaggio da Instar Libri a Rizzoli, per Pandiani, non solo si vede, ma anche si sente, e rende del tutto manifesta quale sia, paradossalmente, la migliore ragione del successo crescente del genere noir.

Perché in questa terza puntata delle avventure del commissario Mordenti e dei suoi colleghi italo-francesi (non a caso sono chiamati les italiens) si rimane favorevolmente colpiti solo dal consueto tono scanzonato, dalle sensazioni episodicamente palpabili, dalla coloritura impressionista dei personaggi. L’intreccio, il finale, la suspence sono, questa volta, solo secondari. Morale della favola: nel perfetto noir dei tempi attuali conta di più l’aura del prodotto e del suo artefice piuttosto che la complessità che quell’aura assume nel contesto di una storia più o meno verosimile. Il Pandiani di Troppo piombo, per dirla tutta, era decisamente più in forma.

Ciò premesso, la trama di Pessime scuse per un massacro è semplice e non esige anticipazioni. Del resto i crimini efferati su cui il bel Mordenti deve indagare poggiano le basi su di uno scenario di sicura presa: la resistenza francese, con le sue spie, con i nazisti, con gli ebrei deportati e con i suoi eroi, specialmente con quelli “falsi”, per i quali i nodi, prima o poi, vengono sempre regolarmente al pettine. E oltre a ciò, per tutto il libro, l’affascinante poliziotto ammicca alle lettrici, vive di svagate intuizioni, continua a muoversi come farebbe un Fred Buscaglione d’Oltralpe, si inabissa in un esotico corteggiamento che, sia pur difficile, non può che andare a buon fine, e attraversa gli ennesimi momenti di crisi e di sofferenza catartiche. Dunque, nulla di nuovo.

Resta, come si è detto, il fascino di un “gruppo d’azione” che nei precedenti lavori era parso più convincente, e di cui vale comunque la pena riprendere, in chiusura, la breve descrizione che lo scrittore torinese ci offre all’inizio del racconto nelle parole del commissario-narrante: “A parte Alain e me, questa volta les italiens erano rimasti a Parigi. C’erano casi da seguire, scartoffie da compilare, così Leila, Michel e Didier e gli altri membri della mia squadra alla Brigata Criminale erano rimasti a fare la guardia al fortino. Ci chiamavano così alla Crim, les italiens, anche se ormai cambiamenti e disavventure avevano portato in gruppo le persone più diverse, Era dai tempi del commissario capo Bruno Pennacino che la storia andava avanti, l’idea di circondarsi di ritals era stata sua. Pareva sicuro che gli italiani fossero più fantasiosi, più capaci. Forse non era vero ma poco importava” (p. 15).

Enrico Pandiani e Les Italiens

Un’intervista a Pandiani

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