Basterebbe l’efficace prefazione di Umberto Fiori per farci presentire qualcosa su questa raccolta di Igor De Marchi e sulla validità delle sue liriche. Fiori è uno dei poeti più bravi degli ultimi vent’anni. Quale affidavit, allora, potrebbe essere migliore? In realtà, la pulizia e la schietta unilateralità di questi versi si presentano da sole. A ciò contribuisce soprattutto un’evidenza linguistica, che è annunciata anche dal tenore, secco e burocratico, del titolo. L’Autore fornisce una cronaca, descrive e non canta, fedele, nello stile, all’oggetto che lo ispira, alla crisi di un’identità, personale e territoriale, ed alla volontà di presentarne la più varia sintomatologia. È proprio vero che il poeta si riconosce dalla sua capacità di avvertire le cose che stanno accadendo prima di tutti gli altri ovvero, e ancor di più, quando stanno incombendo, quando stanno, cioè, per accadere: le poesie di De Marchi sono del 2003, e ci dicono, senza tanti fronzoli, di un decadimento che ora, dieci anni dopo, può conclamarsi, purtroppo, allo stadio del luogo fin troppo comune. Si tratta di una poesia interessante, dunque, anche perché amaramente preveggente.

I momenti più intensi del “rapporto” sullo stato di “reddito e salute” sono concentrati nelle poesie di Ascesa e declino di un giovane agente di commercio (p. 45) e nel successivo Gruppo 3: beni di prima necessità (p. 65). Nella prima serie, quasi un poemetto, posto esattamente nel mezzo della raccolta, a fungere da perno, c’è la rassegnata e disillusa coscienza del popolo delle partite IVA, la scomparsa dei sogni della giovinezza, qualche tocco di malinconia di corpo e di classe, il luccichìo delle brochure aziendali, la monotonia snervante di una flessibilità che è ingorgo e gorgo allo stesso tempo, la ferocia intrinseca all’atto anodino e seriale delle dimissioni. È facile, in queste condizioni, coltivare il dubbio di essersi irrimediabilmente confusi, specchiati tra i maiali rinchiusi nei camion che ci sorpassano e ci circondano nella coda dell’autostrada: E poi: / qui, chi per me / può dire / dove finisce l’a caso del macello / e dove inizia invece / l’equo apprezzamento dei tagli? (p. 57).

Nel Gruppo 3 sono i riti quotidiani a dar corpo e pensiero al tipo psicologico di generazioni sfortunate e smarrite: il rito della soap opera, il rito della sera passata ad origliare la felicità altrui, il rito delle vacanze sempre occupate, eppure foriere di un’ingenua ed effimera aspettativa di futuro… Sicché, di rito in rito, si finisce ben presto ad accettare il presente, a ritenerlo inevitabile, a non stupirsi più dei tanti gatti scavezzati sui cigli delle strade (p. 74), quelli che vengono travolti adesso, nella contingenza, ma anche quelli che ancora devono venire, che per il momento se ne stanno al sicuro e che comunque periranno, perché, diversamente dai cani, tirano dritti e filano via senza guardare / come invece fanno i cani. C’è un fatalismo agrodolce in questi versi, che è anche capacità di provare compassione e di suscitare, con il lettore, un meccanismo di reciproco riconoscimento, cui lasciarsi andare con qualche inquietudine ma senza la paura di scoprirsi da soli. Il dramma che si sta svolgendo non è individuale, è un’intera fase storica e sociale a naufragare, e De Marchi ne traccia le ultime rotte con ricercata asciuttezza.

Il reportage sulla realtà sbiadita e sul processo che porta allo scoprirsene fatalmente parte integrante prosegue – come andamento di uno sguardo, a volte nitido e a volte oscillante, su di una fotografia in bianco e nero o, meglio, sull’immagine di una periferia industriale dismessa (p. 22) – anche al di fuori delle parti centrali del libro, sia prima (nel Gruppo 1: interferenze e nel Gruppo 2), sia dopo (nel Gruppo 4). Esso, anzi, si rivela completamente nelle (belle) poesie che De Marchi compone, con voce onesta e sincera, nel suo dialetto d’origine: perché è chiaro che ogni anno, il tempo che passa inesorabile e la vita in genere sono come na giostra, che te ride senpre manco / e no te pol smontar do (p. 81).

L’esperienza di questo piccolo e piacevolissimo libro non è isolata. Nel momento in cui era stato pubblicato, De Marchi era uno dei tre baldi “poeti dell’A27”, con i quasi coetanei Giovanni Turra e Sebastiano Gatto, in seguito, forse, più noti e più prolifici, ma solo da un punto di vista quantitativo. L’autore del Resoconto, dopo aver autoprodotto un’altra singolare raccolta (Fortune, 2007), è pressoché scomparso dagli scaffali della poesia.

 

il mutuo (da Gruppo 3: beni di prima necessità)

 

Sto pagando un mutuo di quindici anni

per l’appartamento in cui vivo.

Ho sottoscritto una polizza vita

di vent’anni. Il mio promotore

finanziario di fiducia

mi sottopone ogni quindici giorni

vantaggiose opportunità

di investimento a lungo termine.

 

Eppure stento a immaginarmi allora

brizzolato e limpido,

circondato da nipoti

gioiosi e figli amorevoli

come vuole la brochure

dell’assicurazione.

 

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son ‘ndat fòra (da Gruppo 4)

 

Son ‘ndat fòra.

Me bruṡea i òci co tut quel fun,

quel bacan che i fea.

Me à volest un tòc

a ‘bituarme al scur,

un tòc a inprumar la nòt,

parché la luce de la cuṡina

l’imbarluméa.

 

Fòra, a fòrza de strucar

e tirar i òci, i se à netà:

ò vist par aria

tut un formigolar de stele

che le zignéa

come un sgrisolar de garduzh.

E alora i òci te li sente slanpidar,

te sente drento che se desfa na paura

e la te vien su:

la vegnarà forse na òlta

la formiga a canbiarne

tuti sti versi, sti dènt da late,

tuta sta vita che bala e che casca,

a asarne un schèo sul comodin.

O forse l’é meio che me li tegne duro

e magari che i ase

– come quel fiol de un can de me nono –

piantadi in te un pèrsego cru.

 

Una recensione (di Alberto Cellotto)

Sette poesie da Fortune

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