Leo Gazzarra racconta ciò che gli è capitato nel corso di un solo anno, a partire da un certo giorno di pioggia, a Roma. La capitale è la città in cui si è trasferito, da Milano, lasciando genitori e fratelli, per entrare a far parte della redazione di un piccolo periodico specialistico, che ha la sua sede nella villa di un nobile ormai decaduto. La storia comincia in un momento in cui Leo non sa che fare, perché quel periodico non pubblica più e, dunque, deve trovare una nuova occupazione. Ha, però, la fortuna di poter alloggiare, almeno per un po’, nell’appartamento di due amici, che partono per il Sudamerica. Dopodiché, nel salotto di altri amici, borghesi e benestanti, conosce Arianna, bellezza fragile e disfunzionale, e se ne innamora. Assistiamo, così, al più classico dei tira e molla. E nel frattempo Leo ha tempo di perdersi: di vagare di notte, fino al mare, con questa trascinante ragazza; di sbronzarsi con l’eccentrico e irrecuperabile Graziano; di abbandonare un nuovo lavoro, alla Rai, durante il primo giorno di servizio; di lasciare, e poi riprendere, un impiego di secondo piano al Corriere dello Sport; di scrivere con Graziano la sceneggiatura di un film; di rivedere una vecchia fiamma, e ricordare financo che cosa avrebbe potuto essere. All’improvviso, la morte di Graziano, la presa d’atto che Arianna non lo ama e lo utilizza per ingelosire un altro uomo e, cosa non banale, il ritorno dei legittimi proprietari dell’appartamento in cui soggiorna obbligano Leo a cambiare vita, facendogli sorgere l’idea di tornare a Milano. Quella, tuttavia, è una realtà che più non riconosce e che, anzi, di fatto lo respinge, facendolo ricapitare a Roma, dove intraprende un ultimo viaggio verso il mare, l’unica meta che ha sempre saputo promettergli la tanto cercata serenità.

Ho letto il libro assai velocemente nell’edizione Bompiani del 2016, incuriosito dalla fama che il testo ha acquisito nel tempo, sin dalla prima pubblicazione, nel 1973, e poi con l’edizione 2010 di Aragno. Il titolo – a quanto è dato capire – è andato sempre esaurito e ha riscosso grandi successi anche in altri Paesi, in cui è stato tradotto, recensito in modo assai lusinghiero e apprezzato. Online si apprende pure che i diritti per la trasposizione cinematografica sono stati ceduti: Saverio Costanzo, il noto regista, ne farà un film. Forse – secondo la suggestione che possono indirettamente suscitare alcuni recensori – alla ricerca dei successi che Fellini e Sorrentino hanno riscosso, rispettivamente, con La dolce vita e La grande bellezza. Ciò premesso, il valore di questo romanzo non mi pare risiedere solo nel fatto che può richiamare un simile immaginario. O che, in effetti, è quasi una sceneggiatura, per di più dotata di una spiccata forza dell’immagine. Il romanzo è bello e godibile, perché, prima di tutto, è semplicemente ben scritto, con una facilità e una grazia che, paradossalmente, si addicono in toto alla paradigmatica storia di insuccesso di cui Leo Gazzarra è l’indimenticabile eroe. È un protagonista che suscita naturalmente empatia, nel suo costante stare fuori posto: una condizione di deriva, che lo rende sia il testimone perfetto e programmaticamente disinteressato delle vite altrui, sia la vittima ideale di un’ambientazione prevalentemente superficiale. Basterebbe poco a Leo, non è il successo quello che cerca. Ma nessuna cultura, nessuna passione, nessun sentimento, se autentici, come sono i suoi, possono vincere la solitudine. Gli tocca solo di portarsi dietro le poche cose su cui può contare, inutilmente, fino alla fine.

Recensioni (di D. Brullo; di M. Capuano; di G. Genna; di T. Gianotti; di S. Guido; di L. Martini; di P. Mauri; di A. Ragno)

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Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Gianfranco De Bosio, che è stato regista (e co-sceneggiatore, assieme a Luigi Squarzina) de Il terrorista. Il film, che risale al 1963 e ha tra i propri attori anche Raffaella Carrà, è stato nuovamente proiettato, in questi giorni, alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia. Per l’occasione Mimesis ha pubblicato, a cura di Maria Ida Biagi e Giuseppe Ghigi, un interessante volume, che, oltre all’originale copione (già edito a suo tempo per Neri Pozza), raccoglie contributi sulla pellicola e sul suo restauro. Il plot è essenziale. In una Venezia vuota, livida e fredda, sorvegliata dai repubblichini di Salò e occupata dall’esercito tedesco, un ingegnere – un giovane Gian Maria Volonté, già pienamente calato nella sua iconica, tagliente espressività – si pone a guida di un GAP (Gruppo di Azione Patriottica) e organizza un attentato contro i comandi nazifascisti. L’azione non è stata condivisa con il Comitato di Liberazione Nazionale veneziano, che si riunisce clandestinamente, discutendo a lungo e facendo emergere le diverse posizioni delle forze politiche che lo compongono. È in gioco un radicale problema di legittimazione della lotta per la liberazione, e di responsabilità nei confronti della popolazione civile. Mentre si decide di tentare una mediazione ufficiale per evitare sanguinose rappresaglie, l’ingegnere, che nel frattempo ha fatto perdere le proprie tracce, compie un altro atto, questa volta dimostrativo, scatenando però, definitivamente, la reazione nazifascista: venti ostaggi vengono immediatamente fucilati. Il Comitato, nuovamente tormentato per i rischi che incombono, chiede istruzioni al CLN nazionale, che sta a Milano. Ma l’ingegnere e i suoi tentano subito una nuova operazione, che viene sventata, aprendo la strada alla caccia spietata della polizia fascista. La morsa va stringendosi attorno a tutti i cospiratori e pure ai membri del CLN veneziano, e l’ingegnere, prima di intraprendere la fuga, confessa alla compagna Anna le ragioni e l’angoscia della sua disperata risolutezza. Il finale è tragico.

Vedere, o rivedere, oggi Il terrorista è assai importante. In primo luogo, perché il suo carattere asciutto, quasi didascalico, e la recitazione da piece teatrale lo rendono un’efficace testimonianza di un momento drammatico della storia italiana e delle articolazioni spesso conflittuali delle forze che hanno fatto la Resistenza; una testimonianza tanto efficace perché verosimile e credibile, visto che De Bosio ha vissuto in prima persona l’appartenenza a una brigata partigiana (la Brigata “Silvio Trentin”, comandata dal patavino Otello Pighin). Ciò che colpisce è la capacità di ricostruzione e rielaborazione critica, visto che la composizione è assai consapevole e matura: a dimostrazione che anche dall’interno del mondo che ha partecipato direttamente alla Resistenza l’autoanalisi è sempre esistita. In secondo luogo, vi si trova rappresentato l’intreccio disperante, vissuto dall’ingegnere gappista, tra tensione ideale e civile, da un lato, e abisso morale, dall’altro: nel volantino di rivendicazione del primo attentato, il protagonista si compiace alla lettura della frase “È necessario agire anche se agire porterà necessariamente a soffrire”; nel dialogo intimo con Anna, però, improvvisamente, la fragilità esistenziale, la solitudine e le incertezze prospettiche di questa posizione vengono completamente allo scoperto (siamo sicuri che, dopo tanta sofferenza, non ci “sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… anestetizzare… da un po’ di pace e di abbondanza”?). Su questo piano, il film passa dalla ricostruzione quasi documentaristica alla messa in scena di una dinamica tristemente universale, e anche attuale. Assume, infatti, i toni e la forza di una tragedia classica, che come tale tocca nel profondo e continua ancora a interrogarci.

Il film in versione integrale

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Questo romanzo è stato pubblicato in Francia nel 1984. A Edizioni di Atlantide va il merito di offrirlo oggi, per la prima volta, ai lettori italiani, confermando una speciale sensibilità non solo per le proposte più originali, ma anche per le riscoperte. Ed è in effetti singolare e affascinante, e disorientante, la storia di Armin Stern, un protagonista che si racconta da sé, talvolta in prima persona, altre volte in terza. Nato a Kronstadt, l’odierna Brașov in Romania, Stern è il giovane rampollo di una famiglia benestante di commercianti di origine ebraica. La sua infanzia si svolge nel cuore di una città e di un territorio ricchi di storia, vivaci e mitteleuropei per eccellenza, nella più spontanea e complicata mescolanza di lingue e culture. È legatissimo a questi luoghi, di cui sogna le antiche leggende, soprattutto la misteriosa e tragica figura di una sfortunata principessa. Tanto che si sentirà sempre accompagnato dalle apparizioni di una strana figura femminile. La seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista, sconvolge l’esistenza di Arnim e della sua famiglia. Riesce, tuttavia, a cavarsela e a studiare letteratura. Ma l’arrivo dei sovietici getta il Paese in un clima di nuovo pericolo e, mentre l’amico Ariel si tuffa entusiasta nel regime entrante, Armin rischia di finire in un campo di lavoro. Comincia così una lunga e costante peregrinazione, che da Haifa lo porta a Ginevra e a Parigi, dove – non prima di uno straniante periodo di lavoro ai tropici – riesce a integrarsi come professore universitario e sposa Matilde. Ma la quiete non arriva. Kronstadt, le occasioni perdute, la rovina di un mondo orami fiabesco continuano a tormentarlo, in un nostalgico e ricorrente struggimento. Oltre a ciò, uno strano e incombente pericolo minaccia seriamente la sopravvivenza di Armin come quella di tanti altri esuli. Nemmeno l’ospitalità di Ariel, che nel frattempo è fuoruscito in Spagna, sembra costituire un rifugio adeguato. Lo smarrimento cresce e si esalta, fino all’epilogo, in cui una dimensione onirica ha definitivamente il sopravvento.

“Arnim Stern tenta di incorporare il flusso tumultuoso dei suoi ricordi in un insieme che vorrebbe strutturato”: in questo modo, ad un certo punto, Reichmann/Stern parla incidentalmente di sé e della sua condizione sradicata e confusa. D’altra parte il romanzo stesso comincia quasi dalla fine, perché si dipana come flusso di ciò che l’esule rammenta del suo passato, mentre sta raggiungendo la casa di Ariel a Corcubión, in Galizia. Arnim, infatti, è alla ricerca. Vuole trovare una spiegazione e, contemporaneamente, un futuro al limbo perenne cui si immagina di essere consegnato, tra fallimenti relazionali e sentimentali, da un lato, e persecuzioni politiche, dall’altro. Si ha la sensazione, in qualche passo, che egli guardi alla sua situazione come a una forza di gravità cui è soggetto tutto il mondo, coinvolto com’è nello scontro tra superpotenze, in molteplici focolai di guerra, in frequenti attacchi terroristici, in intricati intrighi spionistici. Non c’è dubbio, al riguardo, che Reichmann abbia raffigurato in maniera particolarmente riuscita la classica figura, e la psicologia, dello juif errant: sovvengono presto, al lettore, le altrettanto tipiche rappresentazioni di Chagall (quelle più fantastiche e volanti, ma anche quella più conosciuta e famosa). Ed è anche notevole il modo con cui l’Autore costruisce un personaggio che porta sulle sue spalle sia secoli di storia, sia la maledizione di chi, solidamente piantato nell’humus che lo ha visto nascere, non riesce ad abbracciare veramente alcuna cornice collettiva: né quella dei suoi progenitori, né quella dei luoghi in cui si trova a vivere. Con l’esito che, in una realtà (la Storia con la Maiuscola) che è del tutto aliena da qualsiasi redenzione poetica, a Reichmann/Stern, che vorrebbe essere semplicemente, e ingenuamente, se stesso, tocca solo di sciogliersi nella narrazione universale in cui si è pervicacemente aggrovigliato. A buon diritto, in una delle prime recensioni, si sono richiamati Federico Fellini e il De Sica de Il giardino dei Finzi Contini; anche se, forse, a Reichmann si dovrebbero riconoscere pure un po’ di Pirandello e di Kadare. Giusto per sancire che la sua prosa abbraccia tutti i tormenti del Novecento.

Recensioni (di A. Litta Modigliani; B. Lolli; A. Mezzena Lona; C. Musso; S. Solinas)

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La storia contenuta in questo romanzo è raccontata dalla voce di Marco, un giovane aspirante studioso, che si è laureato in Lettere a Padova. Tutto comincia nella ricostruzione del rapporto tra lui e Federico, suo compagno di corso. Pur accomunati dall’intenzione di inserirsi nel mondo accademico, i due sono assai diversi. Marco è di umili origini, proviene da un piccolo paese della provincia di Treviso e ha un carattere tendenzialmente riservato. Il fatto di essere omosessuale lo pone anche al di fuori delle relazioni affettive che molti suoi colleghi possono intraprendere. Federico è padovano doc, di famiglia benestante ed è assai estroverso: in altre parole, sa vendersi bene, tra i coetanei e le ragazze come tra i professori. Le strade dei due apparentemente si distanziano quando Federico si iscrive a Bologna per la laurea magistrale. Ma poi, all’improvviso, i docenti patavini con cui collabora Marco preferiscono Federico, al quale viene assegnato il compito retribuito di curare un carteggio tra due figure minori di intellettuali scrittori operanti negli anni Sessanta. Marco, nel frattempo, pur continuando a frequentare saltuariamente l’università, comincia a fare il supplente in una scuola media. La ricerca di Federico sembra rivelarsi molto promettente, tanto da spingerlo a scavare nei rapporti tra uno di quegli scrittori, Vittorio Ferretti, il più famoso, e Maria Zanca, una misteriosa meteora della letteratura femminista, tuttora vivente e residente nel piccolo paesino montano di Lastebasse, tra la provincia di Vicenza e il Trentino. Gli ulteriori sviluppi paiono a dir poco inquietanti e inspiegabili, fino all’epilogo, falsamente normalizzante, in cui Marco ritrova, quasi per un sortilegio, la via accademica che fino a quel momento gli era parsa ormai preclusa.

Si è molto parlato, negli ultimi tempi, del (bel) libro di Dario Ferrari,La ricreazione è finita, come di un godibile e riuscito romanzo sull’università. La scrittrice nel buio – più breve e, a prima vista, più semplice e lineare – lo supera. Malvestio, infatti, allestisce una macchina narrativa su più piani, che pare condurre il lettore in una direzione (la vicenda tra Marco e Federico) e, poi, invece, lo sposta in un’altra (la vicenda su cui i due compiono le loro indagini), per tornare infine alla vera chiave del racconto (la non-relazione tra i due non-amici e la spietatezza del contesto in cui essa si disvela). Nel mentre, l’Autore crea un’ambientazione un po’ mistery e un po’ weird, che, ruotando attorno alla figura spettrale di Maria Zanca, si nutre di suggestioni ulteriori (l’eterno e spontaneo femminino vs. l’artificio e la falsità della postura maschile) e stende a sua volta sulla intera trama una tensione via via sempre più palpabile. È un crescendo, del tutto funzionale al movimento che lo scrittore intende compiere (ritornando all’università, e “invertendo la posizione” dei due personaggi principali) e che si coglie nella sua vera luce soltanto in chiusura. Perché, senza voler rivelare null’altro del libro, quello di Marco – che umile, serio e pacato rievoca le esagerazioni e le vacuità dell’ambizioso Federico – altro non è che il più classico dei patti faustiani, concluso, però, con una forza diabolica che non sta nel soprannaturale, ma nell’oggetto stesso delle aspirazioni dei due accademici in erba. È così, dunque, che lo sguardo critico dell’Autore non passa per le connotazioni pressoché stereotipiche e superficiali (eppure a tratti verosimili) con cui si delineano gli interlocutori scientifici dei due ragazzi; ma si intreccia, in maniera letterariamente efficace, con il potere bruciante dell’incantesimo che occorre accettare per poter trovare un proprio posto in un certo mondo.

PS: il romanzo merita una notazione supplementare, che riguarda il personaggio di Maria Zanca, riuscitissimo e degno di una sceneggiatura virtualmente magnetica. Non si può fare a meno di pensare, peraltro, che, oltre a riferirsi a Lovecraft per la generale atmosfera che permea la narrazione (Federico ne legge i racconti… sicché il rinvio è dichiarato), Malvestio si sia, almeno in parte, ispirato alle anguane di Umberto Matino e alle fosche e avventurose location dei romanzi cimbri che quest’ultimo ha prodotto nel corso degli anni

Recensioni (di L. Gafforini; di D. Ippolito; di N. Trevisan)

In conversazione con l’Autore

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Nella Postfazione che Alessandro Zaccuri ha offerto a questo libro si legge che, in sostanza, Plevano ha dimostrato che col Medioevo non si deve inventare nulla per scrivere un ottimo romanzo storico. Perché il Medioevo è ricco di luoghi ed eventi notevoli, personaggi, costumi, pensiero, vicende piccole e importanti tra loro intrecciate: la materia, in definitiva, sgorga quasi da sola. Inoltre il Medioevo è più vicino a noi di quanto si possa credere: gli storici, infatti, sanno ormai bene che in quell’Età, a lungo immaginata come oscura, si nascondono molte e significative radici della modernità. Quello di Zaccuri è un giudizio quanto mai condivisibile. Tanto più che la scena su cui l’Autore ambienta la trama è quella, a dir poco densa e vorticosa, e dunque letterariamente fruttuosa, del Veneto della prima metà del XIII secolo, dominato dal signore della Marca Gioiosa, Ezzelino III da Romano. Vicario di Federico II in alta Italia, Ezzelino, considerato come un tiranno, ha riunito con le armi i territori di Treviso, Vicenza, Padova e Verona. Un pezzo di romanzo, quindi, è tutto dedicato alla parabola avventurosa e spietata di Ezzelino e alla fine drammatica e violenta cui è andato incontro – e che si è parimenti abbattuta su quasi tutta la sua famiglia – dopo la sconfitta subita nel 1259 a Cassano d’Adda, alle porte di Milano, per mano della lega guelfa. Sul punto Plevano si fa cronachista attento, indugiando anche su spezzoni di tecnica militare e vita di corte, e restituendo, delle figure storiche volta per volta menzionate, un ritratto particolarmente vivido e affascinante. Un po’, certo, parteggia per il rigore, la fermezza e l’audacia del terribile Ezzelino e per gli uomini fedelissimi delle sue masnade pedemontane. Ma in proposito, a ben vedere, si inserisce nell’autorevole filone storiografico che meglio ha ricontestualizzato e valorizzato l’esperienza e il progetto di quella signoria; quasi ci trovassimo dinanzi ad una vistosa anticipazione – un’occasione mancata – di un modello di governo che l’Italia conoscerà solo tra XV e XVI secolo.

Nel romanzo esiste anche un’altra dimensione, di fatto più ampia e prevalente. È quella del narratore, ruolo che viene affidato ad Amalrico della Provincia: un magister che è anche poeta, costruttore di temibili macchine da guerra, medico addottorato alla famosa scuola di Salerno, amico e consigliere di Ezzelino. Amalrico – che sintetizza in se stesso saperi, culture e aspirazioni ricchi e differenti, ed è un evidente alter ego dell’Autore – assume una duplice veste. Da un lato è il protagonista del racconto a tutti gli effetti. Ne seguiamo i ragionamenti, gli interventi militari, gli insegnamenti, i sentimenti. Ne conosciamo il legame strettissimo con la famiglia di Ezzelino e con Cunizza, il grande e segreto amore della sua vita. Ne constatiamo la vicinanza spirituale con l’imperatore Federico. Ne apprendiamo le origini provenzali e la religiosità atipica, che lo condurrà a condividere la drammatica sorte degli eretici. La sua voce e le sue riflessioni accompagnano e avvolgono il lettore dall’inizio alla fine. È così che emerge l’altra funzione del personaggio, a far da spalla all’idea riqualificante e anticipatrice che Plevano premia circa la figura di Ezzelino. Amalrico, infatti, è un proto-umanista a tutto tondo, alieno da ogni stolido fanatismo; è un campione di tolleranza, pur nella coscienza della necessità di un governo giusto e saldo; è il manifesto vivente di una saggezza mite e multiforme, che viene da lontano e ha fiducia nella conoscenza, dovunque provenga. E per ciò solo è anch’egli destinato ad essere incompreso. Allora come ora, diremmo. Come se gli appuntamenti perduti di una certa e remota epoca storica continuassero ad essere tali anche per la nostra contemporaneità. Ad ascoltarlo bene, Amalrico ricorda un po’ Zenone de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar. Solo una nota conclusiva, anche per tornare alle suggestioni sul genere del romanzo storico. Nella decisione di lasciar parlare il suo eroe e di seguirlo meticolosamente nell’universo in cui è inserito, l’operazione condotta da Plevano si può accostare a quella sperimentata da Beppi Chiuppani nel suo (monumentale) Gasparo: momenti storici e figure del tutto eterogenei, ma metodo immersivo, e a suo modo ipnotizzante, del tutto comparabile.

Recensione (di R. Ferrazzi)

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Disclosure preliminare: Acitelli è uno dei miei Autori preferiti; uno di quelli cui torno ogni tanto, per ritrovarmi. Fortuna vuole, poi, che non sia così difficile procurarsi un suo libro, perché tra volumi in prosa e opere poetiche la produzione è assai vasta. Quanto ai prodromi di di tale frequentazione, la complicità è scattata molti anni fa, con La solitudine dell’ala destra. Che non è solo una graziosa e nota raccolta di ritratti di grandi calciatori. Vi si trovano – veramente – alcuni tra i versi migliori della poesia italiana della fine del secolo scorso. Di Acitelli questa volta ho scelto Cinema Farnese, un originale romanzo in forma di taccuino, ambientato negli anni Settanta. È il diario colloquiale dell’io narrante, un giovane studente universitario di Roma, che è iscritto a Farmacia, ma ne diserta spesso e volentieri le lezioni. Il suo interesse è tutto per certi spazi del centro, tra Corso Vittorio, Piazza del Paradiso, Campo de’ Fiori, Piazza Farnese, Via Giulia. Ne osserva la fauna: da un lato, baristi, barbieri, camerieri, vecchi impiegati, a rappresentanza di un mondo di popolo in via di rapida sparizione; dall’altro, gli ambulanti, qualche barbone e, soprattutto, la generazione dei fricchettoni – veri e falsi – che si riunisce sotto la statua di Giordano Bruno e di fronte al Cinema Farnese. Dove i due universi, letteralmente, si toccano e si mescolano. Ma il ragazzo, più di tutto, ama immergersi nelle atmosfere che le pietre, i palazzi straordinari e la varia umanità di contorno gli parano di fronte. Gli piace perdersi in fantasticherie totalizzanti. E ascoltare, e spiare, i poeti del momento, che gravitano nella stessa zona: Bellezza, Paris e specialmente Veneziani. Proprio a un reading di poesia, non a caso, conosce una bella fricchettona, che lo attira in una sensuale e corrisposta relazione, e in tanti e intensi incontri in una fascinosa mansarda di Via di Monserrato.

Cinema Farnese è una pillola del miglior Acitelli. È prova ulteriore del suo peso specifico, che è quello del trovatore e antropologo di una romanità tanto personale quanto prototipica. Nella quale il Magnifico e il Sorprendente, che sono diffusi a ogni angolo della città, si compendiano con il più Semplice e Umano, anch’essi sottoposti da tempo a un processo di lenta consunzione e bisognosi, dunque, di custodia e di memoria. Ciò che è interessante, però, è che in Acitelli la descrizione delle cose e delle persone è medium per un’esperienza toccante, profonda, quasi iniziatica, che si alimenta ai ricordi delle scoperte d’infanzia, ma da esse pure si astrae, per produrre alimento attuale e universale a una sensibilità perennemente assetata. D’altra parte, anche quando si esprime nella prosa, Acitelli è intrinsecamente e assolutamente poeta, inteso a spremere il succo di ogni piccolo, grande dettaglio, perché prezioso. E l’autobiografia (che è sempre tanta) altro non è che un giacimento in cui immergersi continuativamente, l’eterno più prossimo cui accostarsi e raccordarsi. Verrebbe da svolgere un’argomentazione più complessa, il cui esito sarebbe questo: all’Autore riesce di vivere, in Roma, la provincia più autentica, consentendo, così, a quella immensa Idea (che la caput mundialtro non è) di sprigionare dal basso e dal quotidiano le correnti carsiche che la animano e che possono fungere, per ciascuno, come una sorta di speciale lampada di Aladino. Soltanto due aggiunte, per chiudere: 1) per trarre da Acitelli il massimo della soddisfazione occorre dargli fiducia, abbandonarsi alle sue pagine, ascoltarne il respiro (non è uno scrittore facile, va un po’ scalato, sapendo che dalla vetta ciò che si vede è molto bello); 2) per chi abbia un po’ di tempo, come per chi abbia modo di stare spesso a Roma, i libri di Acitelli sono guide perfette (le strade, gli edifici, le chiese, i piccoli portoni delle vie del centro… è tutto vero, tutto afferrabile; letto Acitelli, si guarda Roma con occhi diversi; anzi, la si guarda davvero, per la prima volta).

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista ad Acitelli… sulla strada del padre

Acitelli sulle tracce di Sandro Penna

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Seconda guerra mondiale: Charles Ryder è un ufficiale dell’esercito inglese di stanza sul suolo britannico. Tra un’esercitazione e l’altra le truppe finiscono nella tenuta di Brideshead, proprietà storica dei Lord Marchmain. E Charles comincia a ricordare. In primo luogo, di quando è stato lì la prima volta, anni addietro, con Sebastian, giovane rampollo della ricchissima casata e suo compagno di studi e di bagordi a Oxford. Si avvia così il racconto di un’amicizia profonda, di una famiglia singolare, di una vita spensierata; ma anche di dissapori, confronti, distacchi e ritorni, come dell’amore tardivo con Julia, la sorella di Sebastian, figura a suo modo simbolica di un generale destino di trasfigurazione e decadenza, dalla quale, del resto, anche il fratello viene travolto. Questo romanzo, che ha ormai raggiunto da tempo la dignità di classico, non solo raffigura in modo semplice ed elegante le aspirazioni e fascinazioni di un’intera generazione; rievoca, più di tutto, un clima e un momento storico sospeso tra la rievocazione di un passato irripetibile e la percezione forte di un tracollo imminente. Forse sono le guerre che al principio del Novecento cambiano i connotati alla società europea, o forse è l’economia a dare ingresso a nuovi rumorosi protagonisti e a cancellare la grazia e l’imbattibilità di un tempo che fu (ma le due cose stanno perfettamente assieme). Ciò che il capitano Ryder apprende è che quel mondo non tornerà e che, tuttavia, la memoria può ancora alimentare una piccola fiamma nel cuore.

Le peculiarità e gli alterni successi di questo libro – con spunti curiosi sul suo carattere in tutto o in parte autobiografico, e sull’influenza che potrebbe aver avuto la conversione dell’Autore al cattolicesimo – sono ben ricordati da Alessandro Piperno nella prefazione che illustra la presente edizione. Va aggiunto che Ritorno a Brideshead è un romanzo che superficialmente si potrebbe definire sentimentale, anche se occorre capire di che sentimento, o di quali molteplici sentimenti, si tratta. Se ci si abbandona ai pensieri del protagonista e alle immagini che ci proietta di fronte, si passa, certo, per stati d’animo molto diversi. Ciò che prevale, però, è un marcato struggimento, talvolta nostalgico: per una giovinezza sospesa e ancora gravida di occasioni, per quel senso di indeterminatezza che prima della maturità permette di pensare davvero a una felicità possibile, per la intrinseca bellezza di una civiltà che si percepisce irrimediabilmente superata. Naturalmente, a quest’ultimo riguardo, le vicende raccontate da Waugh costituiscono anche il ritratto fedele della nobiltà inglese – e quindi delle sue magioni, dei suoi luoghi notevoli, riti e tipi psicologici – nel momento storico della grande crisi: a chi è piaciuta la serie TV Downtown Abbey, o anche SaltburnRitorno a Brideshead non può non piacere. Ma il punto è che qui, prima di tutto, oltre al fascino dell’ambientazione, c’è la letteratura nel suo formato più puro e spontaneo, con le parabole universali di uomini e donne. E con l’effetto che, lasciandosi andare, quella di Charles Ryder diventa una personalissimastoria per tutti.

Brideshead revisited (la serie del 2008)

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La fossa dei lupi si può acquistare e leggere solo per estrema curiosità. Il soggetto, infatti, è potenzialmente stimolante. Ma le attese vanno moderate con cura, attivando sin dal principio un sano senso delle proporzioni. Visto che Ben Pastor – la giallista che Sellerio ha fatto apprezzare con la pubblicazione delle indagini e avventure di Martin Bora, ufficiale della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale: personaggio non ignoto a queste pagine – si confronta, addirittura, con un esperimento dichiaratamente impossibile: scrivere la continuazione dei Promessi sposi. Appare subito chiaro, in realtà, che l’Autrice non vuole – né potrebbe, del resto – riprendere il filo del potente affresco manzoniano. Il suo è solo un nuovo sforzo di fedele ambientazione storica, alla ricerca di un ulteriore eroe letterario (dopo Bora, infatti, la Pastor si è cimentata con la caratterizzazione di altri detective: il romano Elio Sparziano, direttamente dal IV secolo d.C.; e la coppia Meisl-Heida, un medico e un ufficiale che operano nella Praga del 1914). Qui è la volta di Diego Antonio de Olivares, giovane nobiluomo di lignaggio spagnolo e luogotenente di giustizia nella Milano del 1631. Il quale è incaricato nientemeno che delle indagini sulla morte improvvisa di Bernardino Visconti, il famoso Innominato, da ultimo assassinato con un colpo di calibro in un agguato notturno lungo un impervio sentiero della montagna lecchese.

Che dire di questa sperimentazione seicentesca? Sul piano del giallo, purtroppo, c’è poco da valutare. La trama è lenta e un po’ leziosa, e la soluzione è tutt’altro che misteriosa. Inoltre, le figure dei Promessi sposi – da Renzo a Lucia, da Agnese a Don Abbondio, dal defunto don Rodrigo alla monaca di Monza – ri-compaiono in una versione quasi macchiettistica, secondo lineamenti che da semplici si fanno un po’ troppo semplicistici. Vero è che l’Autrice lascia trasparire qualche personale antipatia, personalizzando l’universo del Manzoni in maniera talvolta un po’ comica, e in fondo paradossalmente gradevole. Tuttavia queste nuances non sono risolutive. Il tutto, poi, contrasta fin troppo con il profilo, viceversa convincente, di Olivares, per il quale – promesso e aspirante gesuita, ma in via di progressivo pentimento, specie mercé lo spirito e le grazie della bella, indipendente e curiosa Donna Polissena – non si può non provare simpatia. Con ciò occorre, dunque, concludere che, se l’omaggio a Manzoni – della cui sincerità, certo, non si dubita – non risulta riuscito, lo studio della scena e della cultura milanesi del tempo e la strutturazione di un futuro, credibile, protagonista per prossime, autentiche, e originali, imprese riescono prospetticamente promettenti. Anche perché ne La fossa dei lupi non si assiste solo alla nascita di un investigatore intelligente e smaliziato, ma ci si diverte abbandonandosi alla incerta fluttuazione dei suoi pensieri, dei suoi dubbi morali, del suo senso di giustizia. In altre parole, della sua formazione di uomo adulto, autonomo e responsabile. Che, come bene intuisce la Pastor, solo una spiazzante e intelligente educazione sentimentale può correttamente alimentare.

Un’intervista all’Autrice

Il romanzo in forma di audiolibro

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Giovanni Pascoli mi ha sempre affascinato. È accaduto al primo impatto, sui banchi di scuola. Pareva un autore troppo semplice, quasi banale. Doveva per forza nascondere qualche mistero; un segreto che non fosse, naturalmente, quello che di solito si decritta anche nelle più comuni antologie. Come è noto, infatti, lo scioglimento dell’enigma è intravisto a metà strada tra una spiccata e riconoscibile abilità di innovazione e sperimentazione linguistica e di padronanza metrica e stilistica, da un lato, e, dall’altro, la poetica del nido come tenace ispirazione al ripiegamento luttuoso, tragico e doloroso in un confine di cose, di sensazioni e di affetti familiari e minuti. Ma questa lezione, a ben vedere, non è completamente convincente. Specie se presa come unica e, per così dire, autentica. Anche l’eccellente e persuasivo scavo di Cesare Garboli, a partire dal volume sulle Trenta poesie famigliari, non ha mutato il quadro critico di riferimento. Anzi, paradossalmente, lo ha tanto più consolidato attorno all’immagine esclusivizzante e a dir poco ambigua del rapporto tra il poeta e le sorelle Ida e Mariù (e soprattutto quest’ultima, elettasi in seguito al ruolo di custode ufficiale della memoria di Giovannino e della sua immagine). In anni recenti, però, la produzione di una nuova biografia e la pubblicazione del carteggio col fratello Raffaele – opere entrambe di una appassionata studiosa – consentono di allargare lo spettro dell’analisi pascoliana. Di rivelarne, cioè, una complessità ancor maggiore, e di valorizzare – nel tentativo di abbracciare una personalità mossa da forze talvolta contrastanti o addirittura contraddittorie – sia gli studi danteschi (a lungo misconosciuti, per la loro apparente oscurità), sia il corpus dei contributi in prosa (spesso valutati come occasionali o eccessivamente retorici). In particolare, ciò che si traguarda non è più l’esperienza dell’uomo prigioniero di un dramma e di una correlata istanza di ricostruzione e protezione affettive, bensì la dimensione del Pascoli proiettato nel futuro, innovatore e creatore di un nuovo approccio nei confronti della vita e dell’universo. Una dimensione, questa, che non è estranea al fattore psicologico, ma che con esso convive e si lega quasi sinergicamente, producendo un quid di irriducibile positività.

Di quest’ultima ispirazione costituisce esempio emblematico il libro di Giuseppe Grattacaso. Che si sviluppa in un originale ritmo alternato, dove alla meticolosa rivisitazione di alcune delle più celebri poesie pascoliane (tra cui L’aquiloneX agostoIl ceppo) si intervallano efficaci carotaggi in molti degli snodi cruciali dell’itinerario esistenziale e di pensiero del poeta di San Mauro. È proprio attraverso queste tappe, illustrate al lettore con sapiente oculatezza, che l’Autore riporta alla luce un Pascoli parzialmente diverso. Lo vediamo, ad esempio, nell’esuberante e fecondo periodo messinese, alla ricerca di un riconoscimento pubblico e di una posizione sociale che a tratti gli paiono più che tangibili. E lo scopriamo anche nella fedeltà che riserva alle sue amicizie e nella volontà di farsi portavoce visionario di una inedita forma di umanità, resa cosciente dai progressi della scienza. Allo stesso tempo, però, lo comprendiamo anche in tutta l’ambiguità e fragilità del suo carattere, che ce lo mostrano “come le foglie della sensitiva”, facile a ripiegarsi su se stesso al primo segnale di pericolo o di insuccesso. Sicché il sentimento di una strutturale, ma essenziale, precarietà diventa, per Pascoli, porta privilegiata di accesso per un’inedita Weltanschauung: la conoscenza sempre più precisa, e disorientante, della realtà è sostenibile, e diventa, addirittura, fonte di energia e di forza, soltanto alla condizione di cogliere la “spaventevole proporzione” tra ciò che è infinitamente piccolo e ciò che è infinitamente grande. In questa prospettiva, la sovrapposizione tra il presente e il passato come la prefigurazione del futuro e la custodia del ricordo non sono altro che funzionali ed efficacissime tecniche espressive. Non solo pongono Pascoli quale antesignano di esplorazioni e sensibilità tipicamente novecentesche (quale quella proustiana), ma consentono al poeta “fanciullino” di diventare “sacerdote”, mentore qualificato di una riconnessione palingenetica alla natura e al cosmo intero. È così che dal buio di una parabola calante si fanno strada una sofisticata proposta epistemologica e un kit di salvezza individuale e collettiva. Niente male per colui che finora è stato etichettato come grande incompreso e malinconico aedo contadino.

Giovanni Pascoli nella Treccani

La Fondazione Pascoli (a Castelvecchio) – Il Museo Casa Pascoli (a San Mauro) – La Rivista Pascoliana

Pascoli secondo Renato Serra (un famoso saggio) – Pascoli secondo Cesare Garboli (un testo, un’intervista, una lezione) – Un’intervista impossibile (Arbasino intervista Pascoli)

I grandi della letteratura italiana: Giovanni PascoliPascoli “Narratore dell’avvenire”Pascoli a Barga

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Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.

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