“Da sempre gli uomini detestano la condizione umana. Si adattano male a quello che sono, si preferirebbero dèi, statue, magari alberi. Poiché odiano il vuoto vertiginoso da cui sono costituiti, si spacciano per più solidi, più densi, meno effimeri, si inventano delle radici. Oggi come ieri si definiscono attraverso un luogo di nascita, una famiglia, un clan, una nazione, una religione. Si incollano, si fondono, si legano a ciò che non è loro e che rimane, si attribuiscono consistenza, cercano di colarsi nel bronzo. Siccome rifiutano di accettare un’identità problematica, la sostituiscono con identità che vorrebbero senza problemi. Dimenticando di essere un uomo, ognuno si concepisce americano, cinese, francese, basco, cattolico, musulmano, omosessuale, ricco, povero… Come se l’uomo fosse ricoperto per intero da una maschera, come se un abito dissimulasse la condizione umana… Beethoven però non si fa abbindolare”.

Con questo estratto (p. 47), l’Autore “autopresenta” nel modo migliore e più incisivo il suo gradevolissimo lavoro.

Eric-Emmanuel Schmitt, del resto, ci ha già abituati a coniugare profondità e schiettezza. La parte dell’altro (il terribile romanzo sull’inevitabilità dell’“uomo” Hitler) e Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano (che, forse anche per la sua dolce immediatezza, ha trovato una nota e fortunata trasposizione cinematografica) sono letture pressoché obbligate.

Da segnalare, invece, è la decisione di dedicarsi anche alla musica, con un vero e proprio ciclo, “Il rumore che pensa”, che ha già preso avvio con un’altra e precedente riflessione su Mozart (La mia storia con Mozart), e che, quanto agli annunci dello stesso Schmitt, promette di toccare Bach, Schubert e, speriamo, altri grandi maestri della Classica.

Le ragioni di Beethoven sono presto dette; sono “esplicitate” tout court nella citazione sopra ripresa.

Quanto bisogno ci sia, anche oggi, del corredo di valori (umanismo, eroismo, ottimismo) che l’universo del celeberrimo compositore sa evocare, in modo così unico e forte, è constatazione troppo banale. Da questo punto di vista, non si può che concordare con la frase da cui è formato il titolo stesso del libro e che si deve ad una magistrale ed iconica figura di insegnante di piano (dal nome altrettanto indimenticabile, Vo Than Loc), che lo scrittore dice di ricavare dai ricordi della sua adolescenza. Ascoltare Beethoven, in sostanza, aiuta ad avere fiducia, ed anche il breve racconto che segue alla riflessione più propriamente saggistica (Kiki van Beethoven) è la “messa in scena” di piccoli, ma al contempo grandi, episodi di redenzione individuale e collettiva.

Le ragioni di un’opera à la Schmitt, invece, non sono così scontate.

Essa non piacerà ai puristi del genere; e non entusiasmerà neppure il lettore mediamente colto. Nonostante ciò, questo approccio, che si arricchisce anche di semplicissimi inviti all’ascolto, facilitato dal cd allegato (nb: se ne consiglia l’utilizzo durante le prime colazioni di ogni giorno…), è il miglior viatico per riappropriarsi di significati che solo la musica può comunicare e che ci sono veramente essenziali.

Si può anche dire di più: non solo la Classica merita ambasciatori degni del suo Nome; tutta la Musica lo merita; perché ogni Nota, in fondo, ci accorda una volta di più e ci aiuta a metterci, o a ri-metterci, sul binario giusto.

 

Il primo brano scelto da Schmitt: Ouverture del Coriolano in do minore, Op. 62

Esecuzione dei Wiener Philharmoniker, diretti da Christian Thielemann

Esecuzione dell’Orchestra Mitteleuropea “Lorenzo Da Ponte”, diretta da Roberto Zarpellon

Un approfondimento speciale, dalla BBC

The Beethoven Experience

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Quali sono gli indicatori che ci consentono di misurare il modo con cui un paese accoglie gli stranieri e il relativo livello di integrazione? Studi sociologici, economici e giuridici si interrogano costantemente sul punto, e questo senza che si possa davvero registrare l’esistenza di posizioni condivise. Una detective story, però, può aiutarci. In che senso?

Carta straccia non è un masterpiece… È una storia scalcinata, con una trama interessante ma a tratti sconnessa. Un investigatore tedesco di Francoforte, un po’ “cialtrone” e disordinato, è ingaggiato dall’ordinario Sig. Weidenbusch: deve ritrovare Sri Dao, la giovane tailandese di cui quell’ometto spaventato si è innamorato; questa, con permesso di soggiorno scaduto e alla ricerca di un modo per poter restare in Germania, è scomparsa, rapita da coloro cui si era rivolta per ottenere documenti falsi. Chi sarà mai stato l’autore del rapimento? C’entra, forse, il suo precedente datore di lavoro, il direttore di un night? Comincia così l’avventura di questo tipico etno-thriller, un po’ hardboiled, e si snoda velocemente tra colpi di scena, macchiette, battute e situazioni sia comiche, sia violente. Anche il finale è interessante e, nonostante una traduzione forse non impeccabile, non lesina qualche sorpresa e dice molto su quale e quanta possa essere l’amicizia, e su quanto e quale possa essere l’amore. Ma tutto ciò non è il valore aggiunto del libro. Almeno nel senso di cui sopra.

Il vero motivo per cui questo giallo atipico è di fondamentale importanza è che il detective, certo, è tedesco, ma di origine turca. Si chiama Kemal Kayankaya, conosce a menadito i bassifondi della sua città e si permette di sbeffeggiare la xenofobia ridicola dei suoi insospettabili vicini di casa, l’arroganza della “crema” dei criminali autoctoni, oltre che la protervia delle figure apparentemente più austere della polizia locale, svelandone le ipocrisie, le presunzioni e la povertà morale.

Ecco, il grado di integrazione di una società è presto detto: se essa ci consente di avere simili e deliziose figure di detective, allora, forse, non tutto è perduto, e possiamo sorprenderci a constatare che le parole e i sentimenti più dolci sono quelli di chi, come Sri Dao, non parla la nostra lingua, conosce poche e frammentate parole inglesi, ma ha soltanto voglia di vivere normalmente.

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Non è un richiamo ad un’immagine suggestiva, e non è neanche soltanto il titolo dell’omonimo e quasi “acido”, ma grazioso, pezzo che è raccolto nel volume (a pag. 87: da leggere subito, per togliersi immediatamente ogni curiosità). Balistica è davvero un proiettile. Perché la sua lettura ha la forza di attraversarci senza pietà e di spazzare via, finalmente, ogni dubbio: esiste ancora la buona poesia, e possiede una traiettoria precisa e comprensibile.

Proprio questo, d’altra parte, è il metro costante di Billy Collins, la sua caratteristica distintiva, la qualità che gli ha consentito di essere, dal 2001 al 2003, “Poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti”, ma anche di riempire ripetutamente le sale in cui sono organizzati i suoi readings. Udite, udite: anche la poesia ha successo! Strano, forse, per i più; ma vero, fortunatamente, per tanti appassionati.

Il linguaggio delle poesie di Balistica è facile, le situazioni ritratte sono quelle della quotidianità che ci è più vicina e che per molti rischia di essere, purtroppo, solo banale. Eppure, al contempo, la lucidità e la profondità che ogni piccolo spicchio di vita sa darci emergono in modo inequivocabile (Agosto, Nessuna cosa sono e Ascolto del piccolo sono, da questo punto di vista, piccole ma vere lezioni di poetica e Famiglie della vasca da bagno, ad esempio, non è solo un divertissement; così, in modo esemplare, è anche per Ippopotami in vacanza o per Un vecchio mangia da solo in un ristorante cinese).

Non è un caso, poi, che, nonostante la tendenza programmatica e spietata a considerare in modo post-moderno e disincantato tutto ciò che, letteralmente, vive e vegeta attorno a noi, Collins riesce comunque a riallacciarsi ad una tradizione letteraria quasi primordiale e ai temi eterni che la perpetuano costantemente (Sulla morte del vicino di casa; Massima; Che cosa fa l’amore; La presa mortale). Talvolta, però, la sensazione è di una “disturbante mediocrità”, di una “falsa modestia” che può irritare, visto che l’autore sembra quasi confessare, con il tono delle sue parole, di considerarsi, in effetti, immensamente ed espressamente superiore (in Gennaio a Parigi questo profilo emerge con onestà e con eleganza strepitose).

Ma è difficile capire Collins fino in fondo. La leggerezza e la linearità che manifesta sono solo impressioni di superficie. Derivano, forse, dal fatto che Collins non vuole parlare agli altri poeti o ai critici (Le poesie d’altri), ma vuole rivolgersi direttamente alla gente, al suo affezionato lettore (Agosto a Parigi, che apre la silloge, è, in questo senso, una sorta di ufficiale dichiarazioni d’intenti), così come a chiunque sia capace di ascoltare la sua voce per ciò che essa vuole apertamente dire (Lo sforzo non è solo una parodia dell’insegnamento scolastico). Ma quella leggerezza e quella linearità soltanto apparenti derivano, forse, anche dal fatto che Collins offre ai suoi contemporanei una versione delicata di stoicismo, un autentico e specifico approccio filosofico, alla ricerca di una rassicurante e definitiva composizione tra le singole esistenze individuali e un senso ancora remoto (Il futuro).

La bella intervista che il traduttore e curatore italiano, Franco Nasi, pone all’inizio del libro ci presenta un poeta sereno e compiaciuto, non solo intelligente, ma soprattutto astuto, capace di indugiare, sentendosi perfettamente a proprio agio, in qualche (scusabile) posa. Dopo la lettura resta comunque dominante il suono di una parola che corre precisa, come il bisturi di un chirurgo che è venuto a salvarci dalla tanta, troppa, ottusità che ci circonda.

 

Aubade

Se vivessi nella casa di fronte a me

e se fossi seduto al buio

sul bordo del letto

alle cinque del mattino,

/

mi potrei chiedere che cosa ci fa

la luce accesa nel mio studio a quest’ora,

eppure eccomi alla mia scrivania

nel mio studio a chiedermi la stessa identica cosa.

/

So che non dovevo alzarmi così presto

per aprire con un coltellino

i pacchi di giornali all’edicola

come potrebbe pensare l’uomo della casa di fronte.

/

È ovvio che non sono un agricoltore o un lattaio.

E non sono l’uomo della casa di fronte

che siede al buio perché sonno

è sua madre e lui è uno dei suoi tanti orfani.

/

Forse sono sveglio solo per ascoltare

il tenue stridulo tintinnio,

del tungsteno nell’unica lampadina

che ha lo stesso suono del fruscio degli alberi.

/

O il mio compito è solo quello di stare seduto immobile

come il bicchiere d’acqua sul comodino

dell’uomo della casa di fronte,

immobile con la fotografia di mia moglie in cornice?

/

Ma ecco il primo uccello che consegna il suo canto,

ed ecco il motivo del mio essere in piedi:

per catturare la canzone di tre note di quell’uccello

e aspettare ora assieme a lui una risposta.

 

Sul Poeta laureato del Congresso

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Il 23 agosto 1990 ho avuto la fortuna di incontrare Mario Rigoni Stern, velocemente, alla presentazione di un suo libro.

Ero reduce dalla lettura di Storia di Tönle, forse il suo romanzo più bello, e alla fine dell’incontro mi sono avvicinato a lui e gli ho avanzato la più classica delle richieste, una dedica. “A Fulvio, cimbro dell’Altopiano, con amicizia”… Nonostante la banalità della cosa, conservo ancora gelosamente quel volume. Ora mi accorgo che la grafia scattosa di quell’autografo è una delle migliori immagini che io conosca, oggi, per rappresentare in modo così efficace i profili delle montagne.

Il segreto di Rigoni Stern, in effetti, è l’essere “montagna”. Esteriormente, in primo luogo, come una specie particolare di medium per afferrare tutto ciò che di semplice e di maestoso la vita ha da offrirci. Ma anche interiormente, come altezza e nobiltà dello spirito, nel senso di un’innata capacità a percepire la comunanza, la solidarietà e la proporzione cui dovrebbe indurci la consapevolezza della nostra umanità.

Quando si è tra l’autunno e l’inverno, allora, è la stagione migliore per rileggere Il bosco degli urogalli, il secondo libro di Rigoni Stern, quello che ha composto nel 1962, raccogliendo alcuni racconti, dopo Il sergente nella neve. È stato il mio primo libro di Rigoni Stern, la chiave della scoperta.

In questo libro c’è tutto: la caccia, la bellezza della natura, l’amicizia, la guerra, i ricordi. Soprattutto, sempre, la montagna. C’è il senso di un andamento ciclico ed eterno, con un inizio, insperabilmente nuovo, e con una fine, anch’essa nuova, perché destinata comunque a riprodursi (il primo racconto, Di là c’è la Carnia, e l’ultimo, Chiusura di caccia). Ci sono immagini che si potrebbero ripetere, quasi mimare, in continuazione e con compiacimento, davanti al fuoco, o dopo una passeggiata sulla neve (La vigilia della caccia; Oltre i prati, tra la neve; Dentro il bosco). Ci sono frasi e parole genuine, pulite, così come lo sono le storie che vengono narrate, ci parlino di incontri improvvisi e sorprendenti (Incontro in Polonia) o ci dicano di due cani (Alba e Franco) o ci insegnino, letteralmente, “sentimenti” ed “esperienze” reali ma assoluti (Una lettera dall’Australia; Vecchia America; A caccia con l’Australiano).

Sembrerà un’associazione di idee completamente strana, ma ho sempre pensato che questa pulizia sia la stessa che Peter O’ Toole, nei panni di Lawrence d’Arabia, attribuisce al deserto, nel bellissimo e lunghissimo film di David Lean. In questa prospettiva, probabilmente, il racconto Esame di concorso non è un corpo estraneo; è la testimonianza, un po’ desolata, di una frattura, della distanza che purtroppo esiste tra la pulizia delle cose e le cose della vita pubblica.

Per certi versi, quindi, Il bosco degli urogalli ci offre la grammatica di una pulizia “estrema”, tanto essenziale quanto diretta e primigenia; ci indica la necessità di non accontentarci delle sole soddisfazioni dell’intelligenza e della fantasia, ma di riconoscere, nella perizia dei gesti più antichi e delle azioni più tradizionali, innate regole di equilibrio (Le volpi sotto le stelle).

Come gli aborigeni, anche noi abbiamo le “vie dei canti”: ma non dobbiamo pensare di dover leggere Chatwin e di immaginarle; ci basta leggere Rigoni Stern. Di cosa, ancora, abbiamo realmente bisogno?

La voce di Mario Rigoni Stern

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Ventiquattromila pensieri al secondo fluiscono inarrestabili (C.S.I.)

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Anche le opere prime possono sorprendere, e questo soprattutto quando sono date alle stampe da piccoli e volenterosi editori.

Certo, il romanzo di Luca Valente ha, apparentemente, molti ingredienti per risultare la mera riedizione di alcuni clichés particolarmente indigesti: c’è un killer seriale, che lascia sulle sue vittime un codice, a prima vista, indecifrabile; c’è un profilo maniacale che riporta, guarda caso, alla follia nazista; c’è un mistero storico che sembra snodarsi sui ritmi di una delle più tipiche e sconsolanti puntate di Voyager; c’è un richiamo, forse un po’ eccessivo, al soprannaturale.

Invece, si è rivelato giusto non fidarsi delle apparenze, assecondare l’intuito, prendere il volume dallo scaffale della libreria e fidarsi, viceversa, delle parole: la scrittura è convincente, il plot per nulla scontato, il ritmo avvolgente, il finale inatteso. Anche i personaggi, specialmente la coppia dei due “indagatori”, sono convincenti.

E poi c’è un equilibrato mescolarsi della “grande storia”, il Medioevo ma anche la Seconda Guerra mondiale e la Resistenza, con la “piccola storia”, quella di cose e persone che interagiscono e “soffrono” anche nel racconto e che contribuiscono, allo stesso tempo, al mosaico dei grandi eventi sul cui sfondo si svolge parte della vicenda.

C’è del fantastico e dell’immaginario, nel testo, però c’è anche una rappresentazione pacata e consapevole di un momento, quello della guerra partigiana, tra i più dolorosi e drammatici. Le storie degli occupanti e dei liberatori, tra memoria collettiva e memoria individuale, raramente sembrano così realistiche.

L’aspetto più interessante, tuttavia, è l’ambientazione.

L’Autore scrive di luoghi e di fatti che conosce da vicino, che ha modo di approfondire quotidianamente come giornalista e come storico locale. La geografia, del resto, è uno degli aspetti più significativi e decisivi per la buona riuscita di un romanzo, ne va di mezzo il rispetto dell’aureo canone della verosimiglianza, qui realizzato in modo felice.

In questo caso, viene subito voglia di visitare l’Alto Vicentino e la Pedemontana veneta, di passeggiare per Schio, di salire la strada che attraverso la Val Leogra porta a Valli del Pasubio e a Folgaria, e di continuare o cominciare a studiare la storia e le storie di quei paesi, di quelle valli, di quelle montagne. Ancora una volta, si potrebbe dire, proprio quei paesi, quelle valli e quelle montagne: le stesse che ci avevano già fatto scoprire un altro “nuovo” e fortunato scrittore (Umberto Matino, in La valle dell’orco e in L’ultima anguana). Anche questa è una buona notizia, quasi un auspicio per un uguale e rapido successo di pubblico.

Niente di meglio, quindi, che prendere questo libro e dedicare qualche giorno alla riscoperta di un genius loci inatteso ma sempre fedele.

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Il “Professore”, così lo hanno sempre chiamato sin dalle prime riunioni politiche, è il protagonista di questo lungo racconto, ed è, in verità, un correttore di bozze. Proofs è anche il titolo originale del libro, nel quale si intravedono le tracce di una riflessione che non è solo quella di una generazione o di uno specifico ceto intellettuale, e che, anzi, il tono del discorso ci dice essere certamente condivisa dall’Autore, quasi in prima persona.

Il tema è difficile e spinoso.

Anche correggere bozze, d’altra parte, è un lavoro difficile; occorre un’attenzione estrema, una ricerca di perfezione che è tanto apprezzabile quanto maniacale, oltre che fisicamente dolorosa ed estenuante. Ma è un lavoro, questo, che riesce congeniale proprio a chi si sforza di realizzare la verità, di portare su questa terra il messaggio salvifico della cultura, di affrancare l’umanità oppressa da qualsiasi forma di dominio.

Così vuole “lottare” anche il Professore, “compagno” critico e per questo presto espulso dal Partito, ma ancora fedele agli ideali di sempre, che continua a coltivare assieme ad un gruppo di altri irriducibili. In un’Italia che si intravede pagina dopo pagina.

Un evento, però, attraversa la loro vita e la Storia, il crollo del muro di Berlino, cui il Professore assiste in diretta tv e di cui discute, in una lunga passeggiata notturna, con Padre Carlo, un sacerdote bonario e a suo modo eccentrico, perché comunque partecipe delle sorti degli stessi ideali. E questo dialogo è il fulcro del racconto.

La questione è presto detta: il gioco comunista non esiste più, finalmente, ma il trionfo della libertà coincide con il trionfo del lato peggiore, consumistico e volgare, del capitalismo. Forse gli orrori del socialismo reale sono stati solo errori? Forse c’era del buono? O era solo utopia, ricerca innaturale, e per ciò solo violenta, di un’umanità inesistente?

Steiner mette in scena uno “scontro tra titani”, tra opposte visioni del mondo. Letto oggi, il dialogo è come se mettesse in campo, da un lato, con il Professore, lo Slavoj Žižek più ispirato, o se si vuole il marxista-leninista che ancora, nuovamente, attende la rivoluzione, dall’altro, con Padre Carlo, una versione cattolica ed incarnata delle lezioni di Isaiah Berlin sui traditori della libertà individuale, ovvero il credente che aspira, certo, ad una prassi terrena della carità, ma senza che l’uomo ambisca a dominare sull’altro uomo.

L’esito della discussione brucia nelle viscere del correttore di bozze, che nel frattempo si accorge che anche il suo mestiere volge al tramonto, travolto anch’esso dall’evoluzione tecnologica e da una “barbarica” esigenza di velocità comunicativa. Ma non tutto è perduto, il viaggio che il Professore compie a Roma è una fine ed un inizio, allo stesso tempo, celebrazione offesa di una morte (quella del Partito) e adesione istintiva ad una pulsione rigenerante (quella di un rapporto occasionale ma necessario). La fiducia, in definitiva, resta ancora intatta, e l’approdo al cosiddetto “riformismo” pare una docile confessione di realismo, come dimostra un epilogo dai toni quasi comici.

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Valentino Zeichen viene sempre associato, anche per questa sua ultima silloge, a tanti e diversi nomi (Kraus, Wilde, Flaiano), ed egli stesso, talvolta, ha dimostrato di sapersi calare espressamente nella figura di riferimento (come in Neomarziale).

Però questa voce così originale non è la voce di un poeta o di un autore “storico”; essa è, piuttosto, la voce del druido, il distillato di una sapienza che è intrinsecamente pagana. Così si è manifestata in molte occasioni: Museo interiore, Metafisica tascabile e Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio.

Forse, per la tanta romanità che caratterizza la pulizia e l’ispirazione delle sue parole, più che di druido si dovrebbe parlare di aruspice, perché Zeichen legge nelle viscere del nostro tempo, cogliendo segnali che ai molti restano sconosciuti e che, ciò nonostante, provengono dal fegato gonfio delle esperienze a noi più vicine. Come se avesse un accesso privilegiato alle cose della natura.

In fondo, se tornassimo per un attimo al “gioco dei nomi”, allora il primo che verrebbe alla mente è quello di Lucrezio. Non per la forma, che, anzi, non è il poema, ma la sintesi perfetta tra Bashō e La Rochefoucauld. Lucrezio c’entra, invece, per la penetrazione profonda dello sguardo, per lo stupor continuato che lo anima, per l’attenzione intimamente scientifica che lo contraddistingue. E per una presupposta e schietta felicità di fronte a tutte le cose. Quella di Zeichen, in definitiva, è sempre una historia naturalis, che si parli dello scorrere del tempo, della donna, dell’arte, del ruolo degli intellettuali.

Di questo fortunato volume, Aforismi autunnali, finalista, senza dubbio meritato, del Premio PEN Club Italiano 2011, non si può aggiungere qualcosa di specifico; ciò equivarrebbe a svelare preferenze forse troppo personali. Una sola cosa è concessa, descrivere l’ipotetico podio in cui collocare quelli che, a giudizio di chi scrive, sembrano, tra i 150 componimenti, tre dei pezzi migliori:

 62.

Come la Bibbia ci insegna,

Dio non poteva spiegare

i dettagli della creazione,

e per non dilungarsi troppo

con le teorie dell’evoluzione,

preferì sintetizzarli nella

celebre “settimana” lavorativa.

70.

Dopo aver prestato all’uomo

le proprie sembianze,

il Signore sperimentò

l’individuo, e fra questi

selezionò gli individualisti;

una sottospecie umana

che si danna per imitarlo.

126.

Il tempo sarà anche denaro

ma non lo si può marchiare

come bestiali banconote,

chi fermerebbe l’inflazione?

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