Dei libri imporverati sur comò / che ho appena aperti e che mai rivedrò (F. Califano)
In questo libro – che costituisce uno spin off del precedente, bellissimo e fortunatissimo, La strada verso est – l’Autore si mette “Sulle tracce di un criminale nazista”, l’austriaco Otto von Wächter. Che durante la seconda guerra mondiale aveva servito come governatore della Galizia occupata, dove si era macchiato del rastrellamento, dello sgombero e della liquidazione di molte migliaia di ebrei. All’atto della disfatta dell’esercito tedesco, Wächter era scomparso, per poi riemergere nell’estate del 1949 in un ospedale di Roma, sul letto di morte. Sands ne aveva già conosciuto il figlio Horst, progettando un documentario – poi effettivamente realizzato – in cui farlo interagire con Niklas Frank, figlio, a sua volta, di un altro gerarca nazista, condannato a morte a Norimberga e impiccato. E mentre Niklas pare aver metabolizzato l’identità e le azioni del padre, Horst è arroccato in un opposto percorso di negazione e riabilitazione. Eppure è proprio Horst ad aiutare e accompagnare le ricerche di Sands. La via di fuga è il racconto di questa inchiesta, una specie di diario dei reiterati sforzi che l’Autore compie per ricostruire sia il retroterra familiare e l’ascesa politica di von Wächter sia la traiettoria rocambolesca del suo tentativo di sfuggire alla cattura e di riparare in altri paesi.
Il saggio, da un lato, costituisce un’occasione buona per gettare luce sulla rete di complicità di cui i criminali nazisti hanno goduto, e quindi anche sulla cd. ratline, la “strada dei topi”, il “percorso” sicuro di cui molti di loro – spesso sotto la protezione di influenti ambienti ecclesiastici e di corpi specializzati dell’intelligence delle forze alleate – hanno usufruito, dal Sud della Germania all’Alto Adige, da Roma al Sudamerica. Anche nel caso di von Wächter ritroviamo tutto il repertorio di questo genere di vicende, animate da alti prelati, ex fascisti o collaborazionisti, spie russe e americane. E dal sospetto che la fine del gerarca (ufficialmente deceduto a causa di un’infezione epatica) non sia stata casuale. Dunque in La via di fuga le esplorazioni storiche si mescolano al gusto per il mistero e l’intrigo internazionale. Nel lavoro di Sands, però, ciò che è ancor più apprezzabile si ritrova in altre due caratteristiche. Innanzitutto, la tenace puntigliosità dell’investigazione, che sa ricorrere a tutte le fonti e le risorse disponibili, e si esprime a sua volta in un viaggio, in una biografia: non è solo quella del soggetto prescelto, ma è anche quella dell’Autore, che si pone alcune domande, e le cui tappe si rincorrono e si ripropongono costantemente, in un andirivieni tra ieri e oggi. In secondo luogo, si avverte il senso, afferrabilissimo, di un’urgenza interiore, che non smette mai di chiedersi il perché di tanti orrori e, soprattutto, che vuole interrogare scelte ed esistenze, individuali e collettive, tanto imperscutabili quanto angosciosamente persistenti.
PS: per amplificare le sensazioni e le riflessioni che La via di fuga può produrre, la sua lettura può essere utilmente accompagnata da altre due recenti pubblicazioni: il romanzo di Marco Ballestracci, Preludio e fuga di Riccardo Klement (che ha come protagonista Adolf Eichmann); l’approfondimento storico di Uwe Neumahr, Il castello degli scrittori (che ricostruisce le interazioni tra coloro che, inviati dalle più diverse testate giornalistiche, hanno raccontato il processo di Norimberga).
La Legislatura in corso prevede, tra i suoi appuntamenti più caldi, il dibattito sul cd. “premierato”, un disegno di legge costituzionale presentato al Senato nel novembre dello scorso anno e concernente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Naturalmente la discussione è già montata e si è fatta presto arroventata, sia nel discorso pubblico (sono stati molti, ad esempio, gli editoriali sulle testate giornalistiche nazionali), sia nelle riflessioni strettamente giuridiche (a quest’ultimo riguardo v. i commenti e i contributi prodotti da un gruppo di lavoro formatosi in seno alla Fondazione Astrid; ma cfr. anche le audizioni svolte in Parlamento). Il libro di Michele Ainis, noto costituzionalista, saggista e romanziere, si pone un po’ a metà strada. Con lo stile arguto che lo contraddistingue, l’Autore non cerca solo di fornire ai comuni cittadini gli strumenti conoscitivi per collocare la proposta italiana di riforma nell’ambito delle diverse forme di governo che attribuiscono una diretta legittimazione democratica all’Esecutivo (il “modello statunitense”, la “variante francese”, il “brevetto israeliano”). Né si ferma a soppesare pregi e difetti delle possibili ricette presidenzialiste (rispettivamente, alle pp. 77 e 85). Non gli interessano i “figurini” della modellistica. Più che analizzare in dettaglio la “proposta italiana” (di cui si mettono in luce le imprecisioni, le aporie e le mancanze), gli preme porre in luce alcuni profili, metodologici come di tendenza.
Dal primo punto di vista, Ainis invita a riflettere su come sia necessario, per poter fare realmente le riforme, riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica. In proposito non rinuncia a qualche provocazione, immaginando, ad esempio, che si possa scegliere (eleggere? Sorteggiare?) un gruppo di persone comuni, cui affidare la formulazione di idee specifiche, ovvero che si possa anche costringere il circuito politico-rappresentativo e le sue articolazioni decisionali a raccogliere nel modo più diffuso, anche online, sollecitazioni o spunti utili al cambiamento. Oltre a ciò, Ainis descrive la tensione trasformativa verso modelli presidenziali come qualcosa di tipico nell’evoluzione più recente dei sistemi parlamentari. Così suggerendo, quasi, che sia quanto mai urgente riallineare la forma alla sostanza anche nel contesto nazionale, che pure, tuttavia, egli descrive in termini assai scettici e preoccupati, data l’onnipresenza – ad ogni livello – di una sfibrante cultura del capo. Se i rilievi concernenti la partecipazione paiono un po’ troppo ingenui, quelli sulla dilagante “capocrazia” – e sulla dubbia opportunità di assecondare un certo trend – oltre a palesarsi come parzialmente contraddittori, finiscono per generare una sorta di irrimediabile pessimismo (tradito in modo assai plastico dal sottotitolo del saggio: “Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno”). Al punto che, in definitiva, il libro lascia il lettore con l’amaro in bocca e con la sensazione che la (lunga) rassegna degli intoppi e degli errori del passato (e del presente) sia destinata a completarsi e a consolidarsi anche nel prossimo futuro. Ma qualcosa di interessante, nei pensieri ad alta voce dell’Autore, rimane. Vale a dire il duplice insegnamento che le riforme che funzionano sono quelle che davvero si configurano come un meditato atto collettivo, e che quest’ultimo evento va in qualche modo promosso e coltivato con una seria consapevolezza dei fallimenti già sperimentati.