And I’m free, I’m free fallin’ / Yeah I’m free, free fallin’ (Tom Petty)

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Zygmunt Bauman: “He visto cómo el capitalismo liberal se reencarnaba muchas veces” (da lavanguardia.com)

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Elogio della noia: quei pomeriggi che ci hanno reso creativi (da corriere.it)

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Francesca Canobbio – Poesie inedite (da nazioneindiana.com)

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Where Citizenship Wento to Die (da nytimes.com)

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Storpiando un adagio reso noto da un vecchio slogan pubblicitario, dovremmo sempre ripetere: “di noir francese ce n’è uno, come lui non c’è nessuno”. Onore al merito, dunque, ai libri di Varenne, grande esponente di un genere glorioso e di una scuola, quella d’Oltralpe, che da Héléna a Izzo ha generato una tradizione di grandi suggestioni e di grandi successi. Tuttavia, L’arena dei perdenti non convince come Sezione Suicidi, e ciò anche se si tratta di un libro più intimo e profondo, forse più importante, sia per l’Autore (che nella nota conclusiva rivela di essersi ispirato ai racconti del padre), sia per il panorama letterario francese (che torna a confrontarsi drammaticamente con i temi del colonialismo, della guerra d’Algeria, del reducismo che per lungo tempo si è incistato nei ranghi della società civile e della politica transalpine, condizionando esistenze individuali e mitologie collettive).

La storia ha due momenti. La prima parte è fatta del sovrapporsi di due vicende, apparentemente prive di collegamento. Da un lato – ci troviamo nel 2009 – assistiamo al processo di rapida degradazione e corruzione di un poliziotto boxeur, George Crozat, che dapprima cede alle lusinghe di un guadagno facile e si rende strumento di una ripetuta azione criminale, quindi ha un disperato sussulto d’orgoglio che, però, lo conduce quasi all’autodistruzione. Dall’altro siamo guidati nel passato dell’occupazione militare francese dell’Algeria, tra il 1957 e il 1959, e delle tante violenze che le forze speciali compiono nei confronti di tutti coloro che siano sospetti fiancheggiatori dei movimenti di liberazione nazionale: in questo quadro abbiamo modo di assistere all’esperienza, sempre degradante e durissima, cui il giovane Pascal Verini, di famiglia di stretta militanza comunista, viene sottoposto nel suo periodo di ferma presso uno dei molti campi di prigionia e di tortura.

C’è un punto di contatto tra George e Pascal, ed è la figura dell’algerino Rachid, alias Bendjema, che è, di fatto, il detonatore della seconda parte. L’anziano ribelle è uomo dalla duplice identità, il sopravvissuto di una guerra storica che, rimasto impigliato in una dolorosa sete di vendetta e di sopravvivenza al contempo, fa interagire i destini degli altri due personaggi e li conduce a rendersi strumento di una resa dei conti complessiva, che possa scacciare le paure del presente e i fantasmi del passato. Ciascuno a suo modo, nella finale concentrazione di sofferenza in cui si riconoscono, George e Pascal riescono a farsi strada nell’oscurità ed abbandonano Rachid-Bendjema all’unico ruolo che gli resta, quello del combattente ormai malato, che torna nel suo paese per morire dove già avrebbe potuto, dietro un sipario che ci rivela senza appello l’impossibilità di riportare all’indietro le lancette del tempo ormai perduto.

Il fatto che L’arena dei perdenti non risulti del tutto vincente (nonostante i tanti premi di cui è stato insignito) non lo si deve al titolo posticcio (l’originale è Fakirs). Forse è la mescolanza di profili sin troppo diversi a nuocere ad un romanzo che, in verità, ne racchiude due, quello di George, l’ottimo ed attuale interprete del più tipico e “dannato” poliziotto noir, e quello di Pascal, alter ego della figura paterna e di un’esperienza nazionale che non ha ancora superato i traumi di un colonialismo brutale. Il primo romanzo è pressoché perfetto, e la descrizione degli incontri di boxe cui si sottopone Crozat, quello con Gabin e quello con Esperanza, ricorda da vicino il passo narrativo di London, Hemingway e Mailer, supremi estimatori della nobile arte. Il secondo, invece, è troppo sentito, troppo personale, dai contorni troppo sbiaditi ed irrisolti, come se l’Autore lo avesse scritto con la vista offuscata da lacrime ancora troppo calde. Anche questo, comunque, è il noir, e l’onestà di scrittura di cui si dimostra capace Varenne vale pur sempre il prezzo di copertina.

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