Ci troviamo in una piccola città suditirolese. Erwin, il padre di Johannes, è morto a causa di un tumore. Ma il fratello di Johannes, Georg, che è un politico e si è occupato sempre assai poco del padre, lo chiama spaventato al telefono, dicendogli di aver visto il defunto fuori dalla porta di casa. Forse Georg è sotto choc? O c’è qualcosa di strano? Anche la madre sembra improvvisamente impazzita. Sostiene che qualcuno ha rubato la borsa da viaggio del marito. Probabilmente anche lei è sconvolta dal decesso di Erwin ed è possibile che dimostri qualche segno di demenza. Comunque sia, Johannes – che fa l’insegnante e vive con la figlia Alma in una città oltreconfine – e Angelina – la moglie di Georg – non sanno capacitarsi. Poi Georg si accorge che sono scomparsi alcuni documenti del padre, legati al suo passato di giovanissima recluta della Wehrmacht, in servizio nella Berlino bombardata e assediata dagli Alleati. Johannes apprende dalla madre che è stata lei a distruggerli, perché contenevano delle lettere: si trattava del carteggio con una donna. Così, approfittando di un congresso sui risultati scolastici organizzato nella capitale tedesca, si reca a Berlino. Qui comincia un’esperienza molto particolare, non priva di colpi di scena, interferenze temporali e fantasmatiche, e situazioni sorprendenti. Non solo Johannes non resiste e si mette alla ricerca, trovandola, della donna misteriosa, ora molto anziana ma ancora viva. La sua è anche un’immersione psico-sensoriale, nella quale rivede il padre e, ricostruendone le tracce, e vivendone una nuova e inaspettata morte, ne reinterpreta la traiettoria e l’avventura, assecondando il vero se stesso. E lasciandosi andare. Di questo romanzo non si può dire tutto, si rischierebbe di restituirne un’immagine semplicistica. Come se si dicesse, ad esempio, che questa è una storia in cui l’amore vince la morte. Nella prosa pacata e lineare del suo Autore – che qua e là sa farsi anche comica, con l’effetto di creare un po’ di complicità con il lettore e di tradurre bene la sincera stupefazione del protagonista – si nasconde l’inafferrabile complicazione di un viaggio nella memoria e nella naturalezza. In Stanze berlinesi Sepp Mall ci porta fuori dagli schematismi delle vite indifferenti e stereotipate, insegnandoci che per farlo dobbiamo conoscerci meglio, andare oltre confine e ascoltare davvero la voce che portiamo dentro.
Negli anni Cinquanta Egidio Meneghetti pubblica alcune poesie, che vengono in seguito raccolte per i tipi di Neri Pozza, con il titolo di Cante in piazza, e infine riproposte per una collana delle Edizioni Avanti! in questo minuscolo, eppure densissimo, libretto, illustrato da Tono Zancanaro. Mi è stato donato, nell’approssimarsi del Giorno della Memoria, da un avvocato esperto, colto e sensibile, che non posso che ringraziare per il raffinato pensiero. Per chi non lo ricordasse, nel 1943 Meneghetti – autorevole farmacologo e antifascista – fonda con Concetto Marchesi e Silvio Trentin il Comitato di Liberazione Nazionale regionale veneto. Nello stesso anno perde la moglie e la figlia nel primo bombardamento di Padova. Il suo impegno nella Resistenza è fattivo e determinante. All’inizio del 1945 viene catturato e torturato, quindi imprigionato a Verona e poi spedito nel Lager di Bolzano, dove è liberato alla fine della guerra. Subito dopo verrà eletto Rettore dell’Ateneo patavino. Contribuirà a fondare l’Istituto Veneto per la storia della resistenza, presiederà il primo Centro nazionale per lo studio della chemioterapia, farà parte del Movimento federalista europeo, sarà membro del Partito d’Azione e poi socialista, continuando a fare politica. Diventerà anche accademico dei Lincei. Nel frattempo, però, rivelerà doti di poeta. Di grande poeta. La partigiana nuda e altre Cante racchiude quelli che non è azzardato definire come i suoi capolavori. Che potremmo definire consapevoli, visto che “soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile”. È affermazione che si può sottoscrivere senza riserve.
I primi due pezzi (La partigiana nuda e Lager e l’ebreeta) sono potenti, strazianti. Nell’uno si raffigura, quasi in presa diretta, l’umiliazione di una donna partigiana, costretta a svestirsi davanti agli sgherri della banda Carità, insediata nelle stanze di palazzo Giusti, nel pieno centro di Padova. Le fonti d’ispirazione di Meneghetti sono reali e le sue parole, quasi in una pièce tragica, riescono ad opporre alla stolida violenza dei torturatori la fermezza semplice e autentica della torturata, che finisce per farsi sacra, nel senso più antico del termine. Nel secondo componimento – anch’esso radicato nell’esperienza diretta dell’Autore – si racconta di una giovane ebrea, oggetto delle attenzioni violente di Misha e Otto, i due aguzzini del campo di concentramento di Bolzano. La ragazza si lascia morire di fame, con un gesto di ricercato annichilimento, come unico modo per difendere ed esaltare uno spazio di dignità, piccola e al contempo immensa, che non può che essere tutta interiore. In questi primi due testi Meneghetti raggiunge apici che non è azzardato assimilare a quelli toccati da Louis Aragon o da Vercors. In La Rita more – che si pone al centro del trittico A mila a mila – riemerge l’omaggio intenso alla resistenza femminile e alle sue protagoniste. Ma qui funziona da perno per l’esplicita fondazione di una generale poetica della memoria (La vose ciama), in cui rimbomba, in un crescendo di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, anche la voce della fabbrica e del suo popolo (La fresa raspa). Successivamente, in Nele Basse veronese e La morte e la speransa, il tema popolare scorre verso una dimensione più autenticamente contadina. Da una parte (specie in Matina, ma anche in Note) questa traiettoria sembra precorrere le immagini fredde, umide e cineree che saranno della campagna di Ermanno Olmi. Dall’altra non fa che disegnare i contorni tipici di una irrefutabile cornice originaria, il limitare di un’esperienza storica e antropologica, che pur essendo segnata (come in Sera) da tante speranze tradite, personali e collettive, può sempre alimentare un riscatto, ché “fogo sprissa fora anca dal sasso / e se mantièn la brasa soto ‘l giasso”. Chissà se nelle pieghe del paesaggio e dell’anima veneti – tanto diversi, ormai, da quelli cantati da Meneghetti – brucia ancora questa fiamma.