Il romanzo prende avvio a Ferrara, nell’estate del 2022, con la morte di Ilario Nevi, famoso partigiano e noto regista e documentarista. Antonia Nevi, nipote prediletta e professoressa universitaria di geografia, torna in città per il funerale assieme ad Arne, in arte “Sonic”, marito e musicista sperimentale. Nella canicola agostana del Delta del Po, aggravata da una forte siccità, Antonia, che scopre di essere la principale erede di Ilario, si impegna in una indagine serrata sul passato del defunto e del suo vecchio amico, anch’egli antifascista, Erminio Squarzanti, già confinato a Ventotene e compagno degli anni di resistenza. Tra capanni apparentemente abbandonati e memoriali segreti e inediti, la nostra protagonista – che nel frattempo cerca di liberarsi dai postumi da Covid19 e di ritrovare la giusta complicità con Sonic, perduta dopo un tragico incidente – comincia a comprendere che la storia di Ilario è assai più complicata ed enigmatica di quanto avesse mai pensato. Riemergono, così, dolorose vicende della guerra di Liberazione, sepolte da tempo; progetti impegnati sulla decementificazione dei Lidi ferraresi e sulla restituzione all’acqua delle terre bonificate; e soprattutto una strana e irrazionale fascinazione per la leggenda degli uomini pesce, anfibie e spaventose creature mitologiche. Ma quale senso ha quest’ultima ossessione? I suoi forti interessi scientifici, la curiosità di voler andare fino in fondo con la propria genealogia e il racconto – letteralmente ipnotico è un po’ alchemico – del misterioso dottor Stegagno, medico di fiducia di Ilario, conducono Antonia a unire tutti i tasselli e a dare forma all’umanissima e dolorosa traiettoria esistenziale di Ilario, su uno sfondo di orribili torture e stragi nazifasciste, rappresaglie e vendette altrettanto implacabili, indecifrabili e velleitari progetti terroristici e testimoni da raccogliere.
Gli uomini pesce è un libro riuscito, che prende quota strada facendo e a tratti si fa leggere con gusto; con il desiderio – che è il medesimo di Antonia Nevi – di capire meglio e arrivare in fondo. È anche un classico Wu Ming: perché sovrappone storia e invenzione, in modo mai banale, e con coerente radicalità; perché in quest’opera di riscrittura originale del passato – e di figurazione implicitamente ucronica – si cercano sempre chiavi di lettura e spunti attuali, pertinenti alla scena trattata; e perché il testo finisce sempre a identificare il tassello di un mosaico più ampio, ricollegandosi ad altri romanzi, in un itinerario sociale, culturale e letterario in divenire permanente (qui il nesso, più che esplicito, è con il precedente La macchina del tempo, il cui personaggio principale è Erminio Squarzanti). L’intreccio di temi e interrogativi, nella trama, è molto ricco: Resistenza, vincitori e vinti, intersessualismo e discriminazione, cinema e neorealismo, dialogo intergenerazionale, avanguardie musicali, tutela dell’ecosistema, consumo di suolo e cementificazione, geografia culturale, pandemia e restrizioni. E a ciò va aggiunto che leggere Gli uomini pesce – magari intervallando i pezzi di Jet Set Roger, sulle orme ipotetiche di Lovecraft – è anche un bel modo per introdursi alla conoscenza di una terra sfuggente, desolata e spopolata come quella della Bassa e della foce del Grande Fiume, con le sue valli, le coltivazioni intensive, la solitudine, la subsidenza, l’allungarsi progressivo e inesorabile del cuneo salino. O anche per lasciarsi incuriosire dagli esperimenti sonori di Walter Marchetti o dall’impegno civile di Giorgio Bassani: il quale ultimo viene fatto interagire con Ilario Nevi. Questo libro, in sostanza, è un vero tuffo, un’esperienza formativa di immedesimazione: in un pezzo significativo di storia del Paese come in un gorgo di problemi e sfide tuttora irrisolti e tanto più sensibili. Un’esperienza che può funzionare, ovviamente, solo se si è coscienti di che cosa sia, in effetti, la traiettoria di scrittura di cui il prodotto è frutto. Ciò per precisare che, ormai, anche Wu Ming è diventato un brand: risponde benissimo a un bisogno specifico, a un pubblico già coltivato. Ma ciò non toglie che libri come questo – libri carichi di urgenza e di fiducia nella letteratura – aiutino a pensare.

Socrate si intrattiene con alcuni suoi conoscenti (Erissia, Erasistrato e Crizia) quando un incontro con i facoltosi ambasciatori di Siracusa suscita un improvviso e vivace dibattito. Il tema generale è il rapporto tra ricchezza e virtù, variamente affrontato in una breve serie di interlocuzioni, secondo il classico genere del dialogo. Per prima cosa, Socrate pone Erasistrato di fronte alla constatazione che la vera ricchezza è la sapienza, perché bene dal sommo valore. Ma Erissia dubita che la conclusione sia accettabile, perché non è detto che la sapienza garantisca i beni di prima necessità. Di più: di fronte alle immediate controdeduzioni di Socrate, Erissia, piccato, provoca il filosofo quasi in modo personale, alludendo al fatto che il sapiente può forse dirsi meno ignorante del più agiato degli ateniesi, senza che ciò, tuttavia, lo renda più ricco. Si avvia, allora, un “botta e risposta”, inscenato ad arte da Socrate per far emergere le fallacie delle diverse, possibili argomentazioni. Se da un lato pare corretta la posizione di Crizia – per cui non è detto che la ricchezza sia sempre un bene in assoluto, e che, anzi, vi sono uomini, malvagi o intemperanti, per i quali essere ricchi costituirebbe addirittura un grande rischio – dall’altro è lo stesso Socrate, ricorrendo a un efficace, e impertinente, espediente narrativo, a spiegare che la virtù è qualcosa di trasmissibile e, soprattutto, che, in un discorso, la condizione specifica del soggetto non può comunque mutare la giusta comprensione dell’oggetto. Sicché il punto è identificare quali siano veramente le ricchezze. L’acquisizione permette a Socrate sia di illustrare che la fisionomia stessa della ricchezza (come mezzo di scambio) è relativa (variando da popolo a popolo), sia che, in fondo, le ricchezze non sono sempre utili, perché tutt’al più si rivelano strumentali a fornirsi delle cose utili. Cose che, a loro volta, possono essere procurate anche per il tramite di ciò che – come i “saperi” – ricchezza propriamente non è. In un crescendo di vis persuasiva il filosofo arriva all’esito sottinteso sin dal principio: che la ricchezza, concepita in senso stretto e materiale, non rende felici, giacché mette gli uomini nella condizione di essere braccati dal bisogno e dal desiderio.
L’Erissia è un dialogo pseudo-platonico: non è opera di Platone, perché è stato composto dopo la sua morte, anche se nell’ambito dell’Accademia e (pare) pur sempre nel IV sec. a.C. Un giovane filologo ne offre, ora, una nuova edizione critica, corposissima e minuziosa (e fornita di un ulteriore volume a supporto), restituendo al piacere della lettura un testo nel suo genere esemplare, oltre che interessante. È paradigmatico, innanzitutto, per costruzione ed escamotages dialettici. Nella sua sinteticità, infatti, il dialogo permette di identificare e apprezzare le caratteristiche essenziali e i luoghi salienti dell’archetipo letterario in cui si risolve: la vocazione pedagogica; la struttura retorica, con impianto quasi teatrale; la configurazione della trattazione filosofica come dibattito; la concezione maieutica del magistero, come forma graduale di accompagnamento e, in certo senso, di autoformazione; la ricercata opposizione tra il livello della doxa e quello dell’aletheia; la ribadita differenziazione dagli estremismi del sofismo; il ricorso all’ironia come alle immagini più semplici e intuitive della vita quotidiana e della cultura comune e popolare; il riuso di stilemi o di insegnamenti già consolidati. Verrebbe quasi da affermare, da questo punto di vista, che, sul piano strettamente didattico, la valenza intrinseca dello studio di questo piccolo dialogo spurio è, oggi, più accattivante di quella delle opere platoniche più note e celebrate. Che sono senz’altro più dense ed elaborate, ma il pezzo scolastico – se così si può definire l’Erissia – rende meglio visibile la partitura e i suoi segreti, e anche l’appartenenza ad una tradizione. Naturalmente i problemi che Socrate e le sue controparti in questo piccolo dialogo discutono hanno pure un’importanza sostanziale: perché delineano i tratti di un’invariante fondamentale della riflessione filosofica occidentale; e perché anticipano in modo sorprendente intuizioni e sviluppi che, spesso, si intendono a torto come squisitamente moderni, se non contemporanei. Basta concentrarsi, ad esempio, sulla chiusa del testo, in cui emerge il rapporto tra bisogno e desiderio, con disvelamento delle decisive ricadute antropologiche e sociali che la coscienza e il governo di quel rapporto può sortire. In questo Socrate – al di là della prefigurazione di motivi che saranno propri delle correnti ciniche – c’è già René Girard, e pure un po’ di Christopher Lasch. Ecco che cosa può voler dire tornare agli antichi.
In questo piccolo libro, assemblato in brevi capitoli e ambientato – per espressa dichiarazione dell’Autore – in una “valle da poco” dell’Appenino emiliano, si racconta di tante cose: spedizioni antelucane alla caccia di funghi o tartufi; astuzie e consuetudini di montanari; ricordi d’infanzia; cani da cerca; villeggianti e turisti; scelte di vita; piccole e grandi avventure passate in quota; storie di case, boschi e frazioni oggi semi-abbandonati; brevi gite e lunghi viaggi (sempre a raccogliere funghi); nostalgie e piccoli piaceri personali. È un testo originale: un po’ diario e meditazione psicologica; un po’ romanzo familiare e autobiografico; e un po’ riflessione antropologica e sociale. Quest’ultima traiettoria è quella, probabilmente, più scontata, più attesa, che potrebbe bene accordarsi, anche per il lettore più superficiale, alla critica ormai mainstream della montagna idealizzata, accessibile, attrezzata e family friendly. Quella di Campani, infatti, è, all’evidenza, una montagna diversa: svuotata, inselvatichita, scostante, esposta ai rischi di un clima impazzito e, solo per questo, molto più dura di quanto si possa pensare. Però, a rivelarsi veramente intensi e interessanti, in Alzarsi presto, sono i profili più intimi, che a loro volta colorano i potenziali ragionamenti collettivi di una profondità più vera, quasi di una struggente e incarnata normalità. I gesti, i rituali, le interazioni del padre e del fratello Pietro, a casa come nel bosco, sono richiami fortissimi, che per Sandro – allontanatosi per la città, la fabbrica, la musica e la scrittura – operano come i rintocchi sordi di una campana lontana, tanto remota quanto calda e rassicurante.
Quindi, e per l’appunto, la via del ritorno – al bosco, alle proprie origini, alle radici – non è retorica, non può esserlo. Né può animarsi di colte aspirazioni velleitarie o sogni banalmente ingenui sulla bontà di un mondo ritenuto più lineare o autentico, e per ciò solo taumaturgico o appagante. La via, piuttosto, è fatta di pratiche minute, di abitudini, di un’alternativa che passa per l’urgenza di cose semplici, prossime e quotidiane, pertanto preziosissime, e che la raccolta di funghi e tartufi compendia plasticamente: ché occorre conoscere i posti, ricordarseli, frequentarli, testarli, e se possibile nasconderli ai più. Bisogna dire, a questo punto, che il volumetto di Campani non è per tutti. Lo apprezzeranno davvero in pochi, selezionati, flâneur del micelio interiore: quelli che amano i monti di serie B, le contrade-reliquia di comunità disperse, i sentieri che si interrompono e si ricompongono all’improvviso, e quelli che in altura ci vanno a novembre o a febbraio, quando la natura di chi alla natura pensa usualmente, per moda o anche per statuto, è, invero, completamente assente. Ecco, per costoro Alzarsi presto sarà un prezioso taccuino, un dolce breviario da conservare nella cacciatora di una vecchia giacca, camminando con gli stivali nell’erba alta e traguardando l’improvviso svettare di una mazza di tamburo.
PS: chi conosce il tratto appenninico di cui scrive Campani lo riconoscerà facilmente, gli indizi e i toponimi sono disseminati chiaramente. E in cima, prima della discesa in Garfagnana, supererà il Passo delle Radici e si fermerà, sulle orme di Shelley, a San Pellegrino, a prendere un caffè da Pacetto, a salutare le mummie del Santo e del suo “collega” San Bianco, e ad ammirare le Apuane o, se va proprio bene, un immenso mare di nuvole
Recensioni (di R. Carvelli; di I. Cecchini; di G. Sarli)