In questo piccolo libro, assemblato in brevi capitoli e ambientato – per espressa dichiarazione dell’Autore – in una “valle da poco” dell’Appenino emiliano, si racconta di tante cose: spedizioni antelucane alla caccia di funghi o tartufi; astuzie e consuetudini di montanari; ricordi d’infanzia; cani da cerca; villeggianti e turisti; scelte di vita; piccole e grandi avventure passate in quota; storie di case, boschi e frazioni oggi semi-abbandonati; brevi gite e lunghi viaggi (sempre a raccogliere funghi); nostalgie e piccoli piaceri personali. È un testo originale: un po’ diario e meditazione psicologica; un po’ romanzo familiare e autobiografico; e un po’ riflessione antropologica e sociale. Quest’ultima traiettoria è quella, probabilmente, più scontata, più attesa, che potrebbe bene accordarsi, anche per il lettore più superficiale, alla critica ormai mainstream della montagna idealizzata, accessibile, attrezzata e family friendly. Quella di Campani, infatti, è, all’evidenza, una montagna diversa: svuotata, inselvatichita, scostante, esposta ai rischi di un clima impazzito e, solo per questo, molto più dura di quanto si possa pensare. Però, a rivelarsi veramente intensi e interessanti, in Alzarsi presto, sono i profili più intimi, che a loro volta colorano i potenziali ragionamenti collettivi di una profondità più vera, quasi di una struggente e incarnata normalità. I gesti, i rituali, le interazioni del padre e del fratello Pietro, a casa come nel bosco, sono richiami fortissimi, che per Sandro – allontanatosi per la città, la fabbrica, la musica e la scrittura – operano come i rintocchi sordi di una campana lontana, tanto remota quanto calda e rassicurante. 

Quindi, e per l’appunto, la via del ritorno – al bosco, alle proprie origini, alle radici – non è retorica, non può esserlo. Né può animarsi di colte aspirazioni velleitarie o sogni banalmente ingenui sulla bontà di un mondo ritenuto più lineare o autentico, e per ciò solo taumaturgico o appagante. La via, piuttosto, è fatta di pratiche minute, di abitudini, di un’alternativa che passa per l’urgenza di cose semplici, prossime e quotidiane, pertanto preziosissime, e che la raccolta di funghi e tartufi compendia plasticamente: ché occorre conoscere i posti, ricordarseli, frequentarli, testarli, e se possibile nasconderli ai più. Bisogna dire, a questo punto, che il volumetto di Campani non è per tutti. Lo apprezzeranno davvero in pochi, selezionati, flâneur del micelio interiore: quelli che amano i monti di serie B, le contrade-reliquia di comunità disperse, i sentieri che si interrompono e si ricompongono all’improvviso, e quelli che in altura ci vanno a novembre o a febbraio, quando la natura di chi alla natura pensa usualmente, per moda o anche per statuto, è, invero, completamente assente. Ecco, per costoro Alzarsi presto sarà un prezioso taccuino, un dolce breviario da conservare nella cacciatora di una vecchia giacca, camminando con gli stivali nell’erba alta e traguardando l’improvviso svettare di una mazza di tamburo.

PS: chi conosce il tratto appenninico di cui scrive Campani lo riconoscerà facilmente, gli indizi e i toponimi sono disseminati chiaramente. E in cima, prima della discesa in Garfagnana, supererà il Passo delle Radici e si fermerà, sulle orme di Shelley, a San Pellegrino, a prendere un caffè da Pacetto, a salutare le mummie del Santo e del suo “collega” San Bianco, e ad ammirare le Apuane o, se va proprio bene, un immenso mare di nuvole

Recensioni (di R. Carvelli; di I. Cecchini; di G. Sarli)

Intervista all’Autore

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L’Autore ricorda la strana vicenda di un suo amico d’infanzia. Da piccolo, nell’immediato dopoguerra, amava passare le sue giornate al limite dei boschi e a raccogliere un solo tipo di funghi, i finferli, che poi consegnava a una famiglia di raccoglitori, per un po’ di denaro. Questa attività lo faceva sentire speciale. In seguito lo studio e il lavoro lo hanno portato lontano dal paese natale: ha studiato diritto ed è diventato un avvocato di fama internazionale, specializzato nel difendere criminali di guerra. Si è sposato e si è fatto una famiglia. Un bel giorno, però, in una passeggiata nel bosco, fa l’incontro destinato a cambiargli la vita: vede e raccoglie, per la prima volta, un meraviglioso porcino. Da quel momento in poi tutto il suo mondo comincia a ruotare attorno ai funghi, ai loro luoghi, ai sentieri lungo i quali si trovano… Inizialmente la passione gli dà giovamento, migliora anche il suo lavoro. Ma presto diventa una mania, e tutto il resto perde di significato. Sogna di scrivere sui funghi un libro del tutto innovativo, rivoluzionario; ma la sua famiglia si allontana da lui, senza che se ne accorga veramente. A questo punto entra in scena, in modo ancor più diretto, lo stesso Autore, che ci accompagna, passo dopo passo, verso il disvelamento del modo e dell’occasione in cui l’amico è riuscito a salvarsi.

Quest’ultimo racconto di Handke si presta a moltissime definizioni, eventualmente anche contraddittorie: lento, misterioso, lineare, pulito, fiabesco, semplice, disorientante, universale, rarefatto, ambiguo, essenziale, frammentato, complesso, personale… In parte questa polivalenza di stile e di genere può essere considerata un difetto, specialmente per chi non è abituato alla prosa dello scrittore austriaco; e anche per chi non si senta a suo agio con autori come de Saint-Exupéry. Perché Handke è sempre sornione, nel senso che è un finto-facile: gli piace esprimere temi e sentimenti umanissimi, ma costringe il lettore a seguire le spirali di un lungo caffè turco, disseminato di un sotto-testo ricchissimo, e così la verità la si può sperare di intravedere soltanto alla fine, sul fondo della tazzina, nelle ultimissime pagine. Naturalmente tutte queste impressioni valgono anch’esse fino ad un certo punto, poiché non è detto che ci si trovi di fronte ad un testo propriamente narrativo: il titolo (quello originale) rimanda al genere del “Versuch”, che nel caso di Handke – che già lo ha sperimentato con profitto altre volte – non richiama il semplice “saggio”, ma l’azione che è più vicina al significato etimologico della parola tedesca (e in definitiva anche di quella italiana), ossia il tentativo, il cercare qualcosa, e quindi l’ipotizzare, l’esplorare, l’interpretare. Dando – e dandosi, innanzitutto – una spiegazione della strana sorte toccata all’amico cercatore di funghi, Handke prova, pure da questa prospettiva, a fare ciò che da tempo tenta di fare: rappresentare luoghi, immagini, situazioni che possano spiegare la specialità della condizione umana e il bisogno di tutelarla da sé stessa.

Recensioni (di Daniele Abbiati, di Franco Marcoaldi, di Helmut Böttiger, di Friedmar Apel)

Conversazione con Handke (di Luigi Zoja)

La casa di Peter Handke (di Danilo De Marco)

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