Per una collana che l’editore Laterza ha chiamato “Anticorpi”, Luigi Ferrajoli, uno dei più importanti teorici del diritto, compone un breve ma incisivo saggio immunizzante sul cd. “processo di decostituzionalizzazione” della democrazia italiana.
La tesi è semplice e l’argomentazione è decisa, come si addice, per l’appunto, ad una sorta di “vaccino”, che l’Autore vuole iniettare nella coscienza di ogni cittadino. Ed è in questo senso che il libro deve essere inteso, come il frutto di un’azione di éngagément promossa da un intellettuale solido e colto, oltre che preoccupato per lo “stato della Nazione”.
Per Ferrajoli la sopravvivenza, in Italia, della democrazia rappresentativa è a rischio, perché esposta a molteplici ma convergenti aggressioni, dall’alto e dal basso.
In particolare, l’oggetto dell’aggressione non è la rappresentanza politica in senso stretto, bensì la struttura di garanzie che ne consente il funzionamento virtuoso, ossia quei limiti che la Costituzione ha voluto predisporre per il buono ed efficace funzionamento del sistema democratico. Ecco perché si discute di “decostituzionalizzazione”.
A che cosa si riferisce, precisamente, Ferrajoli?
Dall’alto la democrazia politica è schiacciata dall’interazione di quattro distinti fattori: 1. la verticalizzazione e personalizzazione populista della rappresentanza attorno all’idea del “capo” (che configge con l’idea, viceversa tutta democratica, della limitazione del potere della maggioranza, e che provoca l’insidiosa assimilazione tra la volontà del “capo” e la volontà popolare); 2. il dilagare di sistemici conflitti di interessi ai vertici dello Stato, con subordinazione di quelli pubblici a quelli privati, e con contemporaneo processo di feudalizzazione della politica e delle istituzioni (e ciò contribuirebbe ad un irrimediabile arretramento delle ragioni dell’interesse generale e degli istituti che lo dovrebbero promuovere anche in seno all’organizzazione pubblica); 3. l’ulteriore aggravarsi degli storici meccanismi di occupazione dello spazio istituzionale da parte dei partiti e la perdita, in capo ai partiti stessi, di qualsiasi ruolo di mediazione effettiva tra Stato e società (sicché il ceto politico assumerebbe contegni sempre più parassitari); 4. il radicarsi progressivo di forme proprietarie di controllo dell’informazione e dell’opinione pubblica (con confusione tra la garanzia del potere imprenditoriale della proprietà editoriale e il libero esercizio della libertà di stampa e di informazione).
La democrazia politica è messa in crisi anche da altri fattori, che agiscono dal basso e che non sono del tutto estranei a quelli che operano dall’alto, essendo, anzi, da questi indotti, moltiplicati e rafforzati: 1. lo stabilimento di un nesso pernicioso tra il populismo politico e l’omologazione delle diverse parti all’interno della dialettica fissa amico-nemico (con conseguente produzione di meccanismi sociali e culturali di esclusione); 2. la traduzione del dibattito politico sul piano della promozione collettiva di interessi di volta in volta egoistici, con dissoluzione dell’opinione pubblica propriamente intesa (e con formazione di un humus sensibile a forme di dispotismo demagogico); 3. la progressiva sfiducia nella partecipazione politica (che è dato ormai conclamato); 4. la distruzione del “diritto” dei cittadini a non ricevere notizie manipolate e, quindi, della possibilità di esercitare i propri diritti e le proprie libertà in modo critico e consapevole (e tutto questo in un clima di decadimento di qualsiasi “morale pubblica”).
Di fronte a questo quadro, i rimedi che Ferrajoli propone sono costituiti da “quattro ordini di garanzie”: 1. la reintroduzione del metodo elettorale proporzionale (che eviterebbe il prodursi del rischio populista ed autoritario); 2. la fissazione di rigide e chiare regole di incompatibilità (anche per coloro che rivestono ruoli di primo piano all’interno dei partiti); 3. la riforma del sistema dell’informazione (per evitare la sovrapposizione tra proprietà dei mezzi e libertà di espressione); 4. la ridefinizione del principio di separazione dei poteri (distinguendo le funzioni di governo da quelle di garanzia, che a sua volta non comprenderebbero solo la funzione giurisdizionale ma anche alcune funzioni amministrative finalizzate alla tutela e alla garanzia eguale di diritti fondamentali).
Last, but not least, Ferrajoli suggerisce che, in ogni caso, il procedimento di modifica della Costituzione sia reso ancor più aggravato e, quindi, difficoltoso, con accoglimento espresso, nel testo della Carta costituzionale, del limite dei “principi supremi”, così come già da tempo affermato dalla Corte costituzionale.
Si tratta di suggerimenti importanti e largamente condivisi anche da altri illustri giuristi, e qui formulati con lo stile al quale l’Autore ci ha già abituato, soprattutto nell’opus magnum rappresentato dai ponderosi volumi dei Principia iuris. Le poche note – come è usuale per un testo diretto al grande pubblico – tradiscono la ricerca assoluta della coerenza sistematica e della simmetria, della chiarezza concettuale e del dialogo “alto” con i maestri della teoria giuridica occidentale (Hans Kelsens su tutti). Ciò non può che riconciliare con il piacere che ancora riserva il ragionamento giuridico.
Vi sono, poi, rilevanti considerazioni, tutte suscettibili di riflessione e di dibattito. Merita evidenziarne almeno due (anche se ve ne sarebbero molte).
La prima concerne il ruolo della scienza giuridica.
Secondo Ferrajoli, il “costituzionalismo rigido” – quello, cioè, delle costituzioni che, come la nostra, pongono precisi limiti alla loro modificazione – “conferisce” alla scienza giuridica un “ruolo normativo”. In altre parole, la scienza giuridica “non è più concepibile né praticabile come mera contemplazione e descrizione del diritto vigente, secondo il vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì investita, dalla stessa struttura a gradi del proprio oggetto, di un ruolo critico delle antinomie e delle lacune in esso generate dai dislivelli normativi e di un ruolo progettuale delle tecniche di garanzia idonee a superarle o quanto meno a ridurle” (p. 19).
È un punto davvero decisivo, che, a parere di chi scrive, coglie parzialmente nel segno, come raramente accade nel contesto attuale. Il giurista è scienziato, certo, ma non si limita a studiare la fisiologia delle farfalle, bensì la formazione e l’interpretazione di regole precettive; il dover essere implica sempre, direttamente o indirettamente, una complessa scelta di campo. Probabilmente, anzi, così è sempre stato, anche prima, cioè, del costituzionalismo “rigido”, ed anche prima del costituzionalismo moderno. Semplicemente, con le costituzioni del secondo dopoguerra e con l’affermarsi diffuso, ad esse coevo, di dichiarazioni universali e carte internazionali dei diritti e delle libertà, la lotta tra la forza dei fatti e la forza del diritto si è vieppiù razionalizzata, e ciò anche a causa del convergere complesso e sovrapposto di sistemi giuridici diversi e sempre più numerosi. Ma questa razionalizzazione – e sul punto ha ragione Ferrajoli – deve essere costantemente presidiata.
La seconda riflessione, invece, è meno condivisibile, almeno nella sua formulazione, così netta e diretta.
Per Ferrajoli “è chiaro” che le funzioni svolte dalla pubblica amministrazione in materia di salute o istruzione “non essendo legittimate, come le funzioni di governo, dal principio di maggioranza, ma dall’applicazione imparziale della legge e dal loro ruolo di tutela, anche contro la maggioranza, dei diritti fondamentali di tutti, sono funzioni di garanzia, delle quali dovrebbe essere assicurata l’indipendenza e la separazione dal potere esecutivo” (pp. 71-72).
Se così fosse, allora si potrebbe pensare di generalizzare il modello delle “autorità indipendenti”, dei “Garanti”, anche nel contesto della soddisfazione dei diritti sociali in quanto diritti ormai fondamentali.
È vero, probabilmente, che le cose stanno già, talvolta, in questi termini, poiché, soprattutto grazie all’azione dei giudici, ma anche per esplicito tenore della Costituzione, sappiamo che questi diritti, sia pur (come si sul dire) finanziariamente condizionati, hanno un contenuto essenziale che deve essere garantito. È altrettanto vero che in molti altri Paesi esiste l’acquisizione espressa della consapevolezza che il miglior svolgimento delle prestazioni che sono correlate a questi diritti necessita di uno spazio tecnico, anche organizzato, di regolazione e di espressione autonoma. Il rischio, però, è quello di creare l’illusione che i diritti sociali, quand’anche fondamentali, siano sempre di univoca ed oggettiva percezione e non richiedano, per questo, dolorose e delicate opere di bilanciamento e di valutazione discrezionale. Non è forse vero, poi, allo stesso modo, che, rinunciando all’amministrazione “politica” in molte delle materie in cui essa è di fatto determinante, ci si arrenderebbe, forse contraddittoriamente, all’idea dell’irriducibile devianza della funzione di governo e della sua irresistibile mutazione in “potere selvaggio”?
La discussione potrebbe essere lunga, ma proprio questa potenziale lunghezza è la migliore testimonianza di una lettura stimolante.
C’è tempo, tuttavia, per una considerazione finale.
In tutto il testo – che peraltro è dedicato alle patologie, per così dire, endogene, del sistema italiano, e che pertanto ha un obiettivo specifico – vi è un “convitato di pietra”, ossia il diritto europeo (dell’Unione europea, ma anche del Consiglio d’Europa). Ci si potrebbe chiedere quale ruolo si deve riconoscere, nell’ambito del discorso di Ferrajoli, a questa specifica esperienza giuridica. Ha indebolito o rafforzato la democrazia politica garantita dalla nostra Costituzione?
Forse, diremmo noi, quel diritto ha fatto entrambe le cose. Da un lato, in contesti assai rilevanti, ha messo gradualmente fuori gioco il diritto che la Costituzione avrebbe voluto come prodotto democratico dell’assemblea legislativa italiana. Dall’altro, però, in questo sorprendente meccanismo di superamento selettivo delle norme interne, ha proiettato su di un piano diverso, e quindi anche “diversamente” garantito, molti dei diritti e delle libertà che anche la nostra Costituzione vuole proteggere, fornendoci, così, per taluni casi, un paracadute aggiuntivo. Al rischio di una “decostituzionalizzazione” nazionale può corrispondere, quindi, un rimedio “costituzionalizzante” di altra natura.
Ma il diritto della Repubblica italiana non può permettersi una resa: come probabilmente direbbe anche Ferrajoli, il virus, una volta inoculato, potrebbe ridurre allo stato “selvaggio” anche i poteri sopranazionali. Che questi siano in pericolo proprio in ragione di reiterati ed irresponsabili contegni delle istituzioni nazionali è un elemento talmente attuale da non meritare alcun particolare commento.
Un’altra recensione
Il processo decostituente: colloquio con Luigi Ferrajoli (Parte I, II, III e IV)
Intervista a Luigi Ferrajoli (di Mario Barberis, da Il Mulino, n. 3/2011)
I poteri selvaggi e la riflessione di una autorevole costituzionalista: un saggio di Lorenza Carlassare
Per riflettere in altra forma: i pericoli della concentrazione del potere e… i Puffi!