Romanzo olandese (da nazioneindiana.com)

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Mira Bunting è fondatrice e anima instancabile di Birnam Wood, un collettivo neozelandese formato da persone per lo più assai giovani e di varia estrazione, e impegnato in azioni di guerrilla gardening e di sensibilizzazione ecologica. Mira, però,  vorrebbe un salto di qualità. Shelley Noakes è l’amica e alleata più stretta di Mira; almeno lo è stata a lungo, tanto da abitarci assieme, anche se ora sente il bisogno di uscire dal gruppo e, soprattutto, da quel legame, forse troppo stretto e ossessivo. Tony Gallo, l’attivista più ideologizzato del collettivo, è tornato dopo una lunga esperienza di viaggio in Centro America: vuole capire se tra lui e Mira è rimasto qualcosa, ma, prima ancora, intende diventare un famoso reporter. Un evento improvviso – una grossa frana, che lascia isolata un’importante tenuta – diventa per i tre un’imperdibile occasione: per Mira, può significare il modo per sperimentare un progetto di coltivazione su larga scala e ricevere, così, maggiore visibilità; per Shelley, può trattarsi dell’esperienza con cui capire davvero che cosa fare del suo futuro; per Tony, può essere il campo privilegiato per uno scoop sensazionale, tanto più che la tenuta in questione è proprietà di Owen Darvish, un ricco e apprezzato self-made man, che tuttavia sembra fare affari con lo spregiudicato Robert Lemoine, tycoon americano a capo di una potentissima azienda costruttrice di droni. I presupposti per un thriller potenzialmente appassionante ci sono tutti. 

L’Autrice, però, è interessata ad altro. Le piace scavare nella psicologia dei tipi umani e dei percorsi esistenziali che i suoi eroi incarnano. Tanto più che strada facendo si rivelano tutti (o quasi) degli autentici antieroi e che, peraltro, la trama è coerentemente ridotta al minimo, se non inesistente. Egotismo, infantilismo, invidia, arrivismo, avidità… I campioni di Catton sono sezionati nei loro pensieri più elementari e autoreferenziali, ed imprigionati nello stereotipo più spinto, al solo scopo, evidentemente, di dimostrare che non è detto che anche le retoriche più nobili o ingenue nascondano sempre ambizioni incontaminate. Sembra – at last – che in questo mondo tutti siano pronti a tutto e che occorra, forse, solo una dura e tragica esperienza per rendersene conto, forse troppo tardi. Ma c’è qualcosa di più specifico. Si ha l’impressione che, al di là dell’ambientazione, questo libro sia molto più neozelandese di quanto possa apparire; che la scrittrice, in particolare, abbia voluto, da un lato, demolire una positiva, ottimistica autorappresentazione self-confident del carattere kiwi, dall’altro, ri-costruirla, almeno parzialmente, da una prospettiva meno attesa e tanto meno scontata (e di cui ci si avvede solo nella determinazione ultimativa di un personaggio femminile rimasto sotto traccia fino alle ultime pagine e della radice – familiare e territoriale – di cui esso è testimone). Ciò premesso, Birnam Wood è complessivamente un bell’esperimento.

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Odéonia e il paradiso perduto (da carmillaonline.com)

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Scrivere un libro prendendo spunto da uno sceneggiato e, ciò facendo, riscrivere un altro libro, sulle orme di chi lo ha già fatto: è questa la sfida de Il Segno del Comando, che mantiene lo stesso titolo della famosa produzione Rai negli anni Settanta come del romanzo di Giuseppe D’Agata, cui si deve anche buona parte del plot concepito per la tv. Ciò che si racconta, in senso stretto, ha un’importanza relativa. Edward Forster – giovane, brillante e già affermato studioso di Cambridge ed esperto di Byron – arriva a Roma per tenere una conferenza, ingenuamente attratto da una lettera misteriosa. Viene subito avviluppato in una serie di incontri inquietanti: strane e fascinose presenze femminili, anziani collezionisti, vecchi e nuovi amici britannici. Capisce, passo dopo passo, che gli accadimenti non sono casuali e che più di qualcuno si serve di lui per portare alla luce un antico segreto alchemico, o anche solo per risolvere altre, collaterali e più sensibili, materiali questioni. Che ovviamente alla fine vengono a galla. Ma perché questo testo – che a spezzoni può risultare un po’ noioso e che, forse, è anche inferiore, sul piano narrativo, a qualche immediato precedente – ha un suo fascino? Non tanto per l’operazione di contestualizzazione temporale e culturale: l’Autrice, certo, guarnisce la storia con qualche ammiccante comparsata laterale di note figure intellettuali dell’epoca e con un pizzico di côté femminista. Il punto non è questo. E non lo è neanche l’intreccio tra nobiltà decaduta, crimini nazisti, remote simbologie (il lettore ne potrà fare facile esperienza).

Il punto è che Loredana Lipperini riesce a coinvolgerci in un itinerario che, nel mentre ci porta a contatto con piccole meraviglie e luoghi notevoli dell’Urbe storica (quasi a completamento del viaggio sentimentale che la stessa scrittrice ha quasi contestualmente prodotto per altro editore), offre uno strumento, quasi una guida, per calarsi – come si direbbe oggi – nel lato più weird della città. Per ricordarsi, in altre parole, che Roma ha un doppio fondo, e per farlo col senso dell’intrattenimento, senza doversi immergere in ricostruzioni molto più spinte o troppo articolate. Sta al singolo appassionato, poi, cogliere la palla per capire se lasciarla rotolare – come è avvenuto per Edward Forster – alla migliore ricerca di se stesso oppure se mettersi curioso alla caccia di attimi preziosi di sorpresa, stordimento e meraviglia, che la città eterna, effettivamente, sa garantire con profitto a chi sia in grado di guardare nel posto giusto. Il Segno del Comando, inoltre, è un invito a riscoprire altre fortunate sperimentazioni televisive, in fondo partecipi della medesima ispirazione. Si tratta, infatti, del filone che proprio la Rai aveva provato a coltivare negli anni Novanta, con Voci notturne di Pupi Avati, tuttora disponibile online, e che, però, si è arrestato, rimanendo monco nonostante l’indubbio successo, sia pur in una nicchia di spettatori esperti. Ad ogni modo, anche questa è una buona ragione per lasciarsi pungolare da questa extravagante lettura.

Recensione (di F. Pezzini)

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Se si è stati scout, o se si è passata qualche settimana in montagna con la parrocchia, o se si ha voglia, semplicemente, di trascorrere qualche ora di svago su un’amaca tra gli alberi, allora Il dio dei boschi è ciò che ci vuole. Durante un campo estivo all’interno della riserva dei monti Adirondack, nello Stato di New York, scompare una ragazza, Barbara Van Laar. È l’estate del 1975. Si mobilitano subito le guardie forestali e la polizia. Il caso suscita di per sé un certo clamore, perché nel 1961 anche Bear, primogenito dei Van Laar, era sparito in circostanze apparentemente simili. E perché quella famiglia, oltre ad essere particolarmente nota, facoltosa e influente, è proprietaria dell’intera riserva e ha una maestosa dimora in prossimità del campo. La cui ideazione, peraltro, risale ai tempi del capostipite, Peter Van Laar I, che aveva acquistato quelle terre alla fine dell’Ottocento. Dov’è finita, dunque, Barbara? Questo è l’interrogativo attorno al quale si sviluppa l’intera storia, che salta continuamente avanti e indietro nel tempo, in capitoli via via più piccoli e palpitanti, per seguire le traiettorie di più personaggi, il percorso delle indagini e le vicende della famiglia Van Laar. Fino alla graduale – e naturalmente inattesa – soluzione di tutti gli enigmi.

Questo romanzo – che costituisce sicuramente un’ottima lettura – si pone a metà strada tra un giallo e un thriller e si presta a numerose osservazioni. È un libro in tutto e per tutto americano, perché fonde assieme suggestioni e motivi tipici della cultura made in USA: il rapporto con la natura; il tema dell’adolescenza e della formazione individuale; la famiglia come epicentro di ogni possibile frattura esistenziale. È anche un testo a suo modo impegnato e orientato sul piano sociale. In primo luogo, le vere protagoniste sono donne, e nella trama vi è senza dubbio una rappresentazione negativa di uno specifico modello patriarcale (senza voler trascurare un certo e complessivo simbolismo, che si coglie pienamente solo alla fine, laddove il rinnovato destino di un classico, e costitutivo, ideale d’Oltreoceano viene collocato su spalle femminili). A ciò, inoltre, si affianca la esplicita contrapposizione tra ceti colti, ricchi e viziati e il mondo in salita delle persone comuni e radicate su cose concrete. Il mix, dunque, è interessante, e – tranne qualche caduta (la giovane investigatrice a tratti mima un po’ troppo la Clarice Sterling de Il silenzio degli innocenti) – la scrittura è efficace, i depistaggi narrativi (indispensabili per questo genere) funzionano abbastanza bene e il ritmo è incalzante. Se ne Il dio dei boschi si può trovate un limite, esso sta tutto nei suoi pregi di libro ben costruito, di prodotto, cioè, che è stato concepito appositamente per essere apprezzato. Talvolta sa di già visto e di eccessivamente positivo. Ma nel mese di agosto tanto può bastare per una sana distrazione.

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Sail away sweet sister / sail across the sea (Queen)

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Cassola da scoprire (da succedeoggi.it)

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