
Scrivere un libro prendendo spunto da uno sceneggiato e, ciò facendo, riscrivere un altro libro, sulle orme di chi lo ha già fatto: è questa la sfida de Il Segno del Comando, che mantiene lo stesso titolo della famosa produzione Rai negli anni Settanta come del romanzo di Giuseppe D’Agata, cui si deve anche buona parte del plot concepito per la tv. Ciò che si racconta, in senso stretto, ha un’importanza relativa. Edward Forster – giovane, brillante e già affermato studioso di Cambridge ed esperto di Byron – arriva a Roma per tenere una conferenza, ingenuamente attratto da una lettera misteriosa. Viene subito avviluppato in una serie di incontri inquietanti: strane e fascinose presenze femminili, anziani collezionisti, vecchi e nuovi amici britannici. Capisce, passo dopo passo, che gli accadimenti non sono casuali e che più di qualcuno si serve di lui per portare alla luce un antico segreto alchemico, o anche solo per risolvere altre, collaterali e più sensibili, materiali questioni. Che ovviamente alla fine vengono a galla. Ma perché questo testo – che a spezzoni può risultare un po’ noioso e che, forse, è anche inferiore, sul piano narrativo, a qualche immediato precedente – ha un suo fascino? Non tanto per l’operazione di contestualizzazione temporale e culturale: l’Autrice, certo, guarnisce la storia con qualche ammiccante comparsata laterale di note figure intellettuali dell’epoca e con un pizzico di côté femminista. Il punto non è questo. E non lo è neanche l’intreccio tra nobiltà decaduta, crimini nazisti, remote simbologie (il lettore ne potrà fare facile esperienza).
Il punto è che Loredana Lipperini riesce a coinvolgerci in un itinerario che, nel mentre ci porta a contatto con piccole meraviglie e luoghi notevoli dell’Urbe storica (quasi a completamento del viaggio sentimentale che la stessa scrittrice ha quasi contestualmente prodotto per altro editore), offre uno strumento, quasi una guida, per calarsi – come si direbbe oggi – nel lato più weird della città. Per ricordarsi, in altre parole, che Roma ha un doppio fondo, e per farlo col senso dell’intrattenimento, senza doversi immergere in ricostruzioni molto più spinte o troppo articolate. Sta al singolo appassionato, poi, cogliere la palla per capire se lasciarla rotolare – come è avvenuto per Edward Forster – alla migliore ricerca di se stesso oppure se mettersi curioso alla caccia di attimi preziosi di sorpresa, stordimento e meraviglia, che la città eterna, effettivamente, sa garantire con profitto a chi sia in grado di guardare nel posto giusto. Il Segno del Comando, inoltre, è un invito a riscoprire altre fortunate sperimentazioni televisive, in fondo partecipi della medesima ispirazione. Si tratta, infatti, del filone che proprio la Rai aveva provato a coltivare negli anni Novanta, con Voci notturne di Pupi Avati, tuttora disponibile online, e che, però, si è arrestato, rimanendo monco nonostante l’indubbio successo, sia pur in una nicchia di spettatori esperti. Ad ogni modo, anche questa è una buona ragione per lasciarsi pungolare da questa extravagante lettura.
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