Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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La voce che dà corpo alle poesie di questa raccolta disegna i pensieri di un uomo, pensieri che provengono dalla sua vita e che, però, si soffermano sulla vita in generale, e sul mondo. È un uomo anziano, che sa di essere solo, e che percepisce e soppesa: i suoni del mattino, le sagome nere delle montagne, il potere intrinseco delle parole, le aggressioni del vociare televisivo, il passare degli anni e delle stagioni… Le sue frasi sono pacate, tristi e felici allo stesso tempo, e talvolta ironiche. Di fronte a tutto ciò che incontra, l’uomo alterna riflessioni amare, qualche sorriso e ricordi lontani, quasi cercando momenti di sollievo – un resiliente sollievo – nell’eco di grandi poeti e nell’elogio di ciò che è più piccolo, più laterale, meno appariscente; o più fisiologico, come sono i costumi di un tempo, oggi perduti, o la pura natura delle cose, la più semplice e spontanea. Sembra che tra certe cose e certi costumi vi sia un nesso, uno snodo in cui si custodiscono la verità e l’onestà, una forza che si anima per contrasto: “Mentre i potenti pensano gli affari / (da farsi in altre sedi, non vicino a noi), l’uomo considera il vecchio pentolino / e più lo guarda più lodando ammira” (p. 47). I migliori compagni di quest’uomo, alla fine, non sono gli altri uomini, sono gli animali, la cui sofferenza lo fa star male. Non lo attirano soltanto le creature più domestiche o consuete, il merlo Cantovivo, ad esempio, o il cane incontrato a passeggio in città. Anche un verme gli suscita empatia. E così la betulla, il ciliegio, i vegetali dell’orto, il biancospino, un pino, il tarassaco, un pesco, l’albero di natale. 

Come suggerisce la chiusa della prefazione che introduce questo libro, il mondo descritto da Daniele Gorret è quello migliore che esisterebbe se gli uomini avessero compiuto, à la Borges, un adeguato “abuso di letteratura”. Ciò significa, innanzitutto, che l’Autore di questa silloge – che di letteratura vive per lungo, costante e disciplinato esercizio: ne ha senz’altro “abusato” – è dotato di una speciale ipersensibilità. È una capacità che lo mette facilmente a contatto con la realtà. Che gli consente, come è proprio di un sacerdote di un culto, di sintonizzarsi meglio di chiunque altro con l’essenziale, e di indicare una strada, una via da percorrere per un’esistenza buona. Tanto che a primavera, verso pasqua, pensa di risorgere, nel senso che “gli è lecito sperare: in sogno di tentare / cambio di specie per una notte o due; / farsi albero o fiore o addirittura / ape che impollina, rondine che vola” (p. 21). Si può anche affermare che Gorret è poeta per eccellenza. Il suo verso, per nulla scontato, conduce a un pacato disorientamento, intimo ma quasi filosofico, premessa creativa di interrogazioni profonde come di intuizioni consolatorie. È tanto più vero quanto semplici e ordinarie sono le immagini evocate. Al poeta, d’altra parte, come ricordava anche Orazio, difficile est proprie communia dicere. Ebbene, in Gorret non si avverte alcuna difficoltà. E questa è davvero una bella scoperta.

L’Autore a Il posto delle parole

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Negli anni Cinquanta Egidio Meneghetti pubblica alcune poesie, che vengono in seguito raccolte per i tipi di Neri Pozza, con il titolo di Cante in piazza, e infine riproposte per una collana delle Edizioni Avanti! in questo minuscolo, eppure densissimo, libretto, illustrato da Tono Zancanaro. Mi è stato donato, nell’approssimarsi del Giorno della Memoria, da un avvocato esperto, colto e sensibile, che non posso che ringraziare per il raffinato pensiero. Per chi non lo ricordasse, nel 1943 Meneghetti – autorevole farmacologo e antifascista – fonda con Concetto Marchesi e Silvio Trentin il Comitato di Liberazione Nazionale regionale veneto. Nello stesso anno perde la moglie e la figlia nel primo bombardamento di Padova. Il suo impegno nella Resistenza è fattivo e determinante. All’inizio del 1945 viene catturato e torturato, quindi imprigionato a Verona e poi spedito nel Lager di Bolzano, dove è liberato alla fine della guerra. Subito dopo verrà eletto Rettore dell’Ateneo patavino. Contribuirà a fondare l’Istituto Veneto per la storia della resistenza, presiederà il primo Centro nazionale per lo studio della chemioterapia, farà parte del Movimento federalista europeo, sarà membro del Partito d’Azione e poi socialista, continuando a fare politica. Diventerà anche accademico dei Lincei. Nel frattempo, però, rivelerà doti di poeta. Di grande poeta. La partigiana nuda e altre Cante racchiude quelli che non è azzardato definire come i suoi capolavori. Che potremmo definire consapevoli, visto che “soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile”. È affermazione che si può sottoscrivere senza riserve.

I primi due pezzi (La partigiana nuda e Lager e l’ebreeta) sono potenti, strazianti. Nell’uno si raffigura, quasi in presa diretta, l’umiliazione di una donna partigiana, costretta a svestirsi davanti agli sgherri della banda Carità, insediata nelle stanze di palazzo Giusti, nel pieno centro di Padova. Le fonti d’ispirazione di Meneghetti sono reali e le sue parole, quasi in una pièce tragica, riescono ad opporre alla stolida violenza dei torturatori la fermezza semplice e autentica della torturata, che finisce per farsi sacra, nel senso più antico del termine. Nel secondo componimento – anch’esso radicato nell’esperienza diretta dell’Autore – si racconta di una giovane ebrea, oggetto delle attenzioni violente di Misha e Otto, i due aguzzini del campo di concentramento di Bolzano. La ragazza si lascia morire di fame, con un gesto di ricercato annichilimento, come unico modo per difendere ed esaltare uno spazio di dignità, piccola e al contempo immensa, che non può che essere tutta interiore. In questi primi due testi Meneghetti raggiunge apici che non è azzardato assimilare a quelli toccati da Louis Aragon o da Vercors. In La Rita more – che si pone al centro del trittico A mila a mila – riemerge l’omaggio intenso alla resistenza femminile e alle sue protagoniste. Ma qui funziona da perno per l’esplicita fondazione di una generale poetica della memoria (La vose ciama), in cui rimbomba, in un crescendo di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, anche la voce della fabbrica e del suo popolo (La fresa raspa). Successivamente, in Nele Basse veronese e La morte e la speransa, il tema popolare scorre verso una dimensione più autenticamente contadina. Da una parte (specie in Matina, ma anche in Note) questa traiettoria sembra precorrere le immagini fredde, umide e cineree che saranno della campagna di Ermanno Olmi. Dall’altra non fa che disegnare i contorni tipici di una irrefutabile cornice originaria, il limitare di un’esperienza storica e antropologica, che pur essendo segnata (come in Sera) da tante speranze tradite, personali e collettive, può sempre alimentare un riscatto, ché “fogo sprissa fora anca dal sasso / e se mantièn la brasa soto ‘l giasso”. Chissà se nelle pieghe del paesaggio e dell’anima veneti – tanto diversi, ormai, da quelli cantati da Meneghetti – brucia ancora questa fiamma.

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Che differenza c’è tra i poeti e gli altri uomini? La stessa che passa tra la carta fotografica, che si usa per sviluppare le foto nella camera oscura, e la carta normale, utilizzabile per le stampanti. La prima è particolarmente impressionabile. Coglie la luce, la cattura restituendola in forme nuove, più vere. In egual modo di come il poeta percepisce e traduce la realtà meglio di chi, uomo comune, le sembra apparentemente più vicino. Sicché la poesia non è nulla di così intellettuale, colto, poco decifrabile, distante dalle cose di ogni giorno. È il colore più autentico del sangue che scorre nelle vene del nostro grande e universale corpo collettivo. Dunque è pop per eccellenza. Non c’è niente di strano, allora, se un cantante di successo, che in anni recenti ha organizzato affollatissimi beach parties, e un grecista-traduttore assai anziano, ed editore elegantissimo e venerato, decidono di collaborare per assemblare un’antologia di 115 poesie. Il risultato è una raccolta originale, fresca e densa allo stesso tempo, che spazia dall’antichità ai giorni nostri, con scelte che a volte sono quasi dovute e spesso non sono scontate affatto. C’è il consueto libero e liberatorio Rimbaud; c’è (per me è sempre stata tale) la più bella poesia di Majakovskij, che forse riecheggia in un testo (altrettanto bello) di Philippe Jaccottet; c’è un inatteso, erotico Giuseppe Parini; c’è uno studiatissimo, tormentato Lorenzo de’ Medici; c’è il meditabondo, profondo Robert Frost; c’è una dolce, avvolgente Mariangela Gualtieri; c’è un estratto di un Pound potentissimo. Ma ci sono anche Saffo, Campana, Ungaretti, Esiodo, Chlebnikov, Poliziano, Zagakewski, De Angelis, Cappello, Penna, la Pozzi, Borges, Aldo Nove, l’ineguagliabile Wilcock… l’elenco sarebbe lunghissimo. E poi non mancano i greci moderni, Kavafis, Ritsos, Kazantzakis, Anaghnostakis… Forse sono loro a tessere la trama segreta della silloge, a fare da pietre miliari in una strada che inneggia alla vita in ciò in cui essa merita di essere presa fino in fondo. Non è rilevante, ad ogni modo, che non ci sia, nella progressione delle singole poesie, un costrutto facilmente riconoscibile. Serve davvero un costrutto? Se siamo in spiaggia, e raccogliamo conchiglie, ne vediamo di tutte le fogge. L’istinto, poi, è di trovarne sempre di nuove, in casuale sequenza. Mi sarebbe piaciuto, infatti, trovare anche altri poeti: Federico Tavan, Giorgio Bassani, Fabio Pusterla, Franco Marcoaldi, Novalis, Tiziano Scarpa, Ennio Cavalli, Andrea Zanzotto, Umberto Fiori, Philip Larkin, Dylan Thomas, Franco Fortini, Marianne Moore… e tanti ancora. Dopo l’ultimo pezzo, ci si chiede se, di questi libri, dotati di una così grande spontaneità, ce ne possano essere altri. Di sicuro ci sono editori e Autori che lanciano da tempo analoghe e provvide pillole: Ronzani distribuisce salutari Monodosi di poesia; e Igor De Marchi – uno degli altri poeti che in Poesie da spiaggia non avrebbe certo sfigurato – spaccia ottime confezioni di Antibiosi. La terapia, per fortuna, può continuare. Buona cura a tutti!

Una recensione (di D. Brullo)

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Ogni tanto ci si imbatte in un libro geniale. Forse non ci voleva neppure molto a pensarlo. Ma esiste sul serio e offre soddisfazioni notevoli. Soprattutto ci si diverte. L’Autore sceglie alcune delle poesie più note della tradizione scolastica italiana e le sottopone all’indagine meticolosa di un radar originale, penetrante e dissacrante. Non si avvale della lente della critica o della filologia. Utilizza soltanto il filtro paradossale e impertinente di un realismo assoluto e quasi “scientifico”, che prende i testi alla lettera. È così, ad esempio, che scopriamo che, in Davanti a San Guido, era davvero assai difficile che Carducci riuscisse a vedere i famosi cipressi dal finestrino di un treno in corsa nel buio di un tardo pomeriggio invernale. Tanto più era fisicamente insostenibile che i cipressi gli venissero incontro. Ancor più inverosimile è ciò che racconta Leopardi ne La ginestra: perché le pendici del Vesuvio non sono per nulla aride, né lo sono mai state. Del tutto assurda, poi, la situazione in cui Foscolo (In morte del fratello Giovanni) afferma di volersi immaginare, “seduto” a mo’ di acrobata su di un loculo verticale. Anche La spigolatrice di Sapri, di Mercantini, descrive uno scenario improbabile: innanzitutto perché sui terreni salmastri, vicino al mare, non ci poteva essere alcuna spigolatrice, visto che non è certo il contesto adatto per la coltivazione dei cereali; poi perché la stessa spigolatrice afferma di aver traguardato a Ponza una bandiera tricolore, quando l’isola dista 240 chilometri e il suo porto è pure nascosto dietro un’altura. L’analisi del Giuramento di Pontida è ancor più radicale: Berchet, infatti, dice di aver visto i cittadini di venti città, anche se è chiaro che le città fondatrici della Lega lombarda erano solo cinque; dice anche di averli visti stringersi la mano… ma come è immaginabile che ci siano state 40 miliardi di strette di mano? Gli esempi potrebbero continuare ancora: l’irriverenza di Piancastelli non si accontenta di “sezionare” e “smontare” altri grandi classici carducciani, leopardiani o foscoliani, e si spinge a “bacchettare” anche Manzoni, Pascoli e Montale. Alla fine, curiosamente, l’ostinata irriverenza dell’Autore può produrre nel lettore due effetti positivi e tra loro apparentemente opposti. Perché non c’è dubbio – da un lato – che questo volumetto contribuisca meritoriamente a scuotere l’albero tuttora pietrificato delle letture che generazioni di studenti sono stati costretti a sorbirsi. Un tale esercizio decostruttivo – però – lungi dallo stimolare un allontanamento dalla poesia ne indica una speciale via d’accesso, rivelandone in modo efficace il proverbiale straniamento: lo scollamento necessario, che le consente, per questo solo, di dire al meglio ciò che altrimenti potremmo soltanto registrare e descrivere.

Recensione (di Luca Sancini)

Le poesie “rilette” da Piancastelli: Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni; Ugo Foscolo, Alla sera; Ugo Foscolo, A Zacinto; Ugo Foscolo, Dei sepolcri; Giosuè Carducci, Davanti a San Guido; Giosuè Carducci, Piemonte; Giosuè Carducci, Pianto antico; Giosuè Carducci, Il bove; Giosuè Carducci, La canzone di Legnano; Giosuè Carducci, San Martino; Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto; Eugenio Montale, Spesso il male di vivere; Eugenio Montale, Prima del viaggio; Giovanni Pascoli, La quercia caduta; Alessandro Manzoni, Marzo 1821; Alessandro Manzoni, Natale; Alessandro Manzoni, Il conte di Carmagnola (coro dell’atto II); Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio; Giacomo Leopardi, La quiete dopo la tempesta; Giacomo Leopardi, Alla luna; Giacomo Leopardi, L’infinito; Giovanni Berchet, Il giuramento di Pontida; Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri.

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Vola una libellula, in città, e incontra altri insetti: di ciò racconta la poesia che apre questa piacevole raccolta. Pare quasi di vederla, la libellula, così leggera, nella sua disorientata e breve avventura destinata a concludersi la sera, con la fine della giornata e della vita, in compagnia di una lucciola. È in questa sembianza, forse, che si vede l’Autore? I protagonisti del volume, per la verità, sono anche tanti altri: uno sfortunato coltivatore di radici, che per volerle illuminare finisce per ucciderle e per morirne disperato; un malinconico elefante, dal naso di ottone, che pur di farsi accettare e amare, si mette in dieta e perde definitivamente anche ciò che lo rendeva unico; un giovane che si crogiola nella disperazione e che come tale non può che dar vita ad una prole infeconda; una giocoliera sfrenata e appassionata, e per la sua arte incompresa e condannata, come capita spesso ai grandi artisti; una voragine ingorda e onnivora, quasi un buco nero, alimentato dall’incessante forza del pensiero; un fachiro eccezionale, capace di ogni sforzo, certo, ma non di essere un comune, e globalizzato, consumatore; un abilissimo scultore, che scolpisce di tutto, pure la Luna, togliendo però al mondo il suo consueto e irrinunciabile “caos rotondo”; un terrorista talmente determinato da toglierci il sonno al solo pensiero… La rassegna potrebbe continuare, con la sua simpatica geografia, visto che quasi tutte le poesie hanno specifici e improbabili luoghi di elezione: Ventotene, l’Alaska, Borgoricco, Zelarino, Pordenone, Tolmezzo, Canelli, Buffalora, etc. È un mondo tutto fantastico, e al contempo, però, sembra più vero di quello che normalmente ci circonda, perché lo scherzo, talvolta, va anche al di là di quanto possa riuscire il ragionamento.

La quarta di copertina avverte che in questo libro si trovano trenta “racconti in rima”, e l’Autore specifica, in una nota conclusiva, che si tratta del frutto di un puro divertissement, di un esercizio per lo più estemporaneo, anche se coltivato per quasi vent’anni. Sul sito dell’editore, poi, in un articolo confezionato per l’occasione, è sempre l’Autore a chiarire che le storielle fantasiose ed eccentriche che ha scritto altro non sono che composizioni “gratuite”, “infondate”, scaturite dall’ascolto di ciò che le parole, sole e semplici, possono suggerire. Apparentemente, dunque, ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente disimpegnato, di giocoso. La verità è che si tratta di qualcosa di molto più interessante, perché è proprio nel gioco e nel disimpegno che l’auscultazione delle parole e delle loro possibili associazioni consente di dare voce ad una poesia singolarmente autentica e pulita. Vengono alla mente le filastrocche dell’infanzia; c’è del Gianni Rodari, sullo sfondo. Ma ogni pezzo, oltre a nascondere una sua morale, è anche un ritratto, e un po’ è pure un inno alla vita, o meglio alla vitalità, con un originale effetto fusion tra Edgar Lee Masters (ma remixato da De André) e Boris Vian (in Non vorrei crepare). Forse è solo una coincidenza o forse, invece, è l’ennesimo affiorare di quel rizoma che sempre connette sensibilità affini: prima di avere il tempo di aprire questo volumetto, soltanto qualche giorno prima, un amico, un poeta vero, mi segnala un bellissimo intervento radiofonico di Stephen Fry, un’appassionata laudatio della lingua e delle sue enormi virtù. Ecco, di queste intrinseche virtù Scarpa – un vero folletto dei nostri tempi, sempre più lucreziano, e sempre più epicureo – dà un saggio tanto esemplare quanto accessibile a tutti.

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“Tutto qui” è espressione che può alludere a più cose. Può essere la manifestazione di una sorta di resa, come a dire: scusate, vi aspettavate forse dell’altro, ma quello che so, quello che ho fatto è questo, solo questo. Può essere, tuttavia, anche la rivelazione di un segreto: che la cosa è semplicemente così, niente di più e niente di meno, basta guardarci nel modo giusto. Il “tutto qui” di Marcoaldi assume ambiguamente, e consapevolmente, entrambi i significati. E ha ragione l’Autore quando avverte di non cercare “corrispondenze / programmatiche tra le poesie” (p. 66), poiché la loro chiave è solo alla fine, nell’ultimo pezzo, quando si tirano le fila di un discorso in cui, dopo molte e varie suggestioni, si scopre che “è proprio tutto qui” (p. 95), e che lo è, dunque, esattamente nel senso anzidetto.

Da un lato, quindi, ci sono la registrazione e la rassegnazione. Nel libro, infatti, emerge diffusamente un’ottica quasi perdente, sconsolata, di chi ricorda che “fuori di qui si spara, e non a salve” (p. 7) e che siamo invariabilmente consegnati agli inganni dei potenti (p. 38), raggirati, abbandonati in un mondo divenuto incomprensibile, privo di misura e di bellezza p. 81), attanagliato in un “lavico frastuono” e bisognoso di una tregua, forse di una forte nevicata (p. 53), e nel quale persino la poesia non riesce a far lievitare l’esperienza concreta dell’uomo (v. p. 12 e p. 50): tanto che, nelle parole del poeta, anche l’amore può risolversi, banalmente, nel carezzare “consonanti e vocali in cerca del ritmo / sillabico che le renda intonate” (p. 47). E pure il “Benessere” suona grottesco e fatale, con toni analoghi – quindi implacabili, oltre che ripetitivi e stanchi… – a quelli ungarettiani di Cielo e mare (p. 52). Dopodiché tra le poesie si fa strada anche un itinerario diverso: punteggiato, ad esempio, dall’immagine improvvisa, tranquillizzante e rivelatrice di un gatto che si stira (pp. 81-82), o dall’intuizione che basterebbe “un passo di lato, il silenzio… e un lungo respiro” (p. 25), o dalla scoperta che c’è “la tana” a proteggerci (p. 29), o ancora dal monito che invita a rinunciare alla propria “hybris” e ad osservare “la mimosa che hai piantato / l’anno scorso. In pochi mesi ti ha / superato in altezza, vigore, / floridezza di nervature e foglie. / E tutto questo in silenzio – senza / dar fiato alle trombe, senza / esternare le proprie deliranti voglie” (p. 63). In fondo, sin dall’inizio, Marcoaldi nota che “il lusso”, quello vero, “è una piccola cosa”, “due ore / rubate al lavoro” o “il cielo” che “si è tinto di tiepolo rosa” (p. 5).

Il punto è che nell’orizzonte di questo Autore non esiste “un’univoca risposta”, perché siamo destinati ad andare “avanti e indietro – senza sosta” (p. 51), perché, in fondo, “per trovare la bellezza” è del tutto comprensibile dannarsi (p. 59), e perché talvolta ci si può anche accontentare di acquattarsi, preparando “la mossa del cavallo” (p. 61) o, meglio ancora, una volta compreso che “la vita ci è concessa / in prestito”, assumendo “il passo lento e gaio del flâneur” (p. 65). Tutto qui dischiude la chiave delle chance che può dare il sentirsi intrappolati (una precedente raccolta era intitolata proprio La trappola…), tra la percezione di possibilità commoventi e risolutive e la certezza di non riuscire a fissarle e, così, a sublimarle in un messaggio tanto universale quanto taumaturgico. Per liberarsi dallo scacco occorre vivere in una “casa matta”, lasciarsi permeare, forzare la “casamatta” del proprio egoismo e della propria autosufficienza, affinché si apra allo straniero e sciolga “il suo segreto nodo, raccontando / umbratili storie vegetali” (p. 73). Al termine della lettura mi viene in mente il Zivago cinematografico di David Lean, in particolare il breve dialogo tra il giovane dottore, e poeta, e il suo anziano maestro, medico illustre, davanti ad un microscopio: al primo non interessa la carriera che gli propone il secondo, vuole fare il medico condotto, annusare la vita, gettarvisi dentro con una semplicità assoluta, lirica, sentimentale. Tutto qui è un breviario per imboccare con soddisfazione la strada di questa felice e saggia ingenuità.

Recensioni (di Alessandro Canzian; di Niccolò Nisivoccia)

Incontro con Marcoaldi

Una “lettura-concerto” di Tutto qui

Altre poesie di Marcoaldi

 

Alcune poesie tratte dalla raccolta:

Come uscire da questo soffocante

raggiro? Ti consiglio un passo

di lato, il silenzio… e un lungo respiro.

Combattere è virile,

dispiega la potenza

e fa sentire vivi.

Ritrarsi porta pace, e bene,

sgombrando il campo

da inutili tossine.

Combattere scatena mille

e mille desideri – ritrarsi,

invece, quei desideri

elude, smorza, cancella.

Combattere stimola, agita,

smuove e rimuove, sporca.

Ritrarsi ama l’immunitas,

perciò chiude finestre e porta.

 

Combattere o ritrarsi?

Imporsi o scomparire?

Inutile cercare un’univoca risposta:

da bravi pendolari,

su treni traballanti,

andiamo avanti e indietro – senza sosta.

Quand’è che l’idea

di limite e confine

si è perduta, è stata

per sempre abbandonata?

 

Non c’è più metro né misura,

è tutto fuori asse, una iattura.

 

Vecchie regine rovistano in cantina

cercando vanamente la corona,

cupo s’aggira un dio impotente

che comunque non perdona.

 

Nulla e al suo posto. Si impone

Antropocentrica, con scarafaggi

che figliano a dicembre e cani

innaturali che patiscono allergie

legate al mondo vegetale – bambini

obesi che nuotano nel mare di Natale.

La luna impallidita resta muta

mentre lo schermo acceso

cola sangue. E il generale, lucidando

con frenesia le sue mostrine, sposta

fiero i soldatini qua e là

sul mappamondo. E tutto

si rovescia e cade – un finimondo.

 

Soltanto il gatto appare ancora attento

a coltivare il proprio baricentro.

Se ne sta fermo immobile

per lunghissimi minuti –

poi lento si stira, alza una zampa

e benedice. Commosso

mi inginocchio – in controluce.

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10 agosto, ore 21 (Castelvecchio Pascoli, frazione di Barga – LU): comincia la serata che ogni anno si tiene, a cura della Fondazione Pascoli, per omaggiare in versi e in musica il grande poeta. Il contesto è abbastanza sobrio e i protagonisti dell’evento sono i tanti autoctoni che, in abiti eleganti, non vogliono rinunciare all’occasione, un po’ paesana e un po’ mondana. Sergio Castellitto – è lui lo speaker incaricato – apre la lettura con un brano del 1908, dedicato a tutti gli italiani, e ai barghigiani in particolare, che hanno lasciato la loro terra per emigrare Oltreoceano. Ecco, Pascoli afferma che, da quel suo “romitaggio” in Garfagnana, sul colle dei Caproni, può “vedere e udir tutto”. Come si può “vedere e udir tutto”? Dove è possibile farlo? Questo, in fondo, è il segreto della poesia. E così non posso che pensare alla lettura dell’ultima prova di Roberto Cogo, concepita anch’essa in un ideale luogo di “romitaggio”, in Irlanda (isola di Achill), nel cottage che fu di Heinrich Böll e che oggi accoglie artisti in residence da ogni parte del mondo. Come per Pascoli, anche per Cogo è la natura a essere il medium ideale per una comprensione delle cose e della vita dell’uomo; anche per il poeta vicentino è la prossimità alla fonte il segreto per potersi addestrare alla visione e all’ascolto; e in entrambi i casi questa prossimità è fisica, biologica, fatta di immanenze e di presenze, delle quali il poeta è pioniere e sacerdote. Ma c’è un’altra incredibile coincidenza. In quest’ultima raccolta Cogo tasta dal vivo l’interessenza che può crearsi tra la terra e il suo popolo: per Pascoli si trattava di un serbatoio di energie individuali e sociali, capaci di trasformare, in una visione utopistica, il destino di un paese intero; ciò che Cogo registra in Irlanda, invece, è la possibilità che le forze della natura sovrastino, determinino e plasmino il carattere degli uomini, rendendolo duttile e tenace.

Il volume – nel quale tutte le poesie sono rese in italiano e in inglese, testo a fronte – è illustrato da foto e schizzi dell’Autore, ed è chiuso da una postilla versificata (originale e preziosa) di Camillo Pennati. Il viaggio di Cogo comincia a Dublino today, nel gioioso trambusto dei pub del centro, ma sulle orme di Patrick Kavanagh, vas electionis per quello che già si preannuncia come un itinerario iniziatico. Poi l’avventura ha inizio, l’Irlanda si dischiude tappa dopo tappa, nuvola dopo nuvola, mandandogli incontro i suoi tanti alfieri: i prati smisurati, le siepi, gli animali, il vento, il cielo… Finalmente, dopo la contea di Roscommon, si fece la poesia (p. 24). Il miracolo può avverarsi, il “romitaggio” è raggiunto. È l’ora di entrare in simbiosi con i colori e con la torba, di approdare all’isola e al cottage, di lasciarsi immergere dagli umori della contea di Mayo e delle sue storie di povertà e oppressione, di prendere confidenza con la spiaggia battuta dall’oceano rabbioso e sormontata dal profilo cupo e immoto del monte Slivemore, e di capire che qui si accetta l’impotenza / qui cala ogni tensione al dominio / qui si vive compressi senza opporre resistenza (p. 44); del resto, anche al deserted village (p. 50), poterono pensare solo di andarsene. Occorre, forse, imparare dagli uccelli marini, dalle sule, dalle sterne, dai cormorani, dai gabbiani, tutti sospesi in un cosmo immoto e immutabile, eppure percorso da spaccature improvvise e movimenti continui. Si è anche indotti a prestare attenzione, sempre, e non si può che restare inquieti, perché i segni sono tanti (nel cimitero di Dookinella; attorno alla chiesa…) e perché la natura è così potente e misteriosa dal diventare, a tratti, quasi gotica (non si intravede forse un tocco dark anche in Pascoli?): c’è la carogna di una pecora sfracellata tra gli scogli (p. 68); poi la luce variò ancora i colori mutando le cose / ombre di nubi scivolarono sulla superficie / come fantasmi dei pensieri più oscuri (p. 90). Ad un tratto, però, compare il fiore, la fuchsia, che dà il titolo alla silloge (deora dé, espressione gaelica per “lacrime di Dio”), e che qui ha quasi la funzione che Leopardi ha dato alla ginestra (p. 84). Il finale meditativo (p. 102) è ciò che il poeta porta con sé al termine del soggiorno: la dualità va superata questo l’ho capito ma mantenersi saldi in questa / posizione senza timore e apprensioni questo è più difficile da farsi – / includere la morte è includere la vita tutta intera senza esclusioni, / senza confronti.

PS: Barga, il comune nel cui territorio si trova l’amato “romitaggio” di Pascoli, ha un bel pub irlandese e si è autodefinita come “the most scottish town in Italy”: i discendenti dei barghigiani emigrati in Scozia tornano spesso alla loro terra, specie d’estate, e nel mese di agosto, sotto il cielo di San Lorenzo, organizzano spensierate serate di fish & chips, nello stadio comunale… Cogo si interroga se la globalizzazione guizzi come il pangasius coreano nel pub di Dugort (p. 54); di certo in agosto l’oceano romba anche in Garfagnana.

Una recensione (di Pina Rando)

Un assaggio del volume

Due “precedenti” di Roberto Cogo: Senza il peso di un pensieroDell’immergersi e nuotare (wild swimming)

Diario d’Irlanda (Heinrich Böll)

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Per celebrare l’importante cinquantenario della classica collana bianca di poesia, Einaudi ha raccolto cinquanta pezzi inediti da cinquanta poeti della sua ricca “scuderia”. È una lettura più che piacevole: per un dato qualitativo, la cui concentrazione è apprezzabilissima; ma anche per le tante curiosità che stimola, risvegliando il desiderio di riscoprire voci note e di sperimentare sensibilità diverse. La dimensione antologica permette anche un credibile affresco dello stato della nazione poetica, al punto che, nonostante l’evidente impossibilità di ridurre tutti gli autori ad un’unica e comune ispirazione, l’accostamento dei molti versi produce un mood quasi uniforme e riconoscibile. Naturalmente si tratta di un inganno, anche se è vero che questi componimenti hanno una sola protagonista: la poesia stessa, la sua fonte meravigliosa e gli effetti speciali che sa ribaltare sull’animo che le si abbandona. In mezzo a tanto stupore, quindi, non si saprebbe che cosa segnalare. Ma alla fine ci si sente risvegliati, pronti ad esclamare, con Marcoaldi, Mondo, ti devo lodare!

La poesia sa redimere, riscattare. Il tema è questo, forse è banale, ed è esplicito: Villa apre così il volume, e così lo chiude De Alberti. Il punto è che, non solo per il poeta, bisogna cercare e provare sempre, in uno sforzo di perenne vigilia e di frustrante incompletezza, e in un contesto in cui sono cose ed eventi di tutti i giorni a rappresentare il codice da risolvere. Ferrari, Montanari, la Bedini, Temporelli, Strumia… sono tutti braccati da questa sfida. Uniche ad esserne esenti paiono la Cavalli e la Valduga, e forse perché, con ironica impertinenza o incrollabile amore, hanno accettato tutti i limiti della nostra esperienza terrena e hanno scelto di percorrerli con una moderna e smaliziata gioia ditirambica. Non mancano, ad ogni modo, in tutte le poesie del volume, tante conferme e tanti sprazzi di sensazioni toccanti, nude e rivelatrici. Pennati è vorticoso come sempre, non solo per il soggetto, ma per la capacità di renderlo metafora suprema. Il dialetto di Loi continua ad avere colori e sapori di inimitabile eloquenza. Magrelli traduce come pochi l’atroce banalità dei dolori quotidiani. Lolini non si smentisce: affilato, lineare e implacabile. E Cecchinel ci avviluppa e ci trascina in una compassione fisiologica. Probabilmente, le delusioni possono venire dalle firme più conosciute al grande pubblico: Nove, Scarpa, De Luca, Fois, Mari… qui non sono al loro meglio, appaiono quasi come controfigure di se stessi, un po’ come accade per Ceronetti, cristallizzato, ormai, nel suo ruolo di Pizia. Analoghe considerazioni valgono per un Pusterla sorprendentemente scontato (che torna, invece, ai consueti livelli nell’ultimissimo e prezioso Argéman); e anche per la Candiani, che – se è consentito… – rovina tutto all’ultimo rigo. Dopodiché, la più grande verità ce la ricorda Consonni, e ciò basterebbe a trovare consolazione o, quanto meno, a riconoscersi come membri di un club di galeotti felici: Quando vorresti che la fermata / non arrivasse mai / stai leggendo sul tram / e quella è la tua casa. Pertanto, acquistate un paio di volumi della Bianca, fatevi regalare dal libraio questa bella strenna e rintanatevi nel primo mezzo pubblico a sfogliarne compiaciuti le pagine.

La prima e l’ultima poesia della raccolta

La pratica del vuoto (Carlo Villa)

La poesia è la soluzione più felice
al problema dell’infelicità,
destinato a vederne l’illuminato e non la luce,
praticandola a prolungamento della notte
e anticipazione d’ogni giorno da condannato.

Ma così tante albe da esecuzione
m’hanno recato solo dei guai,
nessuno che s’alzi in ore più decenti
disposto a perdonare accumuli
d’un così vasto, inutile capitale.

La responsabilità degli sperperi
raduna fra loro i perdenti,
facendoli vincere in maniera esponenziale,
mentre il condannato rimarrà sempre solo,
in una piazza affollata, che a consolarlo

non recherà neppure il suo amore.
Esiste una bramosia del soffrire
e un naturale angustiarvisi
quando ci si alza così presto
anche per quanti, d’un destino diverso,

li si vorrebbe meno addormentati:
ma il proposito mi viene continuamente sottratto,
moltiplicandosi in ogni campo l’effetto contrario,
da scoraggiare ogni possibile ravvedimento
in un’irreparabile pratica del vuoto.

Dall’interno della specie (Andrea De Alberti)

Eppure nel frammento di ogni memoria,
nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo
accarezziamo la vertigine con una mano
nello scandalo innaturale che ci trattiene,
eppure, dall’interno della specie,
ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,
con le prove concepite fuori da ogni possibile
orizzonte di stupore.

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Il titolo del libro è il nome dell’ospedale pediatrico di Roma, dove l’Autore – come recita la quarta di copertina – “ha lavorato come operaio”. Il suo sguardo si è posato più volte sui volti di tanti piccoli pazienti, restandone inevitabilmente segnato. Ne sono uscite 28 poesie, raccolte nella prima parte di questo volumetto. Ci parlano di sbigottimento, di stupore, di scoperta e di tenerezza, di intima commozione. Nei padiglioni della struttura, infatti, Mencarelli fa molti incontri: con occhi stanchi e spauriti, con la fisionomia inspiegabile della disgrazia, con il freddo più agghiacciante della vita (p. 27); ma anche con qualche sorprendente sorriso, con la speranza, con la fede che sa guardare un punto oltre l’orrore (p. 33); soprattutto, con l’amore materno che fronteggia la sfida del dramma attingendo all’umiltà più normale e tenace. E che avvicina, nel dolore, universi solo in apparenza distinti: Sembrano così sedute e vicine / due terre opposte l’una all’altra, / la prima di pelle chiara forse slava / la camicia a pois le scarpe lise, / facile intuirne la miseria, / ma nei suoi occhi tutta una dignità / di chi ha ben altro da pensare. / La seconda nascosta dal velo nero / il nero della sua religione, / all’aria solo le caviglie / grosse di scura carnagione. / Pare che ognuna / non sappia dell’altra l’esistenza, / poi si alzano come d’accordo / comandate da un bisogno condiviso, / un caffè caldo, / la forza di andare avanti (p. 12).

In marcia e Guardia alta – le altre due parti della silloge – sono la conferma di una pura attitudine ricettiva, di una poesia, cioè, che non ha bisogno di un’ispirazione, dal momento che è conseguenza diretta dell’assimilazione di una fisiologia più umana che mai, che necessariamente deve imporsi e riconoscersi come unica e univoca certezza. Difatti, quello di Mencarelli, è il sempiterno interrogativo, tipico del poeta vero: È un punto risaputo. / Non c’è mattina del creato / che non ci trovi qui / paralizzati, a noi stessi estranei (p. 44).Così non resta che assecondare gli stimoli della comunissima realtà che ci circonda, dall’asfalto delle vie urbane, incidenti compresi (quasi come schiaffi), ai quadretti dei ricordi, degli affetti, degli spazi domestici e degli amori: per accorgersi comunque di dover vivere, come tutti, in un eterno aprile, quasi seguendo l’istinto dei cani che abbaiano (p. 71). Occorre saper accettare, conoscere i propri confini, saperne godere sempre. In chiusura, la bellissima immagine di Roma lontana, vista sotto il gelo dell’inverno e in una mattina di domenica, è quasi un nuovo infinito leopardiano, ancora una volta periferico, ancora una volta, e contemporaneamente, “dentro” e “oltre” l’esperienza quotidiana: dato che Cose bellissime questi occhi vedono, e La mia casa è fin dove arriva lo sguardo, / questo palmo di terra, tutta mia vita (p. 91). Bambino Gesù è del 2010; è un’opera preziosa, una tappa di un percorso che poi è continuato e che conferma Mencarelli come una delle voci più felicemente “incarnate” di tutta l’odierna poesia italiana.

Recensioni (di Marco Lodoli, Maurizio Cucchi, Ottavio Rossani, Maurizio Clementi, Angelo Rendo)

Alcune poesie tratte da questo libro e altre da Figlio (2013)

La poesia di Daniele Mencarelli (da letteratura.rai.it)

Due poesie tratte dal libro:      

(padiglione S. Onofrio)

Lode al più grande artista vivente        
al suo genio alla sua opera immortale,  
lode a quel ragazzino o ragazzina         
che ha trasformato in arte pura
gli strumenti della quotidiana sua tortura,         
un cielo fatto di azzurre mascherine     
le nuvole di garza e ovatta idrofila,       
le verdi chiome degli alberi      
con il cotone della camera operatoria, 
creati con tubicini trasparenti e colorati
gli uomini le case gli steccati.   
Lode a te che davvero patisci la tua arte         
non nei pensieri ma nel male della carne,         
il tuo capolavoro è appeso fuori la cappella.    

—–

Ma il peso di questa guardia    
che tengo alta dalla nascita,     
di questo posto di vedetta       
da dove osservo e vigilo,         
mi pesa come un mondo sulla schiena. 
Uomo mascherato da angelo custode  
con ali posticce l’aureola di cartone     
senza miracoli nella cartucciera,           
senza rimedio contro l’emorragia del tempo.

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