Che dire di Giorgio Vigolo? Il primo impatto, più di trent’anni fa, non era stato proprio positivo. Le sue traduzioni di Hölderlin mi erano parse difficili, forse un po’ artificiose e quasi démodé, tanto che da allora gli ho sempre preferito Enzo Mandruzzato. Ma di fronte a quelle pagine, l’attrito, fonte come sempre di una ostinata curiosità, mi ha condotto subito alla magnifica edizione mondadoriana dei sonetti del Belli. È lì che ho cominciato a conoscere Vigolo veramente – così colto, così sofisticato – scoprendo anche che è stato egli stesso un raffinatissimo poeta (a proposito: lo scorso anno Le Lettere ha compilato una suggestiva selezione di alcuni dei suoi pezzi migliori). Mai, però, avevo ancora letto i racconti de Le notti romane. Li ho recuperati, casualmente, nell’edizione originaria Bompiani del 1960, sulla cui copertina cartonata campeggia (azzeccatissima) la riproduzione di un quadro di Eugène Berman, Il grande palazzo d’angolo. L’opera è stata riedita nel 2015 da EdiLet.

Si tratta di testi sospesi tra il ricordo fantastico e deformato (Il guardacacciaIl Plutone casareccioIl mistico luccioIl pavimento a figurine), la rievocazione onirica di epoche e riti del passato (Le notti romaneLa cena degli spiriti), il richiamo ispirante di spazi e atmosfere di una città che è presente quanto remota (Avventura a Campo dei fioriLa bella mano), e l’introspezione autoanalitica (Il palazzo di campagnaUn invito a pranzoIl nome del luogo). Alcune trame e atmosfere sono degne del migliore Edgar Allan Poe. Ma il titolo del volume riecheggia un illustrissimo, italianissimo precedente. E la Roma che vi fa da sfondo, in effetti, è città passatada tempo, se non da secoli. Meglio, è fuori dal tempo e basta, visto che è questo che postula l’ostinata e inattuale visione dell’Autore. Che, tuttavia, parte sempre da un tuffo personale e profondo in un dettaglio o in un’immagine, alla ricerca delle radici dei luoghi e della storia, tra le leggende e le voci che hanno incorporato e che possono far provvidamente riemergere, solo al volerli cercare. O, piuttosto, al volervisi abbandonare, come accade nel sonno e nel sogno, anche quando avviene ad occhi aperti, esplorando vie, piazze, mercati, edifici e squarci di cielo.

La sensibilità di Vigolo, eremita di Roma, è tutta compendiabile in questa attitudine costantemente contemplante: “Allora, rallento il passo e mi metto a scrutare, con attenzione estrema, facciate, porte e vetrine; questo mi procura, sulle prime, momenti di vera delizia e il movimento interno, ingenuo, d’una speranza che ondeggi dentro di me e mi sollevi e mi porti sú, nell’aria magica e rubata di quella irripetibile avventura. Poi il ricadere è amaro, in fondo ai duri letti di strade della città, di nuovo svanita al vero, tornata al falso di tutti i giorni che sembra si possa toccare e invece non esiste affatto” (da Autobiografia immaginaria, p. 64). È esattamente così. Per questo scrittore – il cui stile denso ed elegante si è forgiato nella lingua erudita della prima metà del Novecento – il presente quotidiano è ciò che di più distante vi può essere. La realtà, infatti, con la verità che porta con sé, si nasconde agli occhi dei più, perché ha fondamenta misteriose, che solo l’invenzione letteraria può toccare.

Recensioni (di M. Onofrio; di A. Ronci)

Alcune poesie di Vigolo, su YouTube

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Ecco 7 motivi per cui questo libro diventerà il tuo preferito (da esquire.com)

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Certo per chi non è abituato pensare è sconsigliato (Guccini)

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Lisa ha undici anni e vive a Parigi con mamma Camille e papà Paul. All’improvviso – ma, fortunatamente, solo per poco tempo – perde la vista. I genitori la portano da uno specialista, con cui avviano una serie di esami, prove e test per capire che cosa sia successo. D’accordo col medico, decidono di farla seguire anche da uno psicologo. Tuttavia, di trovare la persona adatta si incarica il nonno Victor, il quale, con la complicità della nipote, sceglie di accompagnarla ogni mercoledì, anziché dal dottore, prima al Louvre, poi alla Gare d’Orsay e infine al Centre Pompidou. Ogni volta si concentrano su una sola opera: la osservano e la commentano insieme. E ogni volta ricavano un messaggio o un insegnamento. Victor, al principio, nel timore di una incombente cecità, spera di poter fissare nella mente della nipotina una serie di immagini belle e indimenticabili. Poi, osservando le reazioni e le intuizioni che Lisa manifesta di fronte alle opere, si fa via via convinto che la bambina abbia doti peculiari e che dentro di lei vi sia una forza altrettanto singolare. Nel frattempo, Lisa, traendo stimolo da quanto apprende nella contemplazione artistica, continua la sua vita, consolida le sue amicizie, aiuta papà Paul a fronteggiare le difficoltà della piccola attività economica e affronta i tipici momenti di crescita personale di chi si avvia all’adolescenza. Più di tutto, l’esperienza che le fa fare il nonno l’aiuta a capire il senso recondito di ciò che è accaduto alla sua vista, mettendola sulle tracce della nonna Colette e permettendole, così, di fare una scoperta che la rende improvvisamente più grande.

Il grande successo di questo libro è più che comprensibile. In modo forse maggiormente schematico, ma per ciò solo non meno efficace, l’Autore compie con l’arte ciò che Jostein Gaarder aveva fatto un bel po’ di anni fa con la filosofia, nel riuscitissimo Il mondo di Sophia. Le visite di Victor e Lisa ai più prestigiosi musei parigini permettono un Grand Tour nella storia dell’arte moderna e contemporanea. I capitoli, infatti, contengono ciascuno una riflessione su una singola opera, con l’effetto di comporre una galleria di cinquantadue capolavori, da Botticelli a Pierre Soulages. Occorre affermarlo con forza: si può fare buona divulgazione anche così. In un veicolo narrativo, cioè, in cui al racconto proprio del romanzo si sovrappongono facili, ma mai banali, letture di una serie di opere d’arte. Anche l’escamotage di farvi soffermare lo sguardo di Victor e Lisa, e di riprodurne in corsivo l’analitica descrizione, è formativo: invita più che opportunamente al supplemento temporale di attenzione che l’arte sempre richiede. Ma Schlesser va oltre. Sia pur in una trama al fondo ingenua e scontata, Gli occhi di Monna Lisaè animato dalla fiducia che l’arte – come la conoscenza, come la cultura… – possa cambiare realmente la vita delle persone, anche dinanzi alle prove più dure. È un sincero manifesto neo-umanista, che solo per questo merita il massimo rispetto. Oltre tutto, le spiegazioni sulle singole opere e sui loro autori sono talvolta acute ed efficaci. Sono imperdibili, ad esempio, le pagine su Botticelli, sugli olandesi, su Goya, su Whistler, su Malevic, su Boltanski. Specialmente, è tangibile l’idea della tradizione artistica, dei rimandi tra epoche e protagonisti diversi, dell’ampliamento e della sofisticazione progressivi di una dimensione concettuale da sempre presente, e alla stregua della quale rilevare l’intrinseca attualità di ogni manifestazione artistica. Questo è un libro per tutti, e forse i primi a doverlo leggere sono proprio i più esperti.

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