Che dire di Giorgio Vigolo? Il primo impatto, più di trent’anni fa, non era stato proprio positivo. Le sue traduzioni di Hölderlin mi erano parse difficili, forse un po’ artificiose e quasi démodé, tanto che da allora gli ho sempre preferito Enzo Mandruzzato. Ma di fronte a quelle pagine, l’attrito, fonte come sempre di una ostinata curiosità, mi ha condotto subito alla magnifica edizione mondadoriana dei sonetti del Belli. È lì che ho cominciato a conoscere Vigolo veramente – così colto, così sofisticato – scoprendo anche che è stato egli stesso un raffinatissimo poeta (a proposito: lo scorso anno Le Lettere ha compilato una suggestiva selezione di alcuni dei suoi pezzi migliori). Mai, però, avevo ancora letto i racconti de Le notti romane. Li ho recuperati, casualmente, nell’edizione originaria Bompiani del 1960, sulla cui copertina cartonata campeggia (azzeccatissima) la riproduzione di un quadro di Eugène Berman, Il grande palazzo d’angolo. L’opera è stata riedita nel 2015 da EdiLet.

Si tratta di testi sospesi tra il ricordo fantastico e deformato (Il guardacacciaIl Plutone casareccioIl mistico luccioIl pavimento a figurine), la rievocazione onirica di epoche e riti del passato (Le notti romaneLa cena degli spiriti), il richiamo ispirante di spazi e atmosfere di una città che è presente quanto remota (Avventura a Campo dei fioriLa bella mano), e l’introspezione autoanalitica (Il palazzo di campagnaUn invito a pranzoIl nome del luogo). Alcune trame e atmosfere sono degne del migliore Edgar Allan Poe. Ma il titolo del volume riecheggia un illustrissimo, italianissimo precedente. E la Roma che vi fa da sfondo, in effetti, è città passatada tempo, se non da secoli. Meglio, è fuori dal tempo e basta, visto che è questo che postula l’ostinata e inattuale visione dell’Autore. Che, tuttavia, parte sempre da un tuffo personale e profondo in un dettaglio o in un’immagine, alla ricerca delle radici dei luoghi e della storia, tra le leggende e le voci che hanno incorporato e che possono far provvidamente riemergere, solo al volerli cercare. O, piuttosto, al volervisi abbandonare, come accade nel sonno e nel sogno, anche quando avviene ad occhi aperti, esplorando vie, piazze, mercati, edifici e squarci di cielo.

La sensibilità di Vigolo, eremita di Roma, è tutta compendiabile in questa attitudine costantemente contemplante: “Allora, rallento il passo e mi metto a scrutare, con attenzione estrema, facciate, porte e vetrine; questo mi procura, sulle prime, momenti di vera delizia e il movimento interno, ingenuo, d’una speranza che ondeggi dentro di me e mi sollevi e mi porti sú, nell’aria magica e rubata di quella irripetibile avventura. Poi il ricadere è amaro, in fondo ai duri letti di strade della città, di nuovo svanita al vero, tornata al falso di tutti i giorni che sembra si possa toccare e invece non esiste affatto” (da Autobiografia immaginaria, p. 64). È esattamente così. Per questo scrittore – il cui stile denso ed elegante si è forgiato nella lingua erudita della prima metà del Novecento – il presente quotidiano è ciò che di più distante vi può essere. La realtà, infatti, con la verità che porta con sé, si nasconde agli occhi dei più, perché ha fondamenta misteriose, che solo l’invenzione letteraria può toccare.

Recensioni (di M. Onofrio; di A. Ronci)

Alcune poesie di Vigolo, su YouTube

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Disclosure preliminare: Acitelli è uno dei miei Autori preferiti; uno di quelli cui torno ogni tanto, per ritrovarmi. Fortuna vuole, poi, che non sia così difficile procurarsi un suo libro, perché tra volumi in prosa e opere poetiche la produzione è assai vasta. Quanto ai prodromi di di tale frequentazione, la complicità è scattata molti anni fa, con La solitudine dell’ala destra. Che non è solo una graziosa e nota raccolta di ritratti di grandi calciatori. Vi si trovano – veramente – alcuni tra i versi migliori della poesia italiana della fine del secolo scorso. Di Acitelli questa volta ho scelto Cinema Farnese, un originale romanzo in forma di taccuino, ambientato negli anni Settanta. È il diario colloquiale dell’io narrante, un giovane studente universitario di Roma, che è iscritto a Farmacia, ma ne diserta spesso e volentieri le lezioni. Il suo interesse è tutto per certi spazi del centro, tra Corso Vittorio, Piazza del Paradiso, Campo de’ Fiori, Piazza Farnese, Via Giulia. Ne osserva la fauna: da un lato, baristi, barbieri, camerieri, vecchi impiegati, a rappresentanza di un mondo di popolo in via di rapida sparizione; dall’altro, gli ambulanti, qualche barbone e, soprattutto, la generazione dei fricchettoni – veri e falsi – che si riunisce sotto la statua di Giordano Bruno e di fronte al Cinema Farnese. Dove i due universi, letteralmente, si toccano e si mescolano. Ma il ragazzo, più di tutto, ama immergersi nelle atmosfere che le pietre, i palazzi straordinari e la varia umanità di contorno gli parano di fronte. Gli piace perdersi in fantasticherie totalizzanti. E ascoltare, e spiare, i poeti del momento, che gravitano nella stessa zona: Bellezza, Paris e specialmente Veneziani. Proprio a un reading di poesia, non a caso, conosce una bella fricchettona, che lo attira in una sensuale e corrisposta relazione, e in tanti e intensi incontri in una fascinosa mansarda di Via di Monserrato.

Cinema Farnese è una pillola del miglior Acitelli. È prova ulteriore del suo peso specifico, che è quello del trovatore e antropologo di una romanità tanto personale quanto prototipica. Nella quale il Magnifico e il Sorprendente, che sono diffusi a ogni angolo della città, si compendiano con il più Semplice e Umano, anch’essi sottoposti da tempo a un processo di lenta consunzione e bisognosi, dunque, di custodia e di memoria. Ciò che è interessante, però, è che in Acitelli la descrizione delle cose e delle persone è medium per un’esperienza toccante, profonda, quasi iniziatica, che si alimenta ai ricordi delle scoperte d’infanzia, ma da esse pure si astrae, per produrre alimento attuale e universale a una sensibilità perennemente assetata. D’altra parte, anche quando si esprime nella prosa, Acitelli è intrinsecamente e assolutamente poeta, inteso a spremere il succo di ogni piccolo, grande dettaglio, perché prezioso. E l’autobiografia (che è sempre tanta) altro non è che un giacimento in cui immergersi continuativamente, l’eterno più prossimo cui accostarsi e raccordarsi. Verrebbe da svolgere un’argomentazione più complessa, il cui esito sarebbe questo: all’Autore riesce di vivere, in Roma, la provincia più autentica, consentendo, così, a quella immensa Idea (che la caput mundialtro non è) di sprigionare dal basso e dal quotidiano le correnti carsiche che la animano e che possono fungere, per ciascuno, come una sorta di speciale lampada di Aladino. Soltanto due aggiunte, per chiudere: 1) per trarre da Acitelli il massimo della soddisfazione occorre dargli fiducia, abbandonarsi alle sue pagine, ascoltarne il respiro (non è uno scrittore facile, va un po’ scalato, sapendo che dalla vetta ciò che si vede è molto bello); 2) per chi abbia un po’ di tempo, come per chi abbia modo di stare spesso a Roma, i libri di Acitelli sono guide perfette (le strade, gli edifici, le chiese, i piccoli portoni delle vie del centro… è tutto vero, tutto afferrabile; letto Acitelli, si guarda Roma con occhi diversi; anzi, la si guarda davvero, per la prima volta).

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista ad Acitelli… sulla strada del padre

Acitelli sulle tracce di Sandro Penna

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Giovanni Pascoli mi ha sempre affascinato. È accaduto al primo impatto, sui banchi di scuola. Pareva un autore troppo semplice, quasi banale. Doveva per forza nascondere qualche mistero; un segreto che non fosse, naturalmente, quello che di solito si decritta anche nelle più comuni antologie. Come è noto, infatti, lo scioglimento dell’enigma è intravisto a metà strada tra una spiccata e riconoscibile abilità di innovazione e sperimentazione linguistica e di padronanza metrica e stilistica, da un lato, e, dall’altro, la poetica del nido come tenace ispirazione al ripiegamento luttuoso, tragico e doloroso in un confine di cose, di sensazioni e di affetti familiari e minuti. Ma questa lezione, a ben vedere, non è completamente convincente. Specie se presa come unica e, per così dire, autentica. Anche l’eccellente e persuasivo scavo di Cesare Garboli, a partire dal volume sulle Trenta poesie famigliari, non ha mutato il quadro critico di riferimento. Anzi, paradossalmente, lo ha tanto più consolidato attorno all’immagine esclusivizzante e a dir poco ambigua del rapporto tra il poeta e le sorelle Ida e Mariù (e soprattutto quest’ultima, elettasi in seguito al ruolo di custode ufficiale della memoria di Giovannino e della sua immagine). In anni recenti, però, la produzione di una nuova biografia e la pubblicazione del carteggio col fratello Raffaele – opere entrambe di una appassionata studiosa – consentono di allargare lo spettro dell’analisi pascoliana. Di rivelarne, cioè, una complessità ancor maggiore, e di valorizzare – nel tentativo di abbracciare una personalità mossa da forze talvolta contrastanti o addirittura contraddittorie – sia gli studi danteschi (a lungo misconosciuti, per la loro apparente oscurità), sia il corpus dei contributi in prosa (spesso valutati come occasionali o eccessivamente retorici). In particolare, ciò che si traguarda non è più l’esperienza dell’uomo prigioniero di un dramma e di una correlata istanza di ricostruzione e protezione affettive, bensì la dimensione del Pascoli proiettato nel futuro, innovatore e creatore di un nuovo approccio nei confronti della vita e dell’universo. Una dimensione, questa, che non è estranea al fattore psicologico, ma che con esso convive e si lega quasi sinergicamente, producendo un quid di irriducibile positività.

Di quest’ultima ispirazione costituisce esempio emblematico il libro di Giuseppe Grattacaso. Che si sviluppa in un originale ritmo alternato, dove alla meticolosa rivisitazione di alcune delle più celebri poesie pascoliane (tra cui L’aquiloneX agostoIl ceppo) si intervallano efficaci carotaggi in molti degli snodi cruciali dell’itinerario esistenziale e di pensiero del poeta di San Mauro. È proprio attraverso queste tappe, illustrate al lettore con sapiente oculatezza, che l’Autore riporta alla luce un Pascoli parzialmente diverso. Lo vediamo, ad esempio, nell’esuberante e fecondo periodo messinese, alla ricerca di un riconoscimento pubblico e di una posizione sociale che a tratti gli paiono più che tangibili. E lo scopriamo anche nella fedeltà che riserva alle sue amicizie e nella volontà di farsi portavoce visionario di una inedita forma di umanità, resa cosciente dai progressi della scienza. Allo stesso tempo, però, lo comprendiamo anche in tutta l’ambiguità e fragilità del suo carattere, che ce lo mostrano “come le foglie della sensitiva”, facile a ripiegarsi su se stesso al primo segnale di pericolo o di insuccesso. Sicché il sentimento di una strutturale, ma essenziale, precarietà diventa, per Pascoli, porta privilegiata di accesso per un’inedita Weltanschauung: la conoscenza sempre più precisa, e disorientante, della realtà è sostenibile, e diventa, addirittura, fonte di energia e di forza, soltanto alla condizione di cogliere la “spaventevole proporzione” tra ciò che è infinitamente piccolo e ciò che è infinitamente grande. In questa prospettiva, la sovrapposizione tra il presente e il passato come la prefigurazione del futuro e la custodia del ricordo non sono altro che funzionali ed efficacissime tecniche espressive. Non solo pongono Pascoli quale antesignano di esplorazioni e sensibilità tipicamente novecentesche (quale quella proustiana), ma consentono al poeta “fanciullino” di diventare “sacerdote”, mentore qualificato di una riconnessione palingenetica alla natura e al cosmo intero. È così che dal buio di una parabola calante si fanno strada una sofisticata proposta epistemologica e un kit di salvezza individuale e collettiva. Niente male per colui che finora è stato etichettato come grande incompreso e malinconico aedo contadino.

Giovanni Pascoli nella Treccani

La Fondazione Pascoli (a Castelvecchio) – Il Museo Casa Pascoli (a San Mauro) – La Rivista Pascoliana

Pascoli secondo Renato Serra (un famoso saggio) – Pascoli secondo Cesare Garboli (un testo, un’intervista, una lezione) – Un’intervista impossibile (Arbasino intervista Pascoli)

I grandi della letteratura italiana: Giovanni PascoliPascoli “Narratore dell’avvenire”Pascoli a Barga

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Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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La voce che dà corpo alle poesie di questa raccolta disegna i pensieri di un uomo, pensieri che provengono dalla sua vita e che, però, si soffermano sulla vita in generale, e sul mondo. È un uomo anziano, che sa di essere solo, e che percepisce e soppesa: i suoni del mattino, le sagome nere delle montagne, il potere intrinseco delle parole, le aggressioni del vociare televisivo, il passare degli anni e delle stagioni… Le sue frasi sono pacate, tristi e felici allo stesso tempo, e talvolta ironiche. Di fronte a tutto ciò che incontra, l’uomo alterna riflessioni amare, qualche sorriso e ricordi lontani, quasi cercando momenti di sollievo – un resiliente sollievo – nell’eco di grandi poeti e nell’elogio di ciò che è più piccolo, più laterale, meno appariscente; o più fisiologico, come sono i costumi di un tempo, oggi perduti, o la pura natura delle cose, la più semplice e spontanea. Sembra che tra certe cose e certi costumi vi sia un nesso, uno snodo in cui si custodiscono la verità e l’onestà, una forza che si anima per contrasto: “Mentre i potenti pensano gli affari / (da farsi in altre sedi, non vicino a noi), l’uomo considera il vecchio pentolino / e più lo guarda più lodando ammira” (p. 47). I migliori compagni di quest’uomo, alla fine, non sono gli altri uomini, sono gli animali, la cui sofferenza lo fa star male. Non lo attirano soltanto le creature più domestiche o consuete, il merlo Cantovivo, ad esempio, o il cane incontrato a passeggio in città. Anche un verme gli suscita empatia. E così la betulla, il ciliegio, i vegetali dell’orto, il biancospino, un pino, il tarassaco, un pesco, l’albero di natale. 

Come suggerisce la chiusa della prefazione che introduce questo libro, il mondo descritto da Daniele Gorret è quello migliore che esisterebbe se gli uomini avessero compiuto, à la Borges, un adeguato “abuso di letteratura”. Ciò significa, innanzitutto, che l’Autore di questa silloge – che di letteratura vive per lungo, costante e disciplinato esercizio: ne ha senz’altro “abusato” – è dotato di una speciale ipersensibilità. È una capacità che lo mette facilmente a contatto con la realtà. Che gli consente, come è proprio di un sacerdote di un culto, di sintonizzarsi meglio di chiunque altro con l’essenziale, e di indicare una strada, una via da percorrere per un’esistenza buona. Tanto che a primavera, verso pasqua, pensa di risorgere, nel senso che “gli è lecito sperare: in sogno di tentare / cambio di specie per una notte o due; / farsi albero o fiore o addirittura / ape che impollina, rondine che vola” (p. 21). Si può anche affermare che Gorret è poeta per eccellenza. Il suo verso, per nulla scontato, conduce a un pacato disorientamento, intimo ma quasi filosofico, premessa creativa di interrogazioni profonde come di intuizioni consolatorie. È tanto più vero quanto semplici e ordinarie sono le immagini evocate. Al poeta, d’altra parte, come ricordava anche Orazio, difficile est proprie communia dicere. Ebbene, in Gorret non si avverte alcuna difficoltà. E questa è davvero una bella scoperta.

L’Autore a Il posto delle parole

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Negli anni Cinquanta Egidio Meneghetti pubblica alcune poesie, che vengono in seguito raccolte per i tipi di Neri Pozza, con il titolo di Cante in piazza, e infine riproposte per una collana delle Edizioni Avanti! in questo minuscolo, eppure densissimo, libretto, illustrato da Tono Zancanaro. Mi è stato donato, nell’approssimarsi del Giorno della Memoria, da un avvocato esperto, colto e sensibile, che non posso che ringraziare per il raffinato pensiero. Per chi non lo ricordasse, nel 1943 Meneghetti – autorevole farmacologo e antifascista – fonda con Concetto Marchesi e Silvio Trentin il Comitato di Liberazione Nazionale regionale veneto. Nello stesso anno perde la moglie e la figlia nel primo bombardamento di Padova. Il suo impegno nella Resistenza è fattivo e determinante. All’inizio del 1945 viene catturato e torturato, quindi imprigionato a Verona e poi spedito nel Lager di Bolzano, dove è liberato alla fine della guerra. Subito dopo verrà eletto Rettore dell’Ateneo patavino. Contribuirà a fondare l’Istituto Veneto per la storia della resistenza, presiederà il primo Centro nazionale per lo studio della chemioterapia, farà parte del Movimento federalista europeo, sarà membro del Partito d’Azione e poi socialista, continuando a fare politica. Diventerà anche accademico dei Lincei. Nel frattempo, però, rivelerà doti di poeta. Di grande poeta. La partigiana nuda e altre Cante racchiude quelli che non è azzardato definire come i suoi capolavori. Che potremmo definire consapevoli, visto che “soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile”. È affermazione che si può sottoscrivere senza riserve.

I primi due pezzi (La partigiana nuda e Lager e l’ebreeta) sono potenti, strazianti. Nell’uno si raffigura, quasi in presa diretta, l’umiliazione di una donna partigiana, costretta a svestirsi davanti agli sgherri della banda Carità, insediata nelle stanze di palazzo Giusti, nel pieno centro di Padova. Le fonti d’ispirazione di Meneghetti sono reali e le sue parole, quasi in una pièce tragica, riescono ad opporre alla stolida violenza dei torturatori la fermezza semplice e autentica della torturata, che finisce per farsi sacra, nel senso più antico del termine. Nel secondo componimento – anch’esso radicato nell’esperienza diretta dell’Autore – si racconta di una giovane ebrea, oggetto delle attenzioni violente di Misha e Otto, i due aguzzini del campo di concentramento di Bolzano. La ragazza si lascia morire di fame, con un gesto di ricercato annichilimento, come unico modo per difendere ed esaltare uno spazio di dignità, piccola e al contempo immensa, che non può che essere tutta interiore. In questi primi due testi Meneghetti raggiunge apici che non è azzardato assimilare a quelli toccati da Louis Aragon o da Vercors. In La Rita more – che si pone al centro del trittico A mila a mila – riemerge l’omaggio intenso alla resistenza femminile e alle sue protagoniste. Ma qui funziona da perno per l’esplicita fondazione di una generale poetica della memoria (La vose ciama), in cui rimbomba, in un crescendo di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, anche la voce della fabbrica e del suo popolo (La fresa raspa). Successivamente, in Nele Basse veronese e La morte e la speransa, il tema popolare scorre verso una dimensione più autenticamente contadina. Da una parte (specie in Matina, ma anche in Note) questa traiettoria sembra precorrere le immagini fredde, umide e cineree che saranno della campagna di Ermanno Olmi. Dall’altra non fa che disegnare i contorni tipici di una irrefutabile cornice originaria, il limitare di un’esperienza storica e antropologica, che pur essendo segnata (come in Sera) da tante speranze tradite, personali e collettive, può sempre alimentare un riscatto, ché “fogo sprissa fora anca dal sasso / e se mantièn la brasa soto ‘l giasso”. Chissà se nelle pieghe del paesaggio e dell’anima veneti – tanto diversi, ormai, da quelli cantati da Meneghetti – brucia ancora questa fiamma.

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In questo libro si racconta la vita irregolare e sfortunata di Dino Campana, l’autore dei Canti Orfici, nato nel 1885 a Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo, e morto nel 1932 a Scandicci, nell’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci. Vassalli ha dedicato tantissimo tempo alla storia del poeta: è stato più volte nei suoi luoghi; ha cercato e studiato per anni, e meticolosamente, le pochissime carte che lo riguardano (soprattutto le “module” e i provvedimenti giurisdizionali con cui è stato spedito a più riprese in manicomio); ha scandagliato l’ambiente familiare e le relazioni difficilissime con la madre Fanny; ha letto, contestualizzato e confutato le testimonianze e i pregiudizi dei biografi, di chi lo aveva conosciuto, dei benpensanti di Marradi e dei compagni dell’università; ha ricostruito i tanti viaggi all’estero, i soggiorni fiorentini, i vagabondaggi, le poche amicizie, i rapporti conflittuali con i letterati e gli artisti emergenti (Papini, Soffici, Carrà); e naturalmente ha scavato nel rapporto passionale e totalizzante che Dino ha avuto con Rina Faccio (la famosa Sibilla Aleramo, femme fatale celeberrima per i suoi contemporanei). Questa frequentazione, per Vassalli, è stata costante. Ha funzionato come fonte di ispirazione, spingendolo a raccogliere e pubblicare, di Campana, poesie, lettere e prose

La notte della cometa, peraltro, è testo che, sin dalla prima apparizione nel 1984, ha suscitato molte reazioni, spesso positive, talvolta negative. Lo rievoca lo stesso scrittore in Natale a Marradi, il pezzo pubblicato autonomamente nel 2008 e posto in appendice all’edizione einaudiana del 2017. Quale può essere stata, per i più critici, la colpa di Vassalli? Non certo quella di aver dato alla luce un ottimo libro, che con i suoi piccoli capitoli quasi si legge come un diario e tenta l’immedesimazione più puntuale con il percorso esistenziale del poeta e, direttamente, con le sue parole e con la loro intrinseca forza evocativa. Vassalli è davvero riuscito a isolare le tappe della ricerca di Campana, nella sua irresistibile tensione all’immersione nel paesaggio, e nelle emozioni e immagini più forti della vita; ne ha colto l’istintiva e pervicace volontà di rifondazione, personale come umana, nel senso più universale del termine. Dunque, secondo l’Autore – che è rimasto assai colpito dagli interventi talvolta pretestuosi dei detrattori – il suo approfondimento narrativo porterebbe una sola responsabilità, quella di aver cercato di sottrarre Campana alle leggende che lo hanno sempre voluto soprattutto e irrimediabilmente pazzo. 

Oggi si può sicuramente affermare che quest’ultimo è il merito più grande del volume. Perché Vassalli, in effetti, ha seguito un’altra traccia: ha evidenziato l’ostilità costante della madre di Dino, la diversità avversata e ridicolizzata dai paesani, l’ambiguità dei riscontri clinici e la probabilissima morte per sifilide. Quello de La notte della cometa, dunque, non è il ritratto di un malato mentale: è la tragica parabola di un grande incompreso, di un uomo fondamentalmente solo, e discriminato pure da chi gli era più vicino, in un tempo in cui la stranezza veniva trattata sistematicamente come un problema di sicurezza pubblica e di onorabilità, e come la premessa della patologia più profonda e paurosa. Vassalli ci ha rammentato, ascoltando da vicino il grido espresso di Campana, che esiste un’enorme differenza tra chi è grande poeta, celebrato ufficialmente dagli allori, e chi, invece, non vive tutto intero nel suo presente, ma è “ombra di eternità”, “fuori del tempo e dei suoi traffici”. Più di ogni cosa, però, Vassalli ha dato voce pulsante all’Italia del primo Novecento, alla sua strutturale arretratezza, alla tortuosità che un talento eccentrico e autodidatta doveva fronteggiare anche solo per potersi palesare. La notte della cometa, in fondo, è uno straordinario pezzo di storia sociale. E pure per questa ragione è libro da leggere, meditare e rileggere ancora.

Due documentari Rai su Dino Campana: qui e qui

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Che differenza c’è tra i poeti e gli altri uomini? La stessa che passa tra la carta fotografica, che si usa per sviluppare le foto nella camera oscura, e la carta normale, utilizzabile per le stampanti. La prima è particolarmente impressionabile. Coglie la luce, la cattura restituendola in forme nuove, più vere. In egual modo di come il poeta percepisce e traduce la realtà meglio di chi, uomo comune, le sembra apparentemente più vicino. Sicché la poesia non è nulla di così intellettuale, colto, poco decifrabile, distante dalle cose di ogni giorno. È il colore più autentico del sangue che scorre nelle vene del nostro grande e universale corpo collettivo. Dunque è pop per eccellenza. Non c’è niente di strano, allora, se un cantante di successo, che in anni recenti ha organizzato affollatissimi beach parties, e un grecista-traduttore assai anziano, ed editore elegantissimo e venerato, decidono di collaborare per assemblare un’antologia di 115 poesie. Il risultato è una raccolta originale, fresca e densa allo stesso tempo, che spazia dall’antichità ai giorni nostri, con scelte che a volte sono quasi dovute e spesso non sono scontate affatto. C’è il consueto libero e liberatorio Rimbaud; c’è (per me è sempre stata tale) la più bella poesia di Majakovskij, che forse riecheggia in un testo (altrettanto bello) di Philippe Jaccottet; c’è un inatteso, erotico Giuseppe Parini; c’è uno studiatissimo, tormentato Lorenzo de’ Medici; c’è il meditabondo, profondo Robert Frost; c’è una dolce, avvolgente Mariangela Gualtieri; c’è un estratto di un Pound potentissimo. Ma ci sono anche Saffo, Campana, Ungaretti, Esiodo, Chlebnikov, Poliziano, Zagakewski, De Angelis, Cappello, Penna, la Pozzi, Borges, Aldo Nove, l’ineguagliabile Wilcock… l’elenco sarebbe lunghissimo. E poi non mancano i greci moderni, Kavafis, Ritsos, Kazantzakis, Anaghnostakis… Forse sono loro a tessere la trama segreta della silloge, a fare da pietre miliari in una strada che inneggia alla vita in ciò in cui essa merita di essere presa fino in fondo. Non è rilevante, ad ogni modo, che non ci sia, nella progressione delle singole poesie, un costrutto facilmente riconoscibile. Serve davvero un costrutto? Se siamo in spiaggia, e raccogliamo conchiglie, ne vediamo di tutte le fogge. L’istinto, poi, è di trovarne sempre di nuove, in casuale sequenza. Mi sarebbe piaciuto, infatti, trovare anche altri poeti: Federico Tavan, Giorgio Bassani, Fabio Pusterla, Franco Marcoaldi, Novalis, Tiziano Scarpa, Ennio Cavalli, Andrea Zanzotto, Umberto Fiori, Philip Larkin, Dylan Thomas, Franco Fortini, Marianne Moore… e tanti ancora. Dopo l’ultimo pezzo, ci si chiede se, di questi libri, dotati di una così grande spontaneità, ce ne possano essere altri. Di sicuro ci sono editori e Autori che lanciano da tempo analoghe e provvide pillole: Ronzani distribuisce salutari Monodosi di poesia; e Igor De Marchi – uno degli altri poeti che in Poesie da spiaggia non avrebbe certo sfigurato – spaccia ottime confezioni di Antibiosi. La terapia, per fortuna, può continuare. Buona cura a tutti!

Una recensione (di D. Brullo)

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Il primo è l’immancabile Barbero. Se lo sono chiesto in tanti, forse: poteva davvero questo apprezzato e popolare studioso e divulgatore perdere l’occasione, a 700 anni dalla morte, di raccontarci a suo modo il Sommo Poeta? No, forse non poteva. Anche se bisogna aggiungere che sicuramente doveva. Perché si tratta di un buon libro. Soprattutto, non è la ricostruzione di un filologo o di un dantista, che spesso seguono strade fin troppo interne alle loro discipline. Dante è il frutto di un’indagine puramente storica: a tratti pignola come dev’essere, eppure mai noiosa (il corposo apparato di note è coerentemente collocato alla fine del libro). A Barbero – ed è facile supporre che ciò attragga anche gran parte dei lettori comuni – interessa la figura concreta dell’Alighieri, immerso nel suo tempo. Vuole capire se è vero o meno che alla battaglia di Campaldino Dante era tra i feditori, i cavalieri della prima linea. Si chiede quali fossero le origini, e gli affari, della sua famiglia, parzialmente ricostruiti attraverso l’analisi e il confronto di molti atti notarili dell’epoca. Racconta qualcosa sulle famose amicizie, sulla misteriosa Beatrice e sul matrimonio con Gemma. Indaga sugli antenati di Dante, per comprendere chi erano e se c’era qualcuno di nobile, e sulla formazione del futuro poeta. Si immerge a capofitto nella Firenze del “governo del popolo” e nel vorticoso intreccio delle aspre e irriducibili conflittualità tra le famiglie dei magnati e dei popolani o tra i Bianchi e i Neri. Qui sta la parte più interessante del volume, ed è quella centrale: offre uno spaccato preciso delle violente lotte politiche fiorentine, delle loro contraddizioni e dell’articolazione corporativa della società comunale e delle sue istituzioni, fornendo molte informazioni sul ruolo attivo di Dante e sugli eventi che ne hanno determinato la confisca delle proprietà, la condanna a morte e l’esilio. Di questo, poi, ma con un ritmo che è lievemente in discesa rispetto a quello precedente, Barbero cerca di individuare il complesso e sofferto itinerario, al servizio (e sotto la protezione) di diversi signori, quindi a Verona e al seguito (forse) di Enrico VII, e infine a Ravenna. In definitiva, questo volume completa e corregge, sul piano di una rigorosa e dettagliata ricerca storica, le ancora godibili e credibili lezioni di Mario Tobino e Cesare Marchi: la prima più raffinata e romanzesca; la seconda più esplicativa e popolare. Abbiamo un buon trittico, finalmente, e il risultato non è trascurabile.

Un altro buon libro – che però si pone, quanto a genere, agli antipodi del Dante di Barbero – è quello di Giuseppe Conte. L’Autore non è l’ex Presidente del Consiglio, ma il poeta, traduttore e romanziere apprezzato anche all’estero. Il primo approccio potrebbe respingere: Dante… in love? (Non è che si vuole fare con Dante Alighieri ciò che si è fatto con Leonardo da Vinci…?) E invece, a lettura terminata, nulla quaestio. Con una scrittura precisa e pulita Conte costruisce una favola, che è contemporanea e dantesca. Si immagina che Dante, al termine dei suoi giorni, giunto in Paradiso veramente, sia “condannato” da Dio a uno strano rito, che ha tutto il sapore di uno studiato e malizioso contrappasso. Ogni anno dovrà tornare una notte sulla terra, nella sua Firenze, in forma di impalpabile e invisibile ombra; e ciò finché non avrà incontrato una donna che corrisponda al suo amore. Schiavo dell’Amore, Dante, lo è sempre stato, anche di quello più passionale. La missione gli pare impossibile, quando, al settecentesimo atto dell’appuntamento annuale che gli è toccato in sorte, mentre si trova davanti al Battistero di San Giovanni, si accorge di Grace, una giovane studentessa americana. È un colpo di fulmine. La segue fino a casa, capisce che sta studiando proprio la Commedia e la osserva leggere i famosi versi su Paolo e Francesca, finché ha la sensazione che il miracolo sia accaduto. Nel frattempo Dante è spettatore di tutto ciò che accade attorno a lui, pure della pandemia, e di come e quanto il mondo sia cambiato. E ha anche l’occasione di conoscere un singolare senzatetto. A leggere con attenzione, Conte racconta una storia estremamente semplice, pur utilizzando temi, lessico e luoghi tipici del grande poeta fiorentino, ed arrivando a rievocarne tratti della vita e delle avventure, mescolandoli ad una attualizzazione leggera e per niente eccentrica. Non risulta fuori campo neanche la seconda parte del libro, nella quale l’Autore propone per estratti alcuni dei più noti versi danteschi. Rivelando le fonti della sua ispirazione, e commentandole brevemente, Conte riesce, senza pedanteria alcuna, ma con la complicità che ha suscitato per mezzo della favola, a compiere l’operazione più meritevole: invitarci a rileggere Dante, direttamente, per capirlo come se fosse uno di noi.

Recensioni su Dante (di F. Cardini; di C. Giunta; di G. Talarico)

Recensioni su Dante in love (di M. Magliani; di L. Mascheroni; di F. Pierangeli)

Alessandro Barbero racconta Dante

Intervista a Giuseppe Conte

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La figlia di Ezra Pound si racconta, dall’infanzia ai 21 anni, fino al matrimonio con il principe (e futuro egittologo) Boris de Rachewiltz. Tutto comincia a Gais, in Val Pusteria, dove Maria – nata dal rapporto tra Pound e la violinista Olga Roudge – viene affidata a una famiglia di contadini tirolesi. Cresce con loro, nei campi e tra le pecore, e la sua prima lingua è il dialetto locale. Il Signore e la Signora (Ezra e Olga) passano talvolta a trovarla e così Maria conosce anche il nonno Homer e alcuni amici della coppia. Ma il vero contatto con l’universo speciale in cui gravitano i suoi genitori coincide con la scoperta di Venezia. Il cuore e i pensieri di Maria sono sempre legati a Gais, e al principio la disciplina che le impone Olga la fa soffrire. Nonostante ciò le passeggiate e le frequentazioni lagunari del padre cominciano a incuriosirla. Più cresce, più Ezra si interessa di lei e della sua istruzione. Arriva dunque il tempo del collegio, a Firenze, presso una scuola confessionale gestita dalle suore. Frattanto, pur restando sempre fissa la stella polare di Gais, Maria conosce anche Rapallo, altro rifugio di Pound e della sua compagna. L’allargamento degli orizzonti spaziali coincide con un’esperienza di maggiore conoscenza: dell’italiano e dell’inglese; del lavoro letterario del padre e delle sue idee; della madre. E anche con la scoperta di Roma, dove il padre collabora con la propaganda radiofonica del regime fascista. Poi la guerra scoppia e la famiglia si trova nuovamente separata. È una condizione destinata a durare a lungo. Specie dopo l’8 settembre 1943, quando l’Alto Adige rientra nell’Alpenvorland. Maria presta il suo servizio per le truppe del Reich, prima come segretaria e poi come infermiera. La Liberazione la sorprende a Cortina e da lì prova a raggiungere Ezra e Olga, cominciando così una ricerca che la porterà a scoprire dell’arresto del padre e del suo internamento in un campo di prigionia alleato, vicino a Pisa. Da quel momento per Maria – già diventata erede letteraria di Pound – si apre una nuova vita, che riparte ancora da Gais, ma questa volta da un antico e suggestivo castello.

Concepito originariamente in inglese, ma confezionato in italiano direttamente dall’Autrice, Discrezioni è stato pubblicato nel 1973 da Rusconi in un’edizione (quella che ho avuto l’occasione di leggere) corredata qua e là da alcune foto molto evocative. Recentemente è stato riproposto, con scelta del tutto opportuna, da Lindau. È una lettura piacevolissima, un esempio paradigmatico di bella scrittura personale: spontanea, semplice e originale al contempo. Oltre a ciò, il racconto si alterna a brevi estratti dei Cantos di Pound, nella resa offerta dalla stessa Mary. Poesia e memoir, dunque, si accavallano e si spiegano reciprocamente, con un risultato che sa di elegante naturalezza e costituisce il segreto del libro, il mezzo per comprenderlo al di là del suo stretto contenuto. L’effetto, in primo luogo, si deve al genius loci, concetto che l’Autrice quasi respira e di cui il racconto costituisce una sorta di monumento. Mary, poi, partecipa costantemente agli accadimenti che la riguardano e la circondano, con un contegno che è punteggiato sia di momenti di diligente accettazione, sia di curiosi e coraggiosi rilanci, sia di un’irresistibile e diffusa nostalgia. È così perché ci parla puramente, senza fronzoli o sovrastrutture, della sua storia, degli ambienti in cui è stata educata ed è maturata, e del ruolo baricentrico che ha gradualmente assunto il legame spirituale col padre. Ma così facendo, ci dà l’opportunità di considerare puramente anche l’arte, il pensiero e il sentimento, vissuti per ciò che sono, indipendentemente dai loro più aspri compagni di viaggio. Quella che Mary canta, in sostanza, è l’innocenza del suo percorso come immagine più autentica dell’innocenza di Pound, pur nella sua pericolosa, drammatica e inaccettabile militanza. Un’innocenza, peraltro, che è radicale, perché poetica e speculativa. Non è un approccio meramente emotivo, non si spiega con la devozione filiale. Ha una fiera matrice esistenziale, ed è perciò che riesce a colpire tuttora la sensibilità del lettore.

Due interviste a Mary de Rachewiltz (una qui e l’altra qui)

Visita a Mary de Rachewiltz (di P. Tonussi)

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