The Old Monuments (da theawl.com)

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Pietro Zambelli, detto Zambo, prende il suo zaino ed esce da Genova. Vuole raggiungere a piedi una casa in Maremma, un lontano lascito del padre, che vi aveva trascorso i momenti più intensi della guerra partigiana. Il suo percorso è lungo, ma lui non ha fretta e parte determinato, accompagnato dal cane Tobia. Il programma è inoltrarsi nelle montagne, per passare attraverso gli Appennini. Il viaggio, tuttavia, si interrompe presto. Zambo incontra una strana famiglia, che abita in un vecchio rifugio: si ferma con loro per qualche tempo e conosce Agnese. Poi riparte, ma si accorge che non trova più la pistola che aveva con sé. Avvia allora un’ostinata ricerca, tornando anche sui suoi passi, inutilmente, e raggiungendo così la baita del vecchio Dindon, antico amico del padre. È qui che viene a contatto con il lupo, un esemplare ramingo che un’associazione di animalisti vuole monitorare e proteggere, e che lui, invece, libera di nascosto. Da quel momento l’avventura sembra procedere, apparentemente senza sorprese. Zambo raggiunge la casa e comincia a ristrutturarla, conosce la figlia di Dindon, ritrova e riperde la misteriosa Agnese, e ritrova anche il lupo, con il quale finisce per condividere la lotta per la sopravvivenza in quota. In ballo, però, c’è qualcosa di più che il rischio di una vita selvaggia. Dindon gli ha rivelato un segreto profondo, che spiega la morte del padre e il significato della casa in Maremma. La sua missione, dunque, non è ancora finita, e dovrà tornare nuovamente indietro, con il lupo, per restituire alla natura tutte le sue ragioni.

È da tempo che la montagna è al centro della scena letteraria italiana: come luogo del ritorno alle origini; mezzo per riscoprire se stessi; occasione per sperimentare il senso del limite; teatro di un predominio naturale riaffermato come irrinunciabile; spazio della resa di conti. Caccia sceglie quest’ultima opzione, perché sullo sfondo c’è da risolvere definitivamente un enigma familiare, risvegliando anche le zone d’ombra della guerra di Liberazione. Ma il protagonista è anche attratto da un magnetismo che lo spinge a cercare in ogni caso un nuovo equilibrio personale. Fino a qui non si direbbe un romanzo originale. E non suona bene – perché un po’ retorica – anche la scelta di inframmezzare il racconto con spezzoni della memoria di Zambo, che ricorda il rapporto con il padre, nell’infanzia e in un passato più recente. Sennonché il libro si rivela ugualmente avvincente. L’Autore riesce a costruire una relazione di singolare connivenza tra l’asprezza delle leggi di natura e il carattere implacabile della legge morale, in un crescendo in cui tutto si fonde, anche biologicamente, nel finale freddo e sorprendente. La Natura, in questo romanzo, non è solo matrigna; è fisiologicamente spietata, incombente, onnivora. In altre parole, è americana, come nei migliori orizzonti del Grande Sud letterario. Anche la copertina, particolarmente azzeccata, sembra suggerire questa direzione: la foresta, il bosco sovrastano anche il lettore, programmaticamente. Da non sottovalutare, poi, le partecipazioni straordinarie di due grandi ex della scena punk italiana: fanno la loro buona comparsa, infatti, Giovanni Lindo Ferretti, il barbarico, con la sua passione per i cavalli, e Massimo Zamboni, fonte pressoché certa d’ispirazione, per la creazione di Zambo e per il tema familiare / resistenziale, oggetto di un altro bel libro.

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Kim Robinson è il più grande romanziere americano, ma non ce ne siamo accorti (da linkiesta.it) 

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The valley rebels (da theguardian.com)

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È un romanzo in tre tempi. Il primo (1933-1945) è il tempo del padre, Luigi, di cui si racconta la giovinezza e la crescita, dal matrimonio alla guerra sul fronte balcanico, fino alla militanza partigiana in Istria. Il secondo tempo (1945-1982) è quello del figlio, Valerio, alter ego dell’Autore, seguito in due diverse fasi del suo percorso, dall’adolescenza dell’educazione sentimentale alla maturità della docenza universitaria e dell’impegno di partito. Il terzo tempo (2005) appartiene al “figlio del figlio”, Marcello, tornato in Italia, da Londra, sulle tracce di se stesso, del padre e del padre di suo padre. Ai tre tempi non corrispondono soltanto, come spiega Luperini stesso nella Nota che chiude il volume, tre diversi modi di narrare (la docu-fiction di carattere storico; l’autobiografia romanzata; il racconto in terza persona). Quei tempi sono anche tre contenitori: di una ricerca psicologica che si muove su più generazioni, e degli scenari, familiari, sociali e politici sui cui di volta in volta la ricerca si articola. Si assiste, così, ad un lungo viaggio introspettivo, che attraversa il fascismo, la Resistenza, la rinascita della mobilitazione politica, gli anni di piombo, lo smarrimento della fine del secolo. E a questo viaggio si intreccia il percorso dell’Autore e del suo dna di studioso engagé, in un continuo rimando tra ragioni private e istanze collettive, tra fragilità affettive e stati di equilibrio.

Il genere cui appartiene questo testo è quello dei libri che per essere compresi e assimilati richiedono un adeguato periodo di sedimentazione. A distanza di qualche ora, infatti, si prova già nostalgia per lo stile pacato e il periodare pulito. Ma il valore di questa lettura non si esaurisce qui. Anzi, la scrittura piana in questo caso proprio non aiuta, perché potrebbe stimolare un giudizio soltanto semplicistico. Si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte alla sceneggiatura di una meglio gioventù più intimistica, più esistenziale. Non è così, però. Né si può pensare che la cifra di questa storia sia solo quella strettamente autobiografica: che peraltro, nel caso di specie, è interessante comunque, visto che a mettersi a nudo, sia pur in forma romanzata, è uno degli intellettuali italiani più noti e apprezzati. Anche l’esemplarità, tuttavia, non spiega tutta la suggestione che l’Autore riesce a imprimere alle sue pagine. Il loro punto di forza, il motore che le alimenta è in quella parola, rancura, che sta nel titolo e che è tratta da una poesia di Montale. Non è soltanto un omaggio al cuore delle attenzioni filologiche di Luperini e del suo magistero di critico. La rancura è il vero protagonista del romanzo. È una sensazione di afflizione che deriva da un rimprovero istintivo e malinconico, ma soffocato; dal senso di un condizionamento sofferto, che altri, forse, ha imposto, in modo tuttavia indelebile e naturale, come se fosse un testimone difficile, da prendere con la coscienza che non lo si potrà mai superare davvero, se non comprendendolo e accettandolo. Come si fa con i genitori, ci ricorda Luperini; e come si fa anche con le proprie origini, le proprie case e i propri amori, e infine anche con il proprio paese.

Recensioni (di Angelo Guglielmi; di Pierluigi Pellini; di Floriano Romboli)

Un’intervista a Romano Luperini

L’Autore a Fahrenheit

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