Mi piace raccontarti sempre / quello che mi succede (Tiromancino)

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Due storie americane (da minimaetmoralia.it)

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Questo romanzo è stato pubblicato in Francia nel 1984. A Edizioni di Atlantide va il merito di offrirlo oggi, per la prima volta, ai lettori italiani, confermando una speciale sensibilità non solo per le proposte più originali, ma anche per le riscoperte. Ed è in effetti singolare e affascinante, e disorientante, la storia di Armin Stern, un protagonista che si racconta da sé, talvolta in prima persona, altre volte in terza. Nato a Kronstadt, l’odierna Brașov in Romania, Stern è il giovane rampollo di una famiglia benestante di commercianti di origine ebraica. La sua infanzia si svolge nel cuore di una città e di un territorio ricchi di storia, vivaci e mitteleuropei per eccellenza, nella più spontanea e complicata mescolanza di lingue e culture. È legatissimo a questi luoghi, di cui sogna le antiche leggende, soprattutto la misteriosa e tragica figura di una sfortunata principessa. Tanto che si sentirà sempre accompagnato dalle apparizioni di una strana figura femminile. La seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista, sconvolge l’esistenza di Arnim e della sua famiglia. Riesce, tuttavia, a cavarsela e a studiare letteratura. Ma l’arrivo dei sovietici getta il Paese in un clima di nuovo pericolo e, mentre l’amico Ariel si tuffa entusiasta nel regime entrante, Armin rischia di finire in un campo di lavoro. Comincia così una lunga e costante peregrinazione, che da Haifa lo porta a Ginevra e a Parigi, dove – non prima di uno straniante periodo di lavoro ai tropici – riesce a integrarsi come professore universitario e sposa Matilde. Ma la quiete non arriva. Kronstadt, le occasioni perdute, la rovina di un mondo orami fiabesco continuano a tormentarlo, in un nostalgico e ricorrente struggimento. Oltre a ciò, uno strano e incombente pericolo minaccia seriamente la sopravvivenza di Armin come quella di tanti altri esuli. Nemmeno l’ospitalità di Ariel, che nel frattempo è fuoruscito in Spagna, sembra costituire un rifugio adeguato. Lo smarrimento cresce e si esalta, fino all’epilogo, in cui una dimensione onirica ha definitivamente il sopravvento.

“Arnim Stern tenta di incorporare il flusso tumultuoso dei suoi ricordi in un insieme che vorrebbe strutturato”: in questo modo, ad un certo punto, Reichmann/Stern parla incidentalmente di sé e della sua condizione sradicata e confusa. D’altra parte il romanzo stesso comincia quasi dalla fine, perché si dipana come flusso di ciò che l’esule rammenta del suo passato, mentre sta raggiungendo la casa di Ariel a Corcubión, in Galizia. Arnim, infatti, è alla ricerca. Vuole trovare una spiegazione e, contemporaneamente, un futuro al limbo perenne cui si immagina di essere consegnato, tra fallimenti relazionali e sentimentali, da un lato, e persecuzioni politiche, dall’altro. Si ha la sensazione, in qualche passo, che egli guardi alla sua situazione come a una forza di gravità cui è soggetto tutto il mondo, coinvolto com’è nello scontro tra superpotenze, in molteplici focolai di guerra, in frequenti attacchi terroristici, in intricati intrighi spionistici. Non c’è dubbio, al riguardo, che Reichmann abbia raffigurato in maniera particolarmente riuscita la classica figura, e la psicologia, dello juif errant: sovvengono presto, al lettore, le altrettanto tipiche rappresentazioni di Chagall (quelle più fantastiche e volanti, ma anche quella più conosciuta e famosa). Ed è anche notevole il modo con cui l’Autore costruisce un personaggio che porta sulle sue spalle sia secoli di storia, sia la maledizione di chi, solidamente piantato nell’humus che lo ha visto nascere, non riesce ad abbracciare veramente alcuna cornice collettiva: né quella dei suoi progenitori, né quella dei luoghi in cui si trova a vivere. Con l’esito che, in una realtà (la Storia con la Maiuscola) che è del tutto aliena da qualsiasi redenzione poetica, a Reichmann/Stern, che vorrebbe essere semplicemente, e ingenuamente, se stesso, tocca solo di sciogliersi nella narrazione universale in cui si è pervicacemente aggrovigliato. A buon diritto, in una delle prime recensioni, si sono richiamati Federico Fellini e il De Sica de Il giardino dei Finzi Contini; anche se, forse, a Reichmann si dovrebbero riconoscere pure un po’ di Pirandello e di Kadare. Giusto per sancire che la sua prosa abbraccia tutti i tormenti del Novecento.

Recensioni (di A. Litta Modigliani; B. Lolli; A. Mezzena Lona; C. Musso; S. Solinas)

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A Literary Road Trip Across America (da lithub.com)

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La storia contenuta in questo romanzo è raccontata dalla voce di Marco, un giovane aspirante studioso, che si è laureato in Lettere a Padova. Tutto comincia nella ricostruzione del rapporto tra lui e Federico, suo compagno di corso. Pur accomunati dall’intenzione di inserirsi nel mondo accademico, i due sono assai diversi. Marco è di umili origini, proviene da un piccolo paese della provincia di Treviso e ha un carattere tendenzialmente riservato. Il fatto di essere omosessuale lo pone anche al di fuori delle relazioni affettive che molti suoi colleghi possono intraprendere. Federico è padovano doc, di famiglia benestante ed è assai estroverso: in altre parole, sa vendersi bene, tra i coetanei e le ragazze come tra i professori. Le strade dei due apparentemente si distanziano quando Federico si iscrive a Bologna per la laurea magistrale. Ma poi, all’improvviso, i docenti patavini con cui collabora Marco preferiscono Federico, al quale viene assegnato il compito retribuito di curare un carteggio tra due figure minori di intellettuali scrittori operanti negli anni Sessanta. Marco, nel frattempo, pur continuando a frequentare saltuariamente l’università, comincia a fare il supplente in una scuola media. La ricerca di Federico sembra rivelarsi molto promettente, tanto da spingerlo a scavare nei rapporti tra uno di quegli scrittori, Vittorio Ferretti, il più famoso, e Maria Zanca, una misteriosa meteora della letteratura femminista, tuttora vivente e residente nel piccolo paesino montano di Lastebasse, tra la provincia di Vicenza e il Trentino. Gli ulteriori sviluppi paiono a dir poco inquietanti e inspiegabili, fino all’epilogo, falsamente normalizzante, in cui Marco ritrova, quasi per un sortilegio, la via accademica che fino a quel momento gli era parsa ormai preclusa.

Si è molto parlato, negli ultimi tempi, del (bel) libro di Dario Ferrari,La ricreazione è finita, come di un godibile e riuscito romanzo sull’università. La scrittrice nel buio – più breve e, a prima vista, più semplice e lineare – lo supera. Malvestio, infatti, allestisce una macchina narrativa su più piani, che pare condurre il lettore in una direzione (la vicenda tra Marco e Federico) e, poi, invece, lo sposta in un’altra (la vicenda su cui i due compiono le loro indagini), per tornare infine alla vera chiave del racconto (la non-relazione tra i due non-amici e la spietatezza del contesto in cui essa si disvela). Nel mentre, l’Autore crea un’ambientazione un po’ mistery e un po’ weird, che, ruotando attorno alla figura spettrale di Maria Zanca, si nutre di suggestioni ulteriori (l’eterno e spontaneo femminino vs. l’artificio e la falsità della postura maschile) e stende a sua volta sulla intera trama una tensione via via sempre più palpabile. È un crescendo, del tutto funzionale al movimento che lo scrittore intende compiere (ritornando all’università, e “invertendo la posizione” dei due personaggi principali) e che si coglie nella sua vera luce soltanto in chiusura. Perché, senza voler rivelare null’altro del libro, quello di Marco – che umile, serio e pacato rievoca le esagerazioni e le vacuità dell’ambizioso Federico – altro non è che il più classico dei patti faustiani, concluso, però, con una forza diabolica che non sta nel soprannaturale, ma nell’oggetto stesso delle aspirazioni dei due accademici in erba. È così, dunque, che lo sguardo critico dell’Autore non passa per le connotazioni pressoché stereotipiche e superficiali (eppure a tratti verosimili) con cui si delineano gli interlocutori scientifici dei due ragazzi; ma si intreccia, in maniera letterariamente efficace, con il potere bruciante dell’incantesimo che occorre accettare per poter trovare un proprio posto in un certo mondo.

PS: il romanzo merita una notazione supplementare, che riguarda il personaggio di Maria Zanca, riuscitissimo e degno di una sceneggiatura virtualmente magnetica. Non si può fare a meno di pensare, peraltro, che, oltre a riferirsi a Lovecraft per la generale atmosfera che permea la narrazione (Federico ne legge i racconti… sicché il rinvio è dichiarato), Malvestio si sia, almeno in parte, ispirato alle anguane di Umberto Matino e alle fosche e avventurose location dei romanzi cimbri che quest’ultimo ha prodotto nel corso degli anni

Recensioni (di L. Gafforini; di D. Ippolito; di N. Trevisan)

In conversazione con l’Autore

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Kojève: tra diritto e giustizia (da doppiozero.com)

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Nella Postfazione che Alessandro Zaccuri ha offerto a questo libro si legge che, in sostanza, Plevano ha dimostrato che col Medioevo non si deve inventare nulla per scrivere un ottimo romanzo storico. Perché il Medioevo è ricco di luoghi ed eventi notevoli, personaggi, costumi, pensiero, vicende piccole e importanti tra loro intrecciate: la materia, in definitiva, sgorga quasi da sola. Inoltre il Medioevo è più vicino a noi di quanto si possa credere: gli storici, infatti, sanno ormai bene che in quell’Età, a lungo immaginata come oscura, si nascondono molte e significative radici della modernità. Quello di Zaccuri è un giudizio quanto mai condivisibile. Tanto più che la scena su cui l’Autore ambienta la trama è quella, a dir poco densa e vorticosa, e dunque letterariamente fruttuosa, del Veneto della prima metà del XIII secolo, dominato dal signore della Marca Gioiosa, Ezzelino III da Romano. Vicario di Federico II in alta Italia, Ezzelino, considerato come un tiranno, ha riunito con le armi i territori di Treviso, Vicenza, Padova e Verona. Un pezzo di romanzo, quindi, è tutto dedicato alla parabola avventurosa e spietata di Ezzelino e alla fine drammatica e violenta cui è andato incontro – e che si è parimenti abbattuta su quasi tutta la sua famiglia – dopo la sconfitta subita nel 1259 a Cassano d’Adda, alle porte di Milano, per mano della lega guelfa. Sul punto Plevano si fa cronachista attento, indugiando anche su spezzoni di tecnica militare e vita di corte, e restituendo, delle figure storiche volta per volta menzionate, un ritratto particolarmente vivido e affascinante. Un po’, certo, parteggia per il rigore, la fermezza e l’audacia del terribile Ezzelino e per gli uomini fedelissimi delle sue masnade pedemontane. Ma in proposito, a ben vedere, si inserisce nell’autorevole filone storiografico che meglio ha ricontestualizzato e valorizzato l’esperienza e il progetto di quella signoria; quasi ci trovassimo dinanzi ad una vistosa anticipazione – un’occasione mancata – di un modello di governo che l’Italia conoscerà solo tra XV e XVI secolo.

Nel romanzo esiste anche un’altra dimensione, di fatto più ampia e prevalente. È quella del narratore, ruolo che viene affidato ad Amalrico della Provincia: un magister che è anche poeta, costruttore di temibili macchine da guerra, medico addottorato alla famosa scuola di Salerno, amico e consigliere di Ezzelino. Amalrico – che sintetizza in se stesso saperi, culture e aspirazioni ricchi e differenti, ed è un evidente alter ego dell’Autore – assume una duplice veste. Da un lato è il protagonista del racconto a tutti gli effetti. Ne seguiamo i ragionamenti, gli interventi militari, gli insegnamenti, i sentimenti. Ne conosciamo il legame strettissimo con la famiglia di Ezzelino e con Cunizza, il grande e segreto amore della sua vita. Ne constatiamo la vicinanza spirituale con l’imperatore Federico. Ne apprendiamo le origini provenzali e la religiosità atipica, che lo condurrà a condividere la drammatica sorte degli eretici. La sua voce e le sue riflessioni accompagnano e avvolgono il lettore dall’inizio alla fine. È così che emerge l’altra funzione del personaggio, a far da spalla all’idea riqualificante e anticipatrice che Plevano premia circa la figura di Ezzelino. Amalrico, infatti, è un proto-umanista a tutto tondo, alieno da ogni stolido fanatismo; è un campione di tolleranza, pur nella coscienza della necessità di un governo giusto e saldo; è il manifesto vivente di una saggezza mite e multiforme, che viene da lontano e ha fiducia nella conoscenza, dovunque provenga. E per ciò solo è anch’egli destinato ad essere incompreso. Allora come ora, diremmo. Come se gli appuntamenti perduti di una certa e remota epoca storica continuassero ad essere tali anche per la nostra contemporaneità. Ad ascoltarlo bene, Amalrico ricorda un po’ Zenone de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar. Solo una nota conclusiva, anche per tornare alle suggestioni sul genere del romanzo storico. Nella decisione di lasciar parlare il suo eroe e di seguirlo meticolosamente nell’universo in cui è inserito, l’operazione condotta da Plevano si può accostare a quella sperimentata da Beppi Chiuppani nel suo (monumentale) Gasparo: momenti storici e figure del tutto eterogenei, ma metodo immersivo, e a suo modo ipnotizzante, del tutto comparabile.

Recensione (di R. Ferrazzi)

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Disclosure preliminare: Acitelli è uno dei miei Autori preferiti; uno di quelli cui torno ogni tanto, per ritrovarmi. Fortuna vuole, poi, che non sia così difficile procurarsi un suo libro, perché tra volumi in prosa e opere poetiche la produzione è assai vasta. Quanto ai prodromi di di tale frequentazione, la complicità è scattata molti anni fa, con La solitudine dell’ala destra. Che non è solo una graziosa e nota raccolta di ritratti di grandi calciatori. Vi si trovano – veramente – alcuni tra i versi migliori della poesia italiana della fine del secolo scorso. Di Acitelli questa volta ho scelto Cinema Farnese, un originale romanzo in forma di taccuino, ambientato negli anni Settanta. È il diario colloquiale dell’io narrante, un giovane studente universitario di Roma, che è iscritto a Farmacia, ma ne diserta spesso e volentieri le lezioni. Il suo interesse è tutto per certi spazi del centro, tra Corso Vittorio, Piazza del Paradiso, Campo de’ Fiori, Piazza Farnese, Via Giulia. Ne osserva la fauna: da un lato, baristi, barbieri, camerieri, vecchi impiegati, a rappresentanza di un mondo di popolo in via di rapida sparizione; dall’altro, gli ambulanti, qualche barbone e, soprattutto, la generazione dei fricchettoni – veri e falsi – che si riunisce sotto la statua di Giordano Bruno e di fronte al Cinema Farnese. Dove i due universi, letteralmente, si toccano e si mescolano. Ma il ragazzo, più di tutto, ama immergersi nelle atmosfere che le pietre, i palazzi straordinari e la varia umanità di contorno gli parano di fronte. Gli piace perdersi in fantasticherie totalizzanti. E ascoltare, e spiare, i poeti del momento, che gravitano nella stessa zona: Bellezza, Paris e specialmente Veneziani. Proprio a un reading di poesia, non a caso, conosce una bella fricchettona, che lo attira in una sensuale e corrisposta relazione, e in tanti e intensi incontri in una fascinosa mansarda di Via di Monserrato.

Cinema Farnese è una pillola del miglior Acitelli. È prova ulteriore del suo peso specifico, che è quello del trovatore e antropologo di una romanità tanto personale quanto prototipica. Nella quale il Magnifico e il Sorprendente, che sono diffusi a ogni angolo della città, si compendiano con il più Semplice e Umano, anch’essi sottoposti da tempo a un processo di lenta consunzione e bisognosi, dunque, di custodia e di memoria. Ciò che è interessante, però, è che in Acitelli la descrizione delle cose e delle persone è medium per un’esperienza toccante, profonda, quasi iniziatica, che si alimenta ai ricordi delle scoperte d’infanzia, ma da esse pure si astrae, per produrre alimento attuale e universale a una sensibilità perennemente assetata. D’altra parte, anche quando si esprime nella prosa, Acitelli è intrinsecamente e assolutamente poeta, inteso a spremere il succo di ogni piccolo, grande dettaglio, perché prezioso. E l’autobiografia (che è sempre tanta) altro non è che un giacimento in cui immergersi continuativamente, l’eterno più prossimo cui accostarsi e raccordarsi. Verrebbe da svolgere un’argomentazione più complessa, il cui esito sarebbe questo: all’Autore riesce di vivere, in Roma, la provincia più autentica, consentendo, così, a quella immensa Idea (che la caput mundialtro non è) di sprigionare dal basso e dal quotidiano le correnti carsiche che la animano e che possono fungere, per ciascuno, come una sorta di speciale lampada di Aladino. Soltanto due aggiunte, per chiudere: 1) per trarre da Acitelli il massimo della soddisfazione occorre dargli fiducia, abbandonarsi alle sue pagine, ascoltarne il respiro (non è uno scrittore facile, va un po’ scalato, sapendo che dalla vetta ciò che si vede è molto bello); 2) per chi abbia un po’ di tempo, come per chi abbia modo di stare spesso a Roma, i libri di Acitelli sono guide perfette (le strade, gli edifici, le chiese, i piccoli portoni delle vie del centro… è tutto vero, tutto afferrabile; letto Acitelli, si guarda Roma con occhi diversi; anzi, la si guarda davvero, per la prima volta).

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista ad Acitelli… sulla strada del padre

Acitelli sulle tracce di Sandro Penna

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Splendori e miserie dei libri dell’estate (e di chi li legge) (da ilpost.it)

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Whatever you want, whatever you do, wherever you go, whatever you say (Hüsker Dü)

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