Nella Postfazione che Alessandro Zaccuri ha offerto a questo libro si legge che, in sostanza, Plevano ha dimostrato che col Medioevo non si deve inventare nulla per scrivere un ottimo romanzo storico. Perché il Medioevo è ricco di luoghi ed eventi notevoli, personaggi, costumi, pensiero, vicende piccole e importanti tra loro intrecciate: la materia, in definitiva, sgorga quasi da sola. Inoltre il Medioevo è più vicino a noi di quanto si possa credere: gli storici, infatti, sanno ormai bene che in quell’Età, a lungo immaginata come oscura, si nascondono molte e significative radici della modernità. Quello di Zaccuri è un giudizio quanto mai condivisibile. Tanto più che la scena su cui l’Autore ambienta la trama è quella, a dir poco densa e vorticosa, e dunque letterariamente fruttuosa, del Veneto della prima metà del XIII secolo, dominato dal signore della Marca Gioiosa, Ezzelino III da Romano. Vicario di Federico II in alta Italia, Ezzelino, considerato come un tiranno, ha riunito con le armi i territori di Treviso, Vicenza, Padova e Verona. Un pezzo di romanzo, quindi, è tutto dedicato alla parabola avventurosa e spietata di Ezzelino e alla fine drammatica e violenta cui è andato incontro – e che si è parimenti abbattuta su quasi tutta la sua famiglia – dopo la sconfitta subita nel 1259 a Cassano d’Adda, alle porte di Milano, per mano della lega guelfa. Sul punto Plevano si fa cronachista attento, indugiando anche su spezzoni di tecnica militare e vita di corte, e restituendo, delle figure storiche volta per volta menzionate, un ritratto particolarmente vivido e affascinante. Un po’, certo, parteggia per il rigore, la fermezza e l’audacia del terribile Ezzelino e per gli uomini fedelissimi delle sue masnade pedemontane. Ma in proposito, a ben vedere, si inserisce nell’autorevole filone storiografico che meglio ha ricontestualizzato e valorizzato l’esperienza e il progetto di quella signoria; quasi ci trovassimo dinanzi ad una vistosa anticipazione – un’occasione mancata – di un modello di governo che l’Italia conoscerà solo tra XV e XVI secolo.

Nel romanzo esiste anche un’altra dimensione, di fatto più ampia e prevalente. È quella del narratore, ruolo che viene affidato ad Amalrico della Provincia: un magister che è anche poeta, costruttore di temibili macchine da guerra, medico addottorato alla famosa scuola di Salerno, amico e consigliere di Ezzelino. Amalrico – che sintetizza in se stesso saperi, culture e aspirazioni ricchi e differenti, ed è un evidente alter ego dell’Autore – assume una duplice veste. Da un lato è il protagonista del racconto a tutti gli effetti. Ne seguiamo i ragionamenti, gli interventi militari, gli insegnamenti, i sentimenti. Ne conosciamo il legame strettissimo con la famiglia di Ezzelino e con Cunizza, il grande e segreto amore della sua vita. Ne constatiamo la vicinanza spirituale con l’imperatore Federico. Ne apprendiamo le origini provenzali e la religiosità atipica, che lo condurrà a condividere la drammatica sorte degli eretici. La sua voce e le sue riflessioni accompagnano e avvolgono il lettore dall’inizio alla fine. È così che emerge l’altra funzione del personaggio, a far da spalla all’idea riqualificante e anticipatrice che Plevano premia circa la figura di Ezzelino. Amalrico, infatti, è un proto-umanista a tutto tondo, alieno da ogni stolido fanatismo; è un campione di tolleranza, pur nella coscienza della necessità di un governo giusto e saldo; è il manifesto vivente di una saggezza mite e multiforme, che viene da lontano e ha fiducia nella conoscenza, dovunque provenga. E per ciò solo è anch’egli destinato ad essere incompreso. Allora come ora, diremmo. Come se gli appuntamenti perduti di una certa e remota epoca storica continuassero ad essere tali anche per la nostra contemporaneità. Ad ascoltarlo bene, Amalrico ricorda un po’ Zenone de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar. Solo una nota conclusiva, anche per tornare alle suggestioni sul genere del romanzo storico. Nella decisione di lasciar parlare il suo eroe e di seguirlo meticolosamente nell’universo in cui è inserito, l’operazione condotta da Plevano si può accostare a quella sperimentata da Beppi Chiuppani nel suo (monumentale) Gasparo: momenti storici e figure del tutto eterogenei, ma metodo immersivo, e a suo modo ipnotizzante, del tutto comparabile.

Recensione (di R. Ferrazzi)

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Yves le Breton è un influente e temuto inquisitore al seguito di re Luigi IX di Francia, partito verso l’Egitto per la settima crociata. La spedizione, avviatasi bene, conosce una drammatica battuta d’arresto a Mansura, dove una battaglia potenzialmente vittoriosa si trasforma giorno dopo giorno in un’esiziale sconfitta. Tanto da mettere a repentaglio la vita stessa del sovrano francese, preso in ostaggio con i suoi migliori cavalieri. Ad ogni modo, è nel corso delle prime fasi dello scontro che accade qualcosa di strano. Un manipolo di templari si introduce nella tenda del capo dell’esercito avversario, alla ricerca di qualcosa. Si capisce rapidamente che quella stessa cosa è anche oggetto delle attenzioni di un emiro della città assediata. Lo scaltro inquisitore capta subito la presenza di un segreto e si mette all’opera, indagando in loco e trovando alcune monete romane e un frammento di pergamena. Questo è solo il principio di un’avventura complessa e vorticosa, che dal delta del Nilo si svilupperà fino ad Acri e a Gerusalemme, tra battaglie e agguati, interrogatori e sospetti, inseguimenti e trame di palazzo. Il lettore sarà anche obbligato a fare qualche incursione indietro nel tempo, nella Roma di Nerone e delle prime persecuzioni nei confronti dei cristiani. Passo dopo passo, il racconto – che, per il tramite di un enigmatico e risoluto emissario, si arricchisce anche della incombente presenza dell’imperatore Federico II e della correlata suggestione geopolitica – svela le ragioni profonde delle inquietudini che agitano tutti i protagonisti, conducendoci, quasi in una ricerca archeologica, sulle tracce di Ponzio Pilato e della Passione di Cristo, e dunque al cuore di uno dei misteri religiosi più grandi.

Ho acquistato questo libro per tre ragioni: è selezionato nella sestina del premio Bancarella 2022; il suo Autore ha partecipato alla scrittura di un buon romanzo storico di qualche anno fa; al centro della trama è attivo un personaggio che potrebbe ricordare il domenicano Nicholas Eymerich, l’iconico eroe della brillante epopea creata da Valerio Evangelisti, recentemente scomparso. Occorre riconoscere che il contesto della – sfortunatissima – settima crociata è ricostruito in modo tanto avvincente quanto attento. Ne è da sottovalutare la bella caratterizzazione delle diverse figure che animano la scena e che qui sono evidentemente presentate ed esposte ad un primo assaggio di pubblico, in attesa di future prove (che del resto si sono materializzate: dopo questo volume è già stato edito Il tesoro del diavolo, come seconda puntata di quello che vuole essere un vero e proprio ciclo: Le cronache dell’inquisitore). Non si possono nascondere, però, alcuni punti deboli, che in parte hanno molto a che fare con un complessivo senso di deja vu. Che la trama si alimenti di una inchiesta, condotta con i ritmi della spy story, non è cosa nuova e a tratti si ha davvero l’impressione di trovarsi di fronte a un intreccio alla Dan Brown, tuttavia un po’ sbiadito. Come si può dire, d’altra parte, per il personaggio centrale dell’inquisitore, che a ben vedere impallidisce dinanzi all’efficacia, e alla disinvoltura, dello spietato ser Berto, finto mercante e acuto agente segreto della potente mano imperiale. Yves le Breton assomiglia soltanto all’Eymerich di Evangelisti, con un effetto che risulta troppo di maniera, perché certo non ripete la forza spiazzante dell’eroe di Evangelisti, eppure insiste meccanicamente su alcune posture che sollecitano un continuo confronto con l’originale, con il risultato di configurarne una sorta di svolgimento epigonico. Forse, in virtù di un processo paradossale, ma provvidenzialmente inverso, potrebbe succedere che le Breton faciliti, da parte dei molti non iniziati, la scoperta della figura di Eymerich: se fosse così, anche Nel nome di Dio avrebbe i suoi grandi, innegabili meriti.

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Per rappresentare il gesto dell’umiliazione più profonda, per ammettere i propri errori e ottenere la comprensione dell’avversario, andare – o venire – a Canossa è un’espressione diventata proverbiale. Sono in tanti, di solito, a ricordare che la sua origine è un famoso episodio di storia medievale, un momento notissimo della lotta per le investiture: l’atto di sottomissione e pentimento dell’imperatore di fronte al pontefice. Enrico IV, infatti, era rimasto esposto al freddo del rigido inverno del 1077, fuori dal castello di Canossa, in attesa del perdono di papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde. Ebbene, di quest’ultima ed enigmatica figura – di cui tuttora vi sono tracce visibili in chiese, monasteri e castelli disseminati tra l’Appennino modenese, la Garfagnana e la Lucchesia – sono in pochi a conoscere qualcosa. Con l’eccezione di Paolo Golinelli, che in Matilde e i Canossa – un testo di successo e più volte riedito – ricostruisce la genealogia, le politiche e il declino di una casata autorevole e forte, e capace di estendere la propria influenza su di un territorio assai ampio, dalla Toscana a Ferrara, da Modena, Parma e Mantova a Brescia e Verona.

Le fonti sono scarse (il riferimento, per lo più, è la Vita Mathildis del monaco Donizone, che è senz’altro “di parte”), ma l’Autore riesce a contestualizzarle, interpretandole con puntiglio e restituendoci scorci e letture affascinanti. Sul celebre avvenimento, ad esempio: per Golinelli, il vero vincitore, a Canossa, fu Enrico IV, che con la forza del suo esercito mise il pontefice sotto pressione e “strappò” un perdono che gli consentì di avviare un conflitto ancor più forte e decisivo. Ma le pagine più interessanti del saggio sono quelle che si riferiscono a fatti meno conosciuti, ai prodromi, per così dire, dell’epoca matildica: in particolare, all’origine quasi leggendaria della fortuna dei Canossa, con l’emergere nel X secolo di Adalberto Atto, allora vassallo del vescovo di Reggio, Adelardo, e ritrovatosi protettore di Adelaide regina d’Italia; poi alla graduale strategia – con Goffredo e Tedaldo – di alleanza sempre più stretta con la Chiesa e di espansione lungo il Po, con una fitta trama di operazioni immobiliari e fondazioni di nuovi monasteri (su tutti, quello di San Benedetto Po); e infine alla decisiva e ulteriore crescita, con Bonifacio, che si impone sul fratello Corrado e sposta il baricentro del dominio (ormai piccolo “Stato”) a Mantova, diventando anche signore della marca di Toscana, stringendo un’alleanza con l’imperatore Corrado II e sposando in seconde nozze Beatrice di Lorena. Da un certo punto di vista, è questo l’apice della grande stagione dei Canossa, che comincia ad entrare in crisi già con il misterioso assassinio di Bonifacio – che è il padre di Matilde – per qualcuno diventato troppo potente. 

Il saggio segue con spiccato piglio narrativo anche le vicende successive: il secondo matrimonio di Beatrice, con Goffredo il Barbuto, e la stretta alleanza con papa Leone IX; il conflitto con l’imperatore Enrico III, che rende prigioniere sia Beatrice, sia Matilde; il ritorno in Italia al seguito di papa Vittore II e l’inizio, nel corso delle successive elezioni papali, dell’escalation molto dura della contesa sulle relative prerogative imperiali. È in questo ambito che i Canossa, titolari del diritto all’accompagnamento dei pontefici, si conquistano un nuovo spazio di protagonisti, accanto ai più fieri portavoce della riforma ecclesiastica e, così, a fianco anche di Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Ed è sempre in questo contesto che Matilde emerge giovanissima, dovendo tuttavia affrontare ben presto la guerra con Enrico IV, l’erosione progressiva del dominio territoriale, la necessità di vendere gran parte dei suoi beni e di “donarli” alla Chiesa per salvarne l’integrità dinanzi ai rischi delle appropriazioni imperiali, la riconquista di feudi e città e la finale conciliazione con l’imperatore Enrico V. 

Il libro è ricco di tanti altri episodi e di passaggi curiosi: pittoresco quello sulle modalità della morte, insolita e atroce, di Goffredo il Gobbo, marito di Matilde; correttamente cauto quello sui discussi, “chiacchierati” rapporti tra quest’ultima e papa Gregorio VII; equilibrato quello sulla fatidica battaglia che Matilde avrebbe vinto vicino al Po contro l’esercito di Enrico IV. Non mancano, infine, alcune importanti digressioni: sul vero significato geopolitico della riforma ecclesiastica, ad esempio, e sull’intreccio tipicamente medievale tra sacro e profano; o sul rapporto tra il declino della grande feudalità e il risveglio delle città e delle comunità che le animano. Matilde e i Canossa, in definitiva, si può leggere in tanti modi: quasi come un romanzo, per le tante vicende di cui ripercorre i tratti salienti; come un saggio storico a tutti gli effetti, per apprezzarne il lavoro d’archivio e la capacità collegare il singolo tema con note di piccolo e grande contesto al contempo; ma anche come una specie di guida, per scoprire un Appennino ricco di tesori e tuttora parlante.

Un portale online interamente dedicato a Matilde di Canossa

Enrico IV a Canossa, secondo Alessandro Barbero

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Il primo è l’immancabile Barbero. Se lo sono chiesto in tanti, forse: poteva davvero questo apprezzato e popolare studioso e divulgatore perdere l’occasione, a 700 anni dalla morte, di raccontarci a suo modo il Sommo Poeta? No, forse non poteva. Anche se bisogna aggiungere che sicuramente doveva. Perché si tratta di un buon libro. Soprattutto, non è la ricostruzione di un filologo o di un dantista, che spesso seguono strade fin troppo interne alle loro discipline. Dante è il frutto di un’indagine puramente storica: a tratti pignola come dev’essere, eppure mai noiosa (il corposo apparato di note è coerentemente collocato alla fine del libro). A Barbero – ed è facile supporre che ciò attragga anche gran parte dei lettori comuni – interessa la figura concreta dell’Alighieri, immerso nel suo tempo. Vuole capire se è vero o meno che alla battaglia di Campaldino Dante era tra i feditori, i cavalieri della prima linea. Si chiede quali fossero le origini, e gli affari, della sua famiglia, parzialmente ricostruiti attraverso l’analisi e il confronto di molti atti notarili dell’epoca. Racconta qualcosa sulle famose amicizie, sulla misteriosa Beatrice e sul matrimonio con Gemma. Indaga sugli antenati di Dante, per comprendere chi erano e se c’era qualcuno di nobile, e sulla formazione del futuro poeta. Si immerge a capofitto nella Firenze del “governo del popolo” e nel vorticoso intreccio delle aspre e irriducibili conflittualità tra le famiglie dei magnati e dei popolani o tra i Bianchi e i Neri. Qui sta la parte più interessante del volume, ed è quella centrale: offre uno spaccato preciso delle violente lotte politiche fiorentine, delle loro contraddizioni e dell’articolazione corporativa della società comunale e delle sue istituzioni, fornendo molte informazioni sul ruolo attivo di Dante e sugli eventi che ne hanno determinato la confisca delle proprietà, la condanna a morte e l’esilio. Di questo, poi, ma con un ritmo che è lievemente in discesa rispetto a quello precedente, Barbero cerca di individuare il complesso e sofferto itinerario, al servizio (e sotto la protezione) di diversi signori, quindi a Verona e al seguito (forse) di Enrico VII, e infine a Ravenna. In definitiva, questo volume completa e corregge, sul piano di una rigorosa e dettagliata ricerca storica, le ancora godibili e credibili lezioni di Mario Tobino e Cesare Marchi: la prima più raffinata e romanzesca; la seconda più esplicativa e popolare. Abbiamo un buon trittico, finalmente, e il risultato non è trascurabile.

Un altro buon libro – che però si pone, quanto a genere, agli antipodi del Dante di Barbero – è quello di Giuseppe Conte. L’Autore non è l’ex Presidente del Consiglio, ma il poeta, traduttore e romanziere apprezzato anche all’estero. Il primo approccio potrebbe respingere: Dante… in love? (Non è che si vuole fare con Dante Alighieri ciò che si è fatto con Leonardo da Vinci…?) E invece, a lettura terminata, nulla quaestio. Con una scrittura precisa e pulita Conte costruisce una favola, che è contemporanea e dantesca. Si immagina che Dante, al termine dei suoi giorni, giunto in Paradiso veramente, sia “condannato” da Dio a uno strano rito, che ha tutto il sapore di uno studiato e malizioso contrappasso. Ogni anno dovrà tornare una notte sulla terra, nella sua Firenze, in forma di impalpabile e invisibile ombra; e ciò finché non avrà incontrato una donna che corrisponda al suo amore. Schiavo dell’Amore, Dante, lo è sempre stato, anche di quello più passionale. La missione gli pare impossibile, quando, al settecentesimo atto dell’appuntamento annuale che gli è toccato in sorte, mentre si trova davanti al Battistero di San Giovanni, si accorge di Grace, una giovane studentessa americana. È un colpo di fulmine. La segue fino a casa, capisce che sta studiando proprio la Commedia e la osserva leggere i famosi versi su Paolo e Francesca, finché ha la sensazione che il miracolo sia accaduto. Nel frattempo Dante è spettatore di tutto ciò che accade attorno a lui, pure della pandemia, e di come e quanto il mondo sia cambiato. E ha anche l’occasione di conoscere un singolare senzatetto. A leggere con attenzione, Conte racconta una storia estremamente semplice, pur utilizzando temi, lessico e luoghi tipici del grande poeta fiorentino, ed arrivando a rievocarne tratti della vita e delle avventure, mescolandoli ad una attualizzazione leggera e per niente eccentrica. Non risulta fuori campo neanche la seconda parte del libro, nella quale l’Autore propone per estratti alcuni dei più noti versi danteschi. Rivelando le fonti della sua ispirazione, e commentandole brevemente, Conte riesce, senza pedanteria alcuna, ma con la complicità che ha suscitato per mezzo della favola, a compiere l’operazione più meritevole: invitarci a rileggere Dante, direttamente, per capirlo come se fosse uno di noi.

Recensioni su Dante (di F. Cardini; di C. Giunta; di G. Talarico)

Recensioni su Dante in love (di M. Magliani; di L. Mascheroni; di F. Pierangeli)

Alessandro Barbero racconta Dante

Intervista a Giuseppe Conte

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Dopo una serie di dieci fortunatissimi romanzi, seguiti da un periodo di silenzio, a sua volta intervallato dalla composizione di altri due cicli narrativi (uno sulla mafia italoamericana e uno sulle origini del socialismo italiano), Valerio Evangelisti rimette le vesti del suo più noto e apprezzato eroe: Nicolas Eymerich da Gerona, padre domenicano e spietato e sottilissimo inquisitore; un personaggio realmente esistito e operante nella seconda metà del Trecento, autore di quel monumentale Directorium inquisitorum, manuale teorico-pratico per i procedimenti contro gli eretici, che si pone anche alle origini del diritto del processo inquisitorio canonico. Le ultime due puntate della saga – che aveva debuttato nel 1994 ed è collocata in pieno Medioevo, pur essendo raccontata con intermezzi distopici e fantascientifici, che spesso interagiscono in modo essenziale con la trama della storia principale – sono Eymerich risorge (2017) e Il fantasma di Eymerich (2018). Questo secondo titolo ufficializza a tutti gli effetti l’avvio di un nuovo ciclo.

Nel primo romanzo (ambientato nel 1374) Eymerich è alle prese con un movimento eretico apparentemente indecifrabile, su espresso mandato di Papa Gregorio XI. Succedono cose strane tra la Provenza e il Piemonte: incendi improvvisi e apparizioni misteriose, di luci ma anche di uomini; su tutti, di Francesc Roma, francescano di rango e potente e astuto consigliere di Pietro d’Aragona, antico avversario di Eymerich. Non c’è nulla di meglio, dunque, per stimolare la determinazione del dotto e terribile inquisitore, che con l’aiuto dei suoi più fidati compagni – padre Jacinto Corona, il notaio De Berjavel e mastro Gombau – si lancia alla caccia di un culto enigmatico. Sembra che il mistero si celi tra le montagne, e che sia difeso dalle comunità valdesi. Ma si tratta di qualcosa di molto più profondo e temibile, tanto che Eymerich, oltre a doversi confrontare con campioni della più varia umanità, affronta pure la morte, ritrovandosi improvvisamente, e inspiegabilmente, risorto. Anche in questo caso la verità è nascosta nelle pieghe di un lontano futuro, in cui le ricerche sorprendenti del dottor Marcus Frullifer spiegano quali siano le oscure forze che nell’universo agiscono, e che si manifestano anche attraverso l’operato ultratemporale di un lontanissimo e potentissimo magister, assiso sulla Luna.

Nel secondo romanzo (che colloca la storia tra il 1377 e il 1378) l’inquisitore, liberatosi dalla prigionia cui lo aveva costretto un suo acerrimo nemico, fugge dalla penisola iberica per dirigersi via mare a Roma, dove conferisce con il pontefice. Gregorio XI, infatti, ha spostato la sede del Papato da Avignone all’antica ma degradata capitale dell’Impero. Sta morendo e confida a Eymerich che il sottosuolo della città eterna nasconde luoghi e riti pagani e minacciosi. L’indomito domenicano prende la palla al balzo e, districandosi tra volgari caporioni, prelati-guerrieri e sante in estasi, comincia ad indagare. Nel frattempo, attorno a lui, succede di tutto: viene eletto un nuovo Papa, Urbano VI, gradito al volgo romano, ma la sua lotta contro la simonia si fa quasi eccessiva, tanto da coalizzare per l’elezione di un nuovo pontefice la maggioranza dello stesso clero che lo aveva scelto. Si va incontro, così, all’intronizzazione di Clemente VII e al grande e grave scisma d’Occidente, mentre Eymerich non guarda in faccia a nessuno e sfida e sconfigge la setta che vuole reintrodurre il culto di Mitra. In questa lotta non è solo, non tanto perché a seguirlo c’è sempre padre Corona, ma anche perché c’è il suo alter ego, il magister venuto dal futuro, a metterlo sulla strada giusta. Anche questa volta gli oscuri segreti di queste comunicazioni intertemporali si intrecciano con le eccentriche avventure del dottor Frullifer.

Che cosa c’è, di imperdibile, nell’epopea Eymerich? Intanto c’è Eymerich stesso, uomo machiavellico ante litteram: implacabile contro chi ritenga colpevole di eresia e crudele, all’occorrenza, ma sempre aggrappato alla logica come arma invincibile, e capace di una graffiante ironia. È il paradigma di ciò che si definisce un personaggio a tutto tondo: icona di un Medioevo medievalissimo, truce e a tinte forti e nette; massimo esempio della razionalità del suo tempo e di ciò che di quel patrimonio culturale è transitato fino a noi. Chi non vorrebbe essere saldo e forte come Eymerich? Un altro tratto speciale dei cicli creati da Evangelisti è la sintesi più che riuscita tra romanzo storico, thriller e fantascienza: una ricetta nella quale l’ultimo, e apparentemente eccentrico, ingrediente è dosato quanto basta. Non è funzionale, infatti, alla creazione di una sovrapposizione di generi; non è, cioè, un espediente narrativo. È il medium di una visione totalizzante della letteratura, nel senso dell’idea di universo che si vuole raccontare, ma specialmente nel senso della dimostrazione che è possibile, con la letteratura, e vale a dire a partire dalla sua dimensione, cambiare la realtà storica. Innanzitutto quella presente.

Un’intervista all’Autore

Un’analisi linguistico-stilistica su Eymerich

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Tra il 1076 e il 1077, nel momento più nevoso e freddo dell’inverno, Sant’Anselmo da Alberone viene chiamato a Canossa dalla contessa Matilde. È lei stessa ad andarlo a cercare sulla Pietra di Bismantova, dove l’eremita sta combattendo col Diavolo. Nel bel mezzo della lotta per le investiture, Matilde deve affidare ad Anselmo una missione per conto di Papa Gregorio VII, che proprio a Canossa sta aspettando l’arrivo dell’imperatore Enrico IV: si tratta di andare fino ad Aquileia, per convincere l’autorevole patriarca a prendere posizione a favore del Pontefice. Anselmo accetta e intraprende un lungo viaggio, che dall’Appennino reggiano lo spinge fino alle rive del Po, dove decide, assieme al misterioso mendicante Galaverna, di aggregarsi alla spedizione di Vitige, giovane re di Brescello. La carestia, infatti, obbliga il sovrano ad imbarcarsi e a solcare le pericolose e gelate acque della Padusia, alla ricerca di una misteriosa zucca gigante, capace di nutrire tutto il suo popolo. Comincia in questo modo un’avventura mirabolante, piena di incontri fantastici, di peripezie altrettanto straordinarie e di personaggi memorabili. Non sarà facile, dunque, il viaggio di Anselmo, che dovrà lottare con gli Uomini, con la Natura e con il Diavolo, e che, tuttavia, complice l’affetto per un bambino selvaggio, scoprirà il famoso tesoro del Bigatto e arriverà a destinazione.

Pederiali è veramente un autore da riscoprire, per tante ragioni. Sicuramente, innanzitutto, perché si dimostra maestro di un genere molto originale – un po’ storico, un po’ fantasy, un po’ tragicomico – che, come si suol dire, può piacere in egual misura “ai grandi e ai piccini”, e che ci restituisce l’immagine brancaleonesca di un Medioevo tanto fiero e avventuroso quanto oscuro, affamato e sgangherato. Non stupisce che proprio questo libro, edito per la prima volta nel 1980 da Rusconi, tradotto in più lingue e ora, nel 2017, meritoriamente riproposto da Kappalab, abbia avuto un grande successo, anche come lettura scolastica. C’è da dire, poi, e qui sta il secondo pregio, che la scrittura di Pederiali è chiara e pulita, ed efficace; e ciò senza perdere di una sua intrinseca e sottostante complessità, che costituisce, forse, il vero segreto di questo grande artigiano. La sua penna, infatti, sembra il terminale di una tradizione intera, quella padana, che ribolle in ogni pagina, come un buon lambrusco, e che nell’apparenza di parole ed espressioni precise e nitide colora la storia di immagini particolarmente evocative: di santi, di cavalieri, di signori nobili e crudeli, di castelli, di mostri, di maghi, di boschi misteriosi e di paludi assassine. È la sapienza dei luoghi e dei saperi popolari del Grande Fiume: un misto di cronaca antica e di racconto d’osteria, che non prova timore nell’esagerazione, perché la verità si può dire anche così, e che in Pederiali trova un onestissimo e fedele cantore.

Enrico IV a Canossa (da raistoria.rai.it)

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Nell’Italia longobarda del VI secolo le vite di Gisulfo e Placidia sono molto diverse: nobile guerriero di stirpe germanica, l’uno; rampolla aristocratica di origini bizantine, l’altra. I loro destini mai potrebbero incontrarsi, se non nel corso di qualche barbaro saccheggio. Ma per caso si vedono, si innamorano all’istante – il linguaggio degli occhi… – e, nonostante la ritrosia delle loro genti, si sposano. I due hanno punti di vista ostinatamente distanti, e le cose non cambiano neppure quando Gisulfo decide di diventare cristiano. La fede e la cultura di Placidia gli paiono forme di incomprensibile mollezza, armature troppo deboli per un età troppo violenta. Tornare ai costumi del suo popolo, allora, gli sembra la soluzione migliore, da perseguire quasi con polemica e offensiva ferocia. Poi, all’improvviso, Placidia si ammala gravemente e muore, e le certezze del duca longobardo crollano ancora, disperatamente. La crisi, però, non viene invano: per Gisulfo è tempo di scoprire un più autentico, e profondo, punto di incontro e di comunione, con se stesso e con la sua amata e scomparsa consorte.

Il Cipolla autore di questo breve – e delicato – racconto è il Cipolla famoso, il noto e compianto storico dell’economia, la cui penna ha partorito veri e propri gioielli, da Allegro ma non troppo a Vele e cannoni. Il maestro del dettaglio intelligente – non trovo espressione migliore per definire il Cipolla – si rivela tale anche quando assume in modo più scoperto le vesti del semplice narratore. Raccontare storie gli è stato sempre congeniale; tanto più se sono l’occasione di rivelare e illustrare i colori e le forme dello sfondo che le ospita e che le determina. Il linguaggio degli occhi non fa eccezione. Ha la cadenza di una classica storia d’amore, con tutti i suoi luoghi più comuni, ricostruiti con minuzia. Al contempo è un pretesto per un tuffo, senz’altro divertito ma non banale, nella pianura padana delle invasioni barbariche, di scontri di civiltà ormai dimenticati e di una cristianità che, passo dopo passo, si sta trasformando e inculturando. Che ci volessero Gisulfo e Placidia per spiegare così bene la tensione totalizzante del cristianesimo medievale può sorprendere. Ma la bravura di Cipolla è tutta qui. E non mi resta che ringraziare chi mi ha prestato questo piccolo, quasi introvabile, gioiello.

Da visitare: una bella mostra sui Longobardi

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La finzione è uno degli strumenti più importanti e interessanti per il mestiere del giurista: si presuppone come esistente (o come non esistente) qualcosa che non esiste (o che esiste), per far discendere in un certo caso determinati effetti, quelli che il diritto, in un determinato modo, già riconosce in altri casi. La culla della fictio è il diritto romano, nel quale essa nasce, in primo luogo, come fictio legis, a partire da quella introdotta con la legge Cornelia dell’81 a.C., che, per riconoscere effetti al testamento del civis romanus morto in prigionia (e la cui cattività, secondo le regole generali, lo aveva privato della capacità), consentiva di considerare il prigionierio come già morto nel momento in cui era caduto nelle mani dei nemici. La fictio in seguito si ripropone in molte ipotesi, sempre per l’intervento del legislatore. Ma si trasforma anche in fictio iuris, diventa, cioè, tecnica dell’interpretazione giuridica, come sarebbe accaduto – almeno per l’Autore – in occasione della formulazione del noto insegnamento per cui conceptus pro iam nato habetur. In questo breve saggio, Thomas rievoca tanti esempi di finzione così come maturati nell’esperienza giuridica romana, cercando di evidenziarne la logica e mettendo in luce – questa la sua tesi – la diversità con cui i giuristi medievali hanno trattato l’utilizzo di questo particolare meccanismo: mentre il diritto romano, infatti, non avrebbe patito, nel ricorso alla fictio, il limite della presupposizione di una verità superiore, il diritto comune avrebbe introdotto, mercé l’influenza del cristianesimo, alcune distinzioni, volte se del caso a sbarrare la strada ad un certo tipo di finzioni (e precisamente a quelle finalizzate a “varcare” la frontiera fra corporeo e incorporeo ovvero a bypassare le regole “naturali” sulla riproduzione dei corpi).

Il ragionamento di Thomas può dirsi condivisibile, e rilevante, quanto a quattro specifici profili: la ricostruzione dell’originalità delle dinamiche messe in gioco dall’operazione finzionale; la confutazione dell’idea diffusa che questa operazione sia indissolubilmente, e prevalentemente, legata al carattere conservatore di un ordinamento giuridico (che in tal modo, tramite le finzioni, evolverebbe senza mai porre in discussione la sua struttura); la rappresentazione dell’autonomia del giuridico quale risultato di un processo istituzionale coscientemente fondato sull’opposizione rispetto al reale; la bella descrizione dell’approccio romano allo spazio del sacro, come frutto, esso stesso, della produzione giuridica e, quindi, come limite insuscettibile di costituire una preclusione immutabile e ontologica alla trasformazione delle regole. Ciò che lascia un po’ dubbiosi, invece, è la parte del lavoro dedicata ai “limiti medievali” della finzione, e ciò per due ragioni: la prima è che lo stesso Thomas, in conclusione, relativizza in buona parte la portata del dispositivo limitante di origine divina (così come frequentemente invocato dai giuristi di diritto comune), sottolineando quanto nel diritto dell’età intermedia esso, lungi dall’eliminare il metodo finzionale, ne avrebbe razionalizzato il ricorso soltanto in parte; la seconda è che, quanto meno al giurista poco esperto di diritto romano e di diritto comune, lo studio della fictio pare non potersi troncare alle soglie della modernità, se non altro perché questa si è costruita e si è imposta anche per mezzo di una ulteriore e potente strategia finzionale, quella del famoso (e trasversale) etiamsi daremus Deum non esse di Ugo Grozio. E senza le scoperte della razionalità medievale questa ulteriore progressione sarebbe stata difficilmente pensabile. Viene quasi da chiedersi, al riguardo, se la fictio, da delicato artificio proprio del fenomeno giuridico, non si possa configurare quale uno dei massimi esempi di quanto i modi di costituzione dell’autonomia del giuridico stesso si siano resi, nella storia, effettivi veicoli di mutamenti epistemologici particolarmente profondi. È nella prospettiva di questo interrogativo che una simile lettura si dimostra molto proficua.

Il saggio dei curatori del volume (M. Spanò e M. Vallerani)

Lo studio di Thomas in lingua originale (francese)

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La storia prende avvio a Venezia, nel 1565. Giovanni è anziano, ma quando viene a sapere che al cimitero di San Zaccaria stanno riesumando i cadaveri corre subito sul posto, per continuare a celare il segreto che Gregorio Eparco, il suo vecchio precettore bizantino, gli aveva consegnato. Si tratta di un libro, che era stato nascosto proprio sotto la testa del defunto maestro e che nessuno avrebbe mai dovuto leggere. Ora la curiosità di Giovanni è tanta, e così la lettura ha inizio. È una sorta di diario, tenuto dallo stesso Eparco nei mesi e nei giorni che hanno preceduto la caduta di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dell’esercito turco guidato da Maometto II. Gregorio racconta moltissime cose: di quanto fosse grande la Città; dei mercanti genovesi e veneziani che vi risiedevano; della sua amicizia con Malachia Bassan, un arguto ebreo veneziano, socio in affari; delle strategie che l’ultimo imperatore, Costantino XI Paleologo, ha cercato di mettere inutilmente in atto per evitare ciò che a tutti sembrava ormai inevitabile; della potenza, della determinazione e della crudeltà degli assedianti; dei tanti coraggiosi, greci e non, che hanno cercato di opporvisi; della sensazione imminente e tragica di un crollo generale, delle difese della Città come di un’intera civiltà. Soprattutto, però, Gregorio racconta della missione di cui si sente improvvisamente investito: salvare dal prossimo saccheggio le dieci più sacre reliquie della cristianità, da sempre custodite a Costantinopoli e celate agli appetiti di qualsiasi invasore. Con l’aiuto e la freddezza di Malachia la ricerca comincia, tra antiche pergamene, spedizioni notturne e timori sempre crescenti. L’esito di tanti sforzi è ciò che il lettore insegue fino alla fine, nelle ultime righe, quando, sorprendentemente, dopo quasi seicento pagine di racconto, si sente ancora la voglia di continuare a leggere e di saperne di più.

Con questo romanzone – che vuole espressamente porsi quale prologo di nuove avventure – Paolo Malaguti ha compiuto il processo che si intuiva sin dal suo debutto e che era emerso in modo molto chiaro specialmente nell’opera seconda: lo scrittore cercava una dimensione, un respiro e una tecnica adeguati alla propria ispirazione, e adesso, con tutta probabilità, le ha (felicemente) trovate. Qualcuno direbbe che La reliquia di Costantinopoli è un grande affresco storico. In parte lo è, sicuramente, per lo sforzo ricostruttivo, per la cura dei particolari, per l’attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, alla cui umanità minuta l’Autore si dimostra particolarmente attento. Altri, al contempo, potrebbero sentire la tentazione – e sarebbe la cosa più semplice da fare – di collocare Malaguti tra Ben Kane e (perché no) Umberto Eco: come a dire “tra le gesta degli antichi e i segreti dei Templari”. E qualcosa di vero c’è anche in questa valutazione. A ben vedere, tuttavia, il quadro non sarebbe del tutto corrispondente alla realtà. Lo spazio di Malaguti, innanzitutto, non è l’affresco, è l’arazzo; e non si tratta di un arazzo come ce lo immaginiamo comunemente. Forse la sua trama, la sua estensione e i suoi disegni si avvicinano a quelli della famosa tessitura di Bayeux, che non ha solo lo scopo di stupirci, ma vuole darci il senso di un’epopea gloriosa che trascorre, che si è consegnata a testimoni che spesso non ne sono del tutto coscienti e che promette di arrivare intatta fino ai giorni nostri. Ciò che vi si racconta, quindi, non è soltanto cosa da thriller medievale. Certo, c’è il divertimento; e c’è anche il gusto per l’intrattenimento di un pubblico che è pronto ad apprezzare tutte le astuzie narrative di genere (dal collaudatissimo escamotage del “manoscritto ritrovato” al cliché del tesoro scomparso). Come per Gregorio Eparco, però, anche per Malaguti il mandato è altro, e del tutto peculiare, oltre che attuale: salvare la tradizione, farcene apprezzare le movenze profonde, farla rivivere – “nella confusa caducità dei tempi presenti” (p. 194) – attraverso le complesse interazioni socio-culturali di cui essa si è sempre nutrita e da cui possiamo ancora abbeverarci, perché i suoi segni ci sono incredibilmente vicini. Se a questo fine serve essere lunghi, minuziosi, quasi lenti nel procedere, allora ben venga anche la mole di libri come questo: alle pietre angolari di un solido progetto narrativo può convenire una certa stazza; e in questa confidiamo anche per la tenuta dell’edificazione futura.

Una recensione (di Nicolò Menniti-Ippolito)

La presentazione del libro (alla libreria “Palazzo Roberti” di Bassano del Grappa)

Una “pillola” sulla caduta di Costantinopoli

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Questo romanzo racconta la vita di un uomo santo, in un genere che mescola con grazia, fantasia e memoria storica, la leggenda popolare, il profilo agiografico, la cronaca medievale, la favola antica e l’apologo edificante. Vodolazkin sembra volersi congiungere alla tradizione formativa dei Racconti di un pellegrino russo, per additare ai suoi contemporanei quale può essere la strada per ritrovare la grande anima di un popolo sempre tormentato e per trarne una rinnovata fonte di ispirazione. Ma questo scrittore, così colto e particolare, non si rivolge soltanto ai compatrioti. La sua prosa simbolica e pedagogica suscita sicura ammirazione anche da parte di chiunque desideri cogliere i segreti e le risorse delle più grandi esperienze spirituali, che sono tali se sorgono sulle gambe di un’umanità vissuta senza risparmio, con autentica pienezza.      

Lauro è il compiersi di un processo evolutivo. Lo vediamo bambino, in un piccolissimo villaggio della Russia settentrionale del XV secolo, quando ancora si chiama Arsenio ed è rimasto orfano a causa di una terribile pestilenza. Viene allevato dal saggio nonno Cristoforo e impara i detti dei grandi uomini del passato e le virtù curative delle erbe. Conosce anche la giovanissima Ustina, e se ne innamora, ma una terribile tragedia gliela strappa. Comincia da lì un viaggio di solitudine e penitenza, di sperimentazione di un amore assoluto. La sua sorprendente ed istintiva abilità di guaritore lo accompagna, prima a Belozersk e poi a Pskov, e Arsenio nel frattempo diventa Ustino, in ricordo della sua unica amata, abbracciando così il destino di tanti altri folli in Cristo (gli jurodivye). Dopo un apostolato estremo e miracoloso, conosce un giovane italiano, giunto in Oriente alla ricerca della fine del mondo animato da una fede sincera e da stupefacenti doti di veggente. I due partono in carovana per Gerusalemme, attraversano terre sconosciute e dalla Polonia scendono fino a Venezia, per imbarcarsi con altri pellegrini e approdare a Giaffa. La sventura, tuttavia, sembra abbattersi ancora su Arsenio, che dopo molto tempo, però, torna quasi a casa, al monastero di San Cirillo, dove assume il nome di Ambrogio, l’amico italiano che l’ha dolorosamente abbandonato. È sempre, e ancora, il Medico, visitato da poveri e ricchi, e impegnato nei ritmi più sacri della religiosità ortodossa. La fede lo accoglie in tutto e per tutto, diventa Lauro e la natura lo abbraccia, per una finale manifestazione liberatoria che, dopo un’ultima prova, lo rivela e lo consacra nell’accettazione estrema della sua vita e dell’amore che lo ha sempre animato.             

Il protagonista di questo libro colpisce al cuore, per la capacità di compassione e per il desiderio di redenzione che lo avvolgono, ma anche per l’incrollabile determinazione con cui decide ogni volta di darsi completamente alla natura e alla vita, e di far tesoro di qualsiasi avvenimento. Il mistero di questa forza, forse, sta nelle parole dell’Angelo Custode, cui Arsenio si rivolge curioso in un momento di disperazione: “Gli Angeli non si stancano, rispose quello, perché non risparmiano le loro forze. Se dimentichi che le tue forze sono limitate, anche tu non ti stancherai. Sappi, Arsenio, che può camminare sulle acque soltanto colui che non teme di annegare”. È una lezione di coraggio, quindi, di fiducia e tenacia, e si aggiunge ad un altro grande insegnamento, che matura allo stesso modo durante le lunghe peregrinazioni per la Terrasanta: lo spostamento nello spazio arricchisce l’esperienza e comprime il tempo. Sicché, come accade in taluni passaggi di questa storia quasi fantastica, si può arrivare a credere veramente di poter coltivare la sapienza, prevedere il futuro e condividere, con ciò, le culture di uomini tanto diversi. Se proprio lo vogliamo e lo crediamo, possiamo assaggiare l’eternità e i suoi paradossi già in questa nostra avventura terrena.

Un intervento dell’Autore: come imparare a parlare con i santi

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