Nella Postfazione che Alessandro Zaccuri ha offerto a questo libro si legge che, in sostanza, Plevano ha dimostrato che col Medioevo non si deve inventare nulla per scrivere un ottimo romanzo storico. Perché il Medioevo è ricco di luoghi ed eventi notevoli, personaggi, costumi, pensiero, vicende piccole e importanti tra loro intrecciate: la materia, in definitiva, sgorga quasi da sola. Inoltre il Medioevo è più vicino a noi di quanto si possa credere: gli storici, infatti, sanno ormai bene che in quell’Età, a lungo immaginata come oscura, si nascondono molte e significative radici della modernità. Quello di Zaccuri è un giudizio quanto mai condivisibile. Tanto più che la scena su cui l’Autore ambienta la trama è quella, a dir poco densa e vorticosa, e dunque letterariamente fruttuosa, del Veneto della prima metà del XIII secolo, dominato dal signore della Marca Gioiosa, Ezzelino III da Romano. Vicario di Federico II in alta Italia, Ezzelino, considerato come un tiranno, ha riunito con le armi i territori di Treviso, Vicenza, Padova e Verona. Un pezzo di romanzo, quindi, è tutto dedicato alla parabola avventurosa e spietata di Ezzelino e alla fine drammatica e violenta cui è andato incontro – e che si è parimenti abbattuta su quasi tutta la sua famiglia – dopo la sconfitta subita nel 1259 a Cassano d’Adda, alle porte di Milano, per mano della lega guelfa. Sul punto Plevano si fa cronachista attento, indugiando anche su spezzoni di tecnica militare e vita di corte, e restituendo, delle figure storiche volta per volta menzionate, un ritratto particolarmente vivido e affascinante. Un po’, certo, parteggia per il rigore, la fermezza e l’audacia del terribile Ezzelino e per gli uomini fedelissimi delle sue masnade pedemontane. Ma in proposito, a ben vedere, si inserisce nell’autorevole filone storiografico che meglio ha ricontestualizzato e valorizzato l’esperienza e il progetto di quella signoria; quasi ci trovassimo dinanzi ad una vistosa anticipazione – un’occasione mancata – di un modello di governo che l’Italia conoscerà solo tra XV e XVI secolo.
Nel romanzo esiste anche un’altra dimensione, di fatto più ampia e prevalente. È quella del narratore, ruolo che viene affidato ad Amalrico della Provincia: un magister che è anche poeta, costruttore di temibili macchine da guerra, medico addottorato alla famosa scuola di Salerno, amico e consigliere di Ezzelino. Amalrico – che sintetizza in se stesso saperi, culture e aspirazioni ricchi e differenti, ed è un evidente alter ego dell’Autore – assume una duplice veste. Da un lato è il protagonista del racconto a tutti gli effetti. Ne seguiamo i ragionamenti, gli interventi militari, gli insegnamenti, i sentimenti. Ne conosciamo il legame strettissimo con la famiglia di Ezzelino e con Cunizza, il grande e segreto amore della sua vita. Ne constatiamo la vicinanza spirituale con l’imperatore Federico. Ne apprendiamo le origini provenzali e la religiosità atipica, che lo condurrà a condividere la drammatica sorte degli eretici. La sua voce e le sue riflessioni accompagnano e avvolgono il lettore dall’inizio alla fine. È così che emerge l’altra funzione del personaggio, a far da spalla all’idea riqualificante e anticipatrice che Plevano premia circa la figura di Ezzelino. Amalrico, infatti, è un proto-umanista a tutto tondo, alieno da ogni stolido fanatismo; è un campione di tolleranza, pur nella coscienza della necessità di un governo giusto e saldo; è il manifesto vivente di una saggezza mite e multiforme, che viene da lontano e ha fiducia nella conoscenza, dovunque provenga. E per ciò solo è anch’egli destinato ad essere incompreso. Allora come ora, diremmo. Come se gli appuntamenti perduti di una certa e remota epoca storica continuassero ad essere tali anche per la nostra contemporaneità. Ad ascoltarlo bene, Amalrico ricorda un po’ Zenone de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar. Solo una nota conclusiva, anche per tornare alle suggestioni sul genere del romanzo storico. Nella decisione di lasciar parlare il suo eroe e di seguirlo meticolosamente nell’universo in cui è inserito, l’operazione condotta da Plevano si può accostare a quella sperimentata da Beppi Chiuppani nel suo (monumentale) Gasparo: momenti storici e figure del tutto eterogenei, ma metodo immersivo, e a suo modo ipnotizzante, del tutto comparabile.
Recensione (di R. Ferrazzi)