È un film del 1954, con un Sordi davvero molto bravo. Si tratta, in particolare, dell’ultimo pezzo, il più bello, di una trilogia, i cui primi due titoli sono Anni difficili (1948) e Anni facili (1953). Luigi Zampa l’ha girata prendendo spunto da racconti di Vitaliano Brancati, che ha partecipato largamente anche alla stesura della sceneggiatura. Ci sarà un sequel nel 1962, per un’ultima “puntata”, meno riuscita: Anni ruggenti. In quest’ultimo caso il soggetto verrà da un racconto di Gogol’.
Non sono i riferimenti letterari, però, gli unici motivi che possono indurci a rivedere L’arte di arrangiarsi. Le ragioni di interesse sono altre.
Innanzitutto Sordi. Certamente, infatti, l’“Albertone nazionale” – che, all’interno della serie, compare solo in questa occasione – offre una performance davvero degna di tutti i suoi successi, anche di quelli futuri: in qualche modo, infatti, il protagonista adotta gesti, movenze ed espressioni che si ritroveranno in tanti film con (o di) Sordi (specialmente in quelli girati sempre da Zampa, su tutti ne Il vigile, del 1960, e ne Il medico della mutua, del 1968). Da questo punto di vista, è una commedia davvero riuscita, proprio perché “cannibalizzata” da un attore in splendida forma. Ma in questo caso scopriamo anche che la commedia non è necessariamente un genere “leggero” e che Zampa si conferma come un Maestro di questo singolare approccio impegnato.
Infatti, l’importanza de L’arte di arrangiarsi risiede soprattutto nella rappresentazione / denuncia di una certa immagine – icasticamente sintetizzata anche nel titolo – del trasformismo italico, causa quasi genetica di una sconfortante e “resistente” continuità tra tutte le fasi storiche del Paese.
Rosario “Sasà” Scimone (questo è il nome del personaggio principale) ne è l’orgoglioso e consapevole prototipo, capace di passare da uno schieramento politico all’altro, di tradire i suoi sodali e i suoi stessi parenti e amici, di agevolare sistematici e profondi conflitti di interesse, di sposarsi solo per convenienza economica, di farsi riformare, con frode, sia in occasione del primo conflitto mondiale sia prima del secondo, di diventare socialista, e poi fascista, per puro opportunismo, di riscoprirsi quindi comunista, per accreditarsi nell’Italia repubblicana, di tentare la via dello spettacolo e del successo, solo per corteggiare un’aspirante attrice e per trarne qualche vantaggio personale…
Il CV di Scimone, in sostanza, è una vera rassegna di vizi atavici e di propensioni radicate in buona parte della classe media, ed è anche la traccia simbolica del tentativo, destinato peraltro a fallire costantemente, di fiutare e di assecondare l’affare, lecito o illecito, più redditizio, assunto a sua volta, e paradossalmente, a mito, ad ideale tanto irraggiungibile quanto disponibile ad altri pochi eletti. Non è un caso che il “povero” Scimone finisca anche in galera, si riproponga come fondatore di un partito e, alla fine, si ritrovi a fare il venditore ambulante.
C’è da chiedersi, poi, nell’Italia del 2011, se, nel disegnare il cursus honorum di Scimone, punteggiato da appalti truccati, mazzette e speculazioni edilizie, vi fosse dell’intelligente preveggenza, oppure se esso non risultasse, già allora, l’indigesta descrizione satirica dello “stato della nazione”. Una risposta, forse, la può offrire la circostanza che il primo atto della trilogia, Anni difficili, fu accusato, in Parlamento, di “disfattismo nazionale”. Ma è significativo anche che la critica avesse lamentato, come veri e propri vizi, l’andatura volutamente frammentaria della storia e la dimensione intrinsecamente proteiforme del ruolo impersonato da Sordi. Il film di Zampa, quindi, non è solo bello e divertente; è anche “urticante”, parola che spesso fa rima con “importante”.
Scimone è il rappresentante di un ceto che, proprio perché consumato da un arrivismo fine a se stesso, non può mai riuscire, rimanendo condannato, nel proprio stato di mediocre egoismo, ad ambire a modelli niente affatto virtuosi (si potrebbe dire, a “non-modelli”). È “medio”, questo ceto, non tanto perché è quello “borghese”: se pensiamo a quanto “seria” può essere la borghesia e a quanto sia stata importante nella modernizzazione dell’Italia unita, non si potrebbe certo dire che sia tale quella impersonata da Sordi (è tale, invece, quella rappresentata, nel film, dalla figura del cognato e del suocero di Scimone; per capirne qualcosa di più sarebbe opportuno rileggere gli ottimi spunti di Arturo Carlo Jemolo, ripubblicati proprio quest’anno da Nino Aragno Editore ne Il malpensante). Questo ceto è “medio”, in definitiva, perché, indipendentemente dalla sua estrazione, decide di appiattirsi sugli istinti più volgari, di fare della furbizia la propria vocazione, di accontentarsi della propria ignoranza, in una parola, di “non crescere” e di “godere” in modo rapace delle fatiche altrui e delle vie talvolta complesse dell’interesse pubblico.
Se si vuole provare che cosa può accadere se l’Italia si guarda allo specchio, allora ci si può concedere una bella serata in compagnia di questo film, tra risate assicurate e sensazioni, viceversa, poco rassicuranti.