Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Gianfranco De Bosio, che è stato regista (e co-sceneggiatore, assieme a Luigi Squarzina) de Il terrorista. Il film, che risale al 1963 e ha tra i propri attori anche Raffaella Carrà, è stato nuovamente proiettato, in questi giorni, alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia. Per l’occasione Mimesis ha pubblicato, a cura di Maria Ida Biagi e Giuseppe Ghigi, un interessante volume, che, oltre all’originale copione (già edito a suo tempo per Neri Pozza), raccoglie contributi sulla pellicola e sul suo restauro. Il plot è essenziale. In una Venezia vuota, livida e fredda, sorvegliata dai repubblichini di Salò e occupata dall’esercito tedesco, un ingegnere – un giovane Gian Maria Volonté, già pienamente calato nella sua iconica, tagliente espressività – si pone a guida di un GAP (Gruppo di Azione Patriottica) e organizza un attentato contro i comandi nazifascisti. L’azione non è stata condivisa con il Comitato di Liberazione Nazionale veneziano, che si riunisce clandestinamente, discutendo a lungo e facendo emergere le diverse posizioni delle forze politiche che lo compongono. È in gioco un radicale problema di legittimazione della lotta per la liberazione, e di responsabilità nei confronti della popolazione civile. Mentre si decide di tentare una mediazione ufficiale per evitare sanguinose rappresaglie, l’ingegnere, che nel frattempo ha fatto perdere le proprie tracce, compie un altro atto, questa volta dimostrativo, scatenando però, definitivamente, la reazione nazifascista: venti ostaggi vengono immediatamente fucilati. Il Comitato, nuovamente tormentato per i rischi che incombono, chiede istruzioni al CLN nazionale, che sta a Milano. Ma l’ingegnere e i suoi tentano subito una nuova operazione, che viene sventata, aprendo la strada alla caccia spietata della polizia fascista. La morsa va stringendosi attorno a tutti i cospiratori e pure ai membri del CLN veneziano, e l’ingegnere, prima di intraprendere la fuga, confessa alla compagna Anna le ragioni e l’angoscia della sua disperata risolutezza. Il finale è tragico.

Vedere, o rivedere, oggi Il terrorista è assai importante. In primo luogo, perché il suo carattere asciutto, quasi didascalico, e la recitazione da piece teatrale lo rendono un’efficace testimonianza di un momento drammatico della storia italiana e delle articolazioni spesso conflittuali delle forze che hanno fatto la Resistenza; una testimonianza tanto efficace perché verosimile e credibile, visto che De Bosio ha vissuto in prima persona l’appartenenza a una brigata partigiana (la Brigata “Silvio Trentin”, comandata dal patavino Otello Pighin). Ciò che colpisce è la capacità di ricostruzione e rielaborazione critica, visto che la composizione è assai consapevole e matura: a dimostrazione che anche dall’interno del mondo che ha partecipato direttamente alla Resistenza l’autoanalisi è sempre esistita. In secondo luogo, vi si trova rappresentato l’intreccio disperante, vissuto dall’ingegnere gappista, tra tensione ideale e civile, da un lato, e abisso morale, dall’altro: nel volantino di rivendicazione del primo attentato, il protagonista si compiace alla lettura della frase “È necessario agire anche se agire porterà necessariamente a soffrire”; nel dialogo intimo con Anna, però, improvvisamente, la fragilità esistenziale, la solitudine e le incertezze prospettiche di questa posizione vengono completamente allo scoperto (siamo sicuri che, dopo tanta sofferenza, non ci “sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… anestetizzare… da un po’ di pace e di abbondanza”?). Su questo piano, il film passa dalla ricostruzione quasi documentaristica alla messa in scena di una dinamica tristemente universale, e anche attuale. Assume, infatti, i toni e la forza di una tragedia classica, che come tale tocca nel profondo e continua ancora a interrogarci.

Il film in versione integrale

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Si sa che i film non sono mai la stessa cosa dei grandi libri da cui possono essere tratti. Ciò non toglie, però, che possano essere cosa diversa in modo più che degno e, anzi, originale. Così è anche per questo Martin Eden cinematografico, che ha poco da spartire con quello letterario di Jack London, se non per la struttura base del racconto. La collocazione spazio-temporale – una Napoli sospesa in un tempo indefinito e fluttuante, tra inizio del Novecento, anni Venti, anni Cinquanta e anni Settanta – è del tutto eccentrica. Resta l’idea del giovane di umilissime origini, un po’ marinaio e un po’ operaio, che si innamora di una ragazza benestante e conosce l’enorme potere della lettura e della scrittura come strumenti di emancipazione. Ci scommette tutto, lasciandosi ispirare dal suo mentore, l’enigmatico Russ Brindessen, e rischiando la solitudine più triste e la povertà. Poi, all’improvviso, arriva il successo editoriale e di pubblico, ma la redenzione sperata non arriva, né quella individuale, né quella collettiva. Perché – come afferma lo stesso protagonista all’inizio del film, che lo ritrae al termine della sua parabola – “il mondo vince sempre” e ciascuno non può che abbracciare il suo destino.

Luca Marinelli, l’attore che interpreta Martin, è stato molto lodato. Eppure è eccessivo, ipercaratterizzato, quasi forzato. E poi passa con troppa enfasi da un Harrison Ford in versione guappo a un Edward Furlong nuovamente in forma ma calato nei panni di un poeta maledetto. Ad essere sinceri, Marinelli, che è stato anche premiato, è l’unica cosa sproporzionata e non calzante della pellicola. Molto meglio, senza dubbio, è l’interpretazione di Carlo Cecchi (Russ Brindessen), che in una scrittura tanto teatrale non può che spiccare e ribadire tutto il suo spessore. Le parti migliori di Martin Eden, comunque, sono il film stesso e la sceneggiatura: il film, per l’aura e i colori caldi tra la favola e l’operetta, in un assemblaggio che profuma d’antan, con inserzioni sempre precise e azzeccate di registrazioni d’archivio belle ed evocative; la sceneggiatura, per le implicite ma evidenti venature nazionali del personaggio Eden, costruito montando il tratto più fotogenico e impulsivo di differenti e forti eroi del riscatto meridionale e sociale. Martin, infatti, anche nella sua completa illusione, assomiglia a Luca Marano, tratto di peso da Le terre del sacramento di Francesco Jovine e condito con un pizzico di Rocco Scotellaro e un pizzico di Nicola Chiaromonte. Fornito di coraggio, di slancio utopistico e di una conquistata coscienza, il ragazzo viene fatto vagare con intenzione drammatica nelle transizioni costantemente e tristemente interrotte del Novecento italiano, alla ricerca (tutto qui) di un semplice traguardo di umano riconoscimento. In fondo, sotto traccia, si agita anche uno spirito leopardiano. A Venezia andavano premiati soprattutto Pietro Marcello, il regista, e Maurizio Braucci, lo scrittore partenopeo che tanto bene lo ha affiancato.

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fotoPalermo, 1937. La Corte d’assise è chiamata a giudicare “un uomo che aveva ucciso tre persone in un breve giro di ore”: nell’ordine, “la moglie dell’assassino; l’uomo che dell’assassino aveva preso il posto nell’ufficio da cui era stato licenziato; l’uomo che, al vertice di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento”. Quest’ultimo era un notissimo avvocato, presidente dell’Unione Provinciale Fascista Artisti e Professionisti, pezzo grosso del partito, dunque, ma anche influente amministratore delle cose pubbliche locali. I fatti, peraltro, sono chiari, e i legali dell’imputato non chiedono neanche la perizia psichiatrica. L’opinione pubblica, poi, sembra schierata a favore di un solo esito, da tutti percepito come giusto e inevitabile: la condanna a morte, reintrodotta dal Codice Rocco del 1930 anche per alcuni gravi reati comuni; per continuare, cioè, a dormire “con le porte aperte”, come vuole la “suprema metafora dell’ordine, della sicurezza, della fiducia”. Però, nonostante i messaggi allusivi e trasversali ricevuti in tal senso anche per bocca del procuratore generale, il giudice a latere nutre forti dubbi. La pena capitale non lo convince, e le perplessità aumentano anche per le sollecitazioni e le letture che egli finisce per condividere con uno dei giurati. Lo scrupolo vincerà la battaglia, ma non la guerra, che, alla fine, riporterà tutto – compreso il “piccolo giudice” – ad una sconsolante e umana proporzione.

Il segreto di Sciascia, della sua grandezza, non è facilmente afferrabile. D’altra parte è un segreto, che tale deve restare, fascinoso. Si nasconde sempre nella lingua, nell’uso accorto dell’italiano scritto e cólto, alla maniera dei grandi siciliani del Novecento: Brancati, Consolo, Bufalino… La disciplina dello stile e della parola ne è il fortino, ma anche la chiave, complicatissima e allusiva, veicolare e pur sostanziale, in un’unica soluzione espressiva. Questa disciplina segue e corrisponde ad un rigore tutto interiore. La letteratura e la morale, così, dialogano in un contrappunto che non si può mai interrompere; soprattutto, in un flusso, cui la coscienza – individuale, sociale, civile e politica – deve alimentarsi, per affrontare le astuzie apparentemente invincibili del malaffare e del potere che gli si asservisce quasi inesorabilmente. Il problema ha una dimensione filosofica, totalizzante, non si risolve soltanto nella critica al sistema mafioso o al fascismo (al quale, in questo libro, Sciascia dedica alcuni passaggi memorabili: v. specialmente alle pp. 71-73). E non si rivolge neppure alla sola pena di morte, la cui barbarie, tornata anche di recente all’attenzione delle cronache, viene denunciata con rara e sensibile acutezza europea, ben al di là di quanto ci è stato consegnato in tempi recenti dai più illuminati interpreti d’oltreoceano. Quel problema – che trova un suo naturale spazio d’elezione nel foro interno di ciascuno – ha anche un protagonista e un luogo istituzionali, che vengono introdotti subito anche dalla citazione che avvia Porte aperte, presa di peso dai famosi Soliloqui di Salvatore Satta: “il processo si pone con una sua propria autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario di imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando, trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo ‘momento eterno’”. Viene coinvolto, in tal modo, il giudice, con il suo ruolo, il suo carattere (in tutto e per tutto) decisivo, e quindi con la sua esemplarità, vera ragione dell’interesse ricorrente, per Sciascia, nei confronti della funzione giurisdizionale e dei i suoi abissi, come già dimostrato nella bellissima introduzione alla manzoniana Storia della colonna infame.

Dal romanzo passo al film, pluripremiato, che ne aveva tratto Gianni Amelio, con un maturo Gian Maria Volonté (in grande spolvero) nei panni del giudice dubbioso. La curiosità è soddisfatta, perché si tratta di un’ottima prova: nella fotografia, nelle luci, nella scelta di un generale clima di disfacimento che forse ben si addice all’esigenza – che sicuramente sentivano il regista e gli sceneggiatori – di ricostruire un’ambientazione storica e sociale adeguata, ma anche di renderla immagine di un Paese ripetutamente sotto scacco (ancora non resisto alla tentazione di paragonare le dimensioni dell’ufficio dell’avvocato ucciso a quelle dello studio dell’imprenditore Nottola, ne Le mani sulla città di Francesco Rosi…). Nel lavoro di Amelio, però, la grandezza di Sciascia quasi scompare, perché il suo segreto è scopertamente sciolto in direzioni ben precise, di critica culturale e politica, al di qua, per così dire, del profilo esistenziale che l’opera letteraria voleva mettere al centro della scena. In quella cinematografica, infatti, le parti si invertono: non sono le cose e le persone a cooperare a favore dello sviluppo del tema; è il tema ad adattarsi alle esigenze di certi contesti e di certe figure, allo scopo, dominante, di dire molto sulla situazione e sul clima di un determinato periodo o di un determinato modello sociale, e per dire (anche) dell’altro (ma) soltanto in chiave di resistente posizione intellettuale. Il che, per intendersi, non è di poco momento, visto che, forse, la strada indicata da Sciascia è ancora troppo complessa.

La morte come pena in Leonardo Sciascia (un convegno, da Radio Radicale)

Porte aperte, dal romanzo di Sciascia al film di Gianni Amelio (di Giuseppe Panella)

Sciascia on screen, tra pamphlet e thriller. Due riletture postume: Porte aperte e Una storia semplice (di Alessandro Marini)

Il sito degli Amici di Leonardo Sciascia

La Fondazione Leonardo Sciascia

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Nel bel mezzo dei mondiali non è semplice evitare di parlare di calcio, e in effetti l’Autrice di questa agile raccolta di saggi non ci chiede di metterci alla prova in un così grande sforzo. Semmai l’invito è a cogliere nello sport del pallone, così come in tutta la fenomenologia che esprime e che gli fa da contorno, un efficace criterio di lettura di molte tendenze socio-culturali. La proposta è formulata in modo interessante e il tenore di alcune suggestioni – talvolta ricercate – non travolge la freschezza dei ricordi e delle immagini familiari di una tifosa sinceramente appassionata, che cerca e suscita empatia sin dalle prime righe. Si parte proprio da qui, dalla rievocazione dei piccoli sedili di polistirolo che papà Serafini preparava ai due fratelli e al loro cugino per il pomeriggio domenicale sui gradoni della curva romanista. Allo stesso modo, poi, qui si finisce: con la confessione, sempre emozionata, che l’unica cosa “che resta uguale alla prima volta” è “entrare all’Olimpico”. Tuttavia, nel mezzo, si avanza con decisione un raffronto ficcante tra gli impossibili equilibri del calcio – che è fatto di schemi fissi e di guizzi imprevisti e risolutivi – e i segreti dei format televisivi e dei successi cinematografici (in fondo il calcio è un palinsesto, no?). Ci si avventura, pagina dopo pagina, anche nelle strategie della comunicazione pubblica, e politica in particolare, laddove i riferimenti al calcio possono essere spia di un determinato assetto nei rapporti di genere e, più in generale, di un modo ricorrente di pensare in maniera risolutamente indifferenziata ad una certa identità collettiva. Pure il discorso sulla fede incondizionata per una squadra può illuminare itinerari critici: non è forse vero che oggi si possono vedere tifosi anche fuori dagli spalti, e così tra gli elettori, gli spettatori, i lettori…? Che cosa significa, socialmente e antropologicamente, questa forte istanza di personalizzazione? Dov’è andata l’Italia in questi ultimi trent’anni? Non si parla di calcio, dunque; o, meglio, se ne parla per la semplice ragione che in società non se ne può prescindere. Come ricordava Pasolini, il calcio “è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” e, come sottolinea l’Autrice, “i campionati ricominciano sempre (…) almeno fino a quando saremo in grado di preservare il giocattolo”.

È un bel volume, con tanti pregi: la buona scrittura; la sincerità espositiva; l’andatura studiatamente rabdomante, e quindi gradevolmente affabulatoria, dell’argomentazione; i moltissimi riferimenti colti, impreziositi da un’appendice bibliografica altrettanto ricca che propone un verosimile e appagante prolungamento di lettura; la struttura ricorsiva del discorso complessivo. Quest’ultimo carattere è quello più curioso, poiché denota la tensione, diffusa in tutto il testo, per la realizzazione di una perfetta coincidenza tra la forma dell’esposizione e il significato che si vuole veicolare. C’è dell’hegeliano in tutto ciò, e le modalità con cui si presenta il thema, già nel secondo capitolo, lo confermano: la magia di un gioco che è sempre vivo perché si alimenta di contrasti apparentemente inconciliabili non è altro che una bellissima variazione della dialettica tesi-antitesi-sintesi, intesa come logica, naturale e irrinunciabile invariante. Anche i grandi campioni sono implicitamente inquadrati con la lente con cui Hegel guardava Napoleone a cavallo per le strade di Jena nell’ottobre del 1806: pure e tangibili manifestazioni dell’anima del mondo. In questo testo non si parla di calcio, è proprio vero: perché si riflette sull’utilità di uno specifico modo di guardare alla realtà, sul valore che questa prospettiva epistemologica porta con sé e sull’incoscienza quasi colpevole che si può naturalmente produrre allorché si dimentichi la forza esplicativa e riflessiva dell’analisi a favore di soluzioni apparentemente più (e troppo) facili e convincenti. Al termine del libro mi sono ricordato di una bella citazione di Sciascia (da La strega e il capitano), riportata all’inizio di un altro volume, letto recentemente e con pari soddisfazione: “Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Se fatto in questo modo, anche scrivere e leggere di calcio può risultare particolarmente accattivante.

Un’intervista all’Autrice

Letteratura e calcio (di Francesca Serafini)

Calcio, la più bella metafora del mondo (di Silverio Novelli)

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Accade che l’editoria riesca a compiere strane operazioni. Accade, cioè, che in un piccolissimo libro si possa confezionare la grande letteratura con le vesti pur sempre ambigue del richiamo da cassetta. Perché nel mercato editoriale non c’è nulla di strano se, dopo il riconoscimento dell’Oscar a Paolo Sorrentino per La grande bellezza, si arriva a stampare in grande velocità una raccoltina intitolata La bellezza di Roma, nella quale ordinare sei brevissimi pezzi (già pubblicati) di Raffaele La Capria, il grande scrittore, da poco novantenne, cui la fortunata pellicola pare essersi direttamente o indirettamente ispirata. Ciò che è straordinario, però, è che in queste brevi prose ci sono almeno due perle, quelle che aprono il volume, e il cui livello compensa certamente la sofferenza di dovervi accedere soltanto superando il disgusto per una copertina che più ammiccante non si può. Due perle – in forma di pedagogico ammaestramento borghese: Lamento su Roma (1975) e I consigli di papà (2009) – per un ritratto immaginifico e mordace degli aspetti che sembrano sempre e davvero eterni nella Capitale: della Direzione Generale della Democrazia Formale che in essa si compie; del trionfo anodino della casta amministrativa, la tribù dei Buro-Buro, e di tutti coloro che vi si impiegano e (quindi) vi si id-Enti-ficano; della Teoria del Fine Secondario, secondo cui nessun’altra giustificazione può darsi per cotanto apparato se non il suo stesso finanziamento.

Il posto alla Rai (2009) sviluppa queste sollecitazioni in corpore vili ed è il ritratto autobiografico dell’esperienza kafkiana di colui che arriva a Roma e si impiega, seguendo la regola ferrea per cui “il posto è di chi lo occupa”. In effetti, ne Un albergo a vita (1993), La Capria si produce anche in una lunga intervista, in cui narra del suo trasferimento, trentenne, da Napoli alla Capitale, in cerca, per l’appunto, di un posto; e in cui, tuttavia, si misura lo scarto tra la vitalità culturale della Roma de “Il Mondo” di Pannunzio e della Via Veneto dei registi e degli intellettuali, da un lato, e la Kaputt Mundi di oggi, dall’altro. La cosa che infastidisce di più lo scrittore è lo stato di abbandono di molti dei luoghi più belli della città monumentale: Una modesta proposta (1981) registra questo sdegno e formula qualche piccola idea a qualsiasi amministratore locale. Eppure Roma risplende, irresistibile, sotto il cielo terso delle sue mattine migliori, anche nelle vie di un centro storico offeso dal passare del tempo e privato della sua più giusta memoria, “dove tutto ti ricorda il gran disordine che governa il mondo”). La Capria ne avverte il fascino nelle passeggiate mattutine con la sua bassottina (A passeggio con Clementina, 2011). È tutto un susseguirsi di scorci barocchi, di “aeree architetture”, di inimitabili e persistenti suggestioni spaziali; a patto, certo, di assumere la prospettiva della vitalissima Clementina, di lasciarsi guidare dalle sue “possibilità percettive”. Sta qui, in fondo, la bellezza di Roma. Di fronte all’abbandono (delle cose) non c’è che l’abbandono (all’intuizione e alla contemplazione).

Recensioni (da ilfoglio.it, iltempo.it, corriere.it, wuz.it, politicamentecorretto.com)

Il sito dell’Autore

La Capria parla di La Capria: un libro da leggere!

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Ad Alberto Lattuada si può arrivare anche per caso, in un pomeriggio noioso, durante il quale vedere in tv un vecchio kolossal degli anni Cinquanta, come La tempesta (1958). Così mi era capitato, in effetti, diversi anni fa, e dopo quel pomeriggio la voglia di leggere La figlia del capitano, il romanzo di Puškin da cui il film era stato tratto, aveva avuto il sopravvento. Ma i pomeriggi noiosi, si sa, non sono mai troppo pochi, ed è successo che, immerso nello stesso mood di una giornata nuovamente stanca, di Lattuada ho visto anche Anna (1951): l’immagine di Silvana Mangano si è stampata nella mia mente, come il ritmo di El Negro Zumbon, la canzone musicata da Armando Trovajoli, che la bellissima e giovanissima attrice interpretava nel doppiaggio della vicentina Flo Sandon’s (alias di Mammola Sandon, prossima vincitrice del Festival di Sanremo del 1953, assieme a Carla Boni, con Viale d’autunno). Dopo un po’ di tempo, altro pomeriggio noioso, ed altro film di Lattuada, molto diverso dagli altri due. Questa volta lo incontro su una piccola rete locale, ed è Mafioso (1962), interpretato da un inedito e stranissimo Alberto Sordi, eppure a suo modo, e ancora, indelebile. A conferma del fatto che, una volta visto, Lattuada non ci molla più.

Ho rivisto Mafioso anche questa settimana, in occasione di un cineforum. Ciò che accade al protagonista – un ingegnere siciliano che vive e lavora a Milano, in una grande industria, e che torna con la moglie lombarda in Sicilia, per una breve vacanza nel suo paese natale – riesce sempre a sorprendermi. Nino Badalamenti (Sordi) è animato dal desiderio di riscoprire tutta la sua migliore gioventù e di farla conoscere alla sua consorte. Ma il suo viaggio è un difficile processo di autocoscienza, che lo attanaglia ad un ordine sociale arretrato ed autoritario, e che lo risucchia nel sofisticato ordine criminale che di quell’ordine sociale rappresenta un destino apparentemente irrefutabile. Il vortice che travolge l’ingegnere è parzialmente insospettabile, nei suoi sviluppi, anche per lo spettatore: sicché l’impensabile si realizza, implacabilmente, e la proiezione si chiude dove era cominciata, nei movimenti e nei suoni della fabbrica in cui Nino ritorna ad essere il puntuale quadro industriale di cui ogni azienda vorrebbe disporre.

Quali sono, però, le cose che, come sempre in Lattuada, finiscono per non mollarci più? La prima fra tutte, forse, è la scelta dell’attore principale, quella apparentemente più discutibile: perché l’accento siciliano del romano Sordi è eccessivamente marcato; perché si tratta di un’icona della commedia catapultata in un ruolo fortemente drammatico; perché il tema è serissimo e, nonostante ciò, la maschera comune del grande attore nazional-popolare non manca di suscitarci qualche risata. Tuttavia è proprio questo immediato fattore di debolezza a rendere vincente l’intuizione del regista: Sordi, nel film, non è (solo) il siciliano; è (proprio) l’italiano medio, con la sua piccola famiglia, i suoi affetti, i suoi piccoli pregi e i suoi piccoli difetti; è quella parte dell’italianità più ordinaria in cui si nasconde, quasi strutturalmente, il seme di una tragica debolezza morale. In proposito, mi piacerebbe pensare che l’opzione Sordi sia venuta in mente, a Lattuada, dopo quel ciclo di film – girati da Luigi Zampa: Anni difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi – in cui, poco tempo prima, l’Albertone aveva messo a nudo proprio quella debolezza ed aveva attirato tante critiche, specialmente nel mondo politico.

Mafioso, peraltro, è ricco di tante altre suggestioni. È, ad esempio, una storia di chiasmi, di progressi che si incontrano e che vanno, però, in direzioni opposte: Nino affonda in un crescendo di disillusioni, vittima di una precisione che scopre di portare in un cuore molto fragile e che è del tutto parallela a quella rettitudine ordinatrice che dimostra quotidianamente nel suo lavoro, così moderno e produttivo; mentre la moglie, dal principio assai riottosa a calarsi in un contesto socio-culturale tanto diverso dal suo, tesse un legame di complicità con la cognata, riuscendo anche a liberarla da alcuni dei tanti complessi che ancora pesano, in quello stesso contesto, sulla condizione femminile. Forse, allora, è davvero corretta la lettura di chi coglie, in Mafioso, l’impronta studiata del Lattuada raffinato neorealista, e quindi un impietoso parallelismo, tutto politico, tra le costrizioni omologanti della società industriale e gli imperativi degradanti di una società patriarcale ed oppressiva e delle autorità mafiose che capillarmente la governano.

Per quale motivo questo Lattuada non viene ricordato tra i più significativi autori del cinema italiano? Probabilmente per alcune sfortunate ed assorbenti coincidenze temporali (nel 1962 esce anche il Salvatore Giuliano di Rosi); o per il duro giudizio di interpreti tanto importanti (come Sciascia, che a Mafioso rimproverava l’idea di una mafia troppo facilmente onnipresente e, per ciò solo, del tutto indistinta, consegnata, se del caso, alla riproposizione di tanti superati stereotipi). Comunque sia, e come altre volte, Lattuada riesce anche qui ad ottenere il consueto risultato: domande, suggestioni, pensieri e curiosità continuano ad affollarvi la mente. Tutto merito di un regista singolare, che dopo aver “guidato” le mani e gli occhi di Fellini (in Luci del varietà), ha gradualmente “sposato” Monicelli e Soldati, l’esterno e l’interno, il luogo delle avventure, individuali e collettive, e il luogo delle trasformazioni psicologiche e delle indagini antropologiche. Il segreto è questo: Lattuada, da fuori, ci attira dentro; per questo non ci molla (e non ci tradisce) mai.

Il film completo on line

Un breve omaggio a Lattuada (di Goffredo Fofi)

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In questa Giornata della memoria, dopo aver rivisto il film che Vittorio De Sica aveva tratto dall’omonimo dramma di Sartre, tante cose mi riescono difficili. La prima è comprendere lo scarso successo che quest’opera ha ricevuto nel 1962, al tempo della sua prima proiezione. Era davvero troppo sofisticata? O forse era il tema ad essere ancora troppo “duro” da affrontare sul grande schermo? Non è facile individuare una spiegazione: perché, in verità, De Sica è riuscito a portare al cinema un complessissimo pezzo di grande teatro; e perché lo spinoso rapporto tra un intero paese, la Germania, e il ricordo degli orrori e dei crimini del regime che l’ha storicamente travolto non poteva essere reso in un modo migliore.

È questo stesso modo, però, a costituire il secondo profilo di difficoltà. E ciò per il fatto che la tragicità estrema del finale non sembra lasciare scampo. Lo squarcio sulla verità del presente e sul pratico, e quasi indifferente, superamento del passato conferma per Franz una condanna totalmente irrefutabile. Eppure, il giovane ufficiale che si è reso complice di brutalità indicibili e che vive, schizoide, da sequestrato nella soffitta della ricca casa paterna – “protetto”, paradossalmente, sia dal rischio di una sua cattura da parte dei vincitori, sia dal fantomatico e finto scenario di irrimediabile disfatta che gli viene quotidianamente ammansito dalla figura ambigua della sorella Leni – ci sembra intimamente consapevole della giustizia intrinseca che la sconfitta deve necessariamente determinare, e ci pare, pur nella sua conclamata follia, anche migliore del padre (magistralmente interpretato da Fredric March), di quella agiata generazione borghese che nel suo proprio interesse non ha esitato a lasciarsi sedurre e a vendere al nazismo tutta la vita dei suoi figli più capaci. È una tentazione, questa, che può riproporsi ancora, che affonda le sue radici in una debolezza morale che è ricorrente in ogni contesto sociale.

Ecco quale può essere il punto: il fatto che il film sembri del tutto sballato, o a tratti addirittura “stralunato”, se da un lato stona con le attese che la partecipazione di attori di primo piano poteva suscitare (e con il consueto realismo della sperimentata coppia Zavattini-De Sica), dall’altro realizza un effetto allucinante e disorientante che giova alla materia e al contesto, così come alla tensione psicologica che percorre tutta la storia ed alla forte e ricercata caratterizzazione dei personaggi. Il sentirsi disturbati è un pregio, un segno che l’obiettivo del regista ci ha inquadrati fin troppo bene. Proprio a questo livello si può misurare la fedeltà con il testo originale che ha ispirato De Sica. Questo disturbo, infatti, è l’indice della riflessione che il film, come il dramma teatrale, voleva stimolare, un’aspra meditazione, cioè, sulla condizione umana tout court e sul suo essere sempre e comunque in bilico. Per riprendere le parole di Sartre (ben ricordate, a proposito di questo film, da Mario Vargas Llosa, Tra Sartre e Camus, Milano, 2010, 61), “nessuno di noi è stato carnefice ma, in un modo o nell’altro, tutti noi siamo stati complici di una certa politica che oggi disapproveremmo”; anche noi, quindi, come Franz, oscilliamo tra “uno stato di indifferenza bugiarda e un’irrequietezza che si interroga senza tregua: cosa siamo, cosa abbiamo voluto fare e cosa abbiamo fatto?”.

Uno spezzone particolarmente intenso

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Si vede ancora, non solo d’estate, su qualche rete locale; è sempre una sorpresa, al di là di ciò che possono pensare gli amanti delle series d’Oltreoceano o dei celebrati successo del momento. Non ci si può proprio vergognare, infatti, di considerare tuttora fondamentale un film con John Wayne, soprattutto quando è diretto dal regista che lo ha “creato” e che, in quest’occasione, inspiegabilmente valutata come minore anche dalla critica più tradizionale, lo propone nella sua versione più “completa”. D’altra parte si tratta di essere anche in buona compagnia: leggo che Nanni Moretti (sic) ricorda Soldati a cavallo (1959) come il primo film che ha avuto modo di vedere, assieme a suo padre, e che alla domanda su quali fossero i tre più grandi registi della storia del cinema Orson Welles (niente di meno che…) avrebbe risposto “John Ford, John Ford e ancora John Ford”. Possono bastare questi testimonials per decidere di non cambiare canale?

Il film trae spunto da un fatto realmente accaduto durante la Guerra di Secessione: un colonnello nordista “taglia” tutto il territorio confederato per penetrarvi nel mezzo e per sabotare un importante snodo ferroviario delle retrovie sudiste. John Wayne interpreta quel colonnello alla perfezione, ma non solo per il fatto che ne ritrae i lineamenti nel modo più verosimile di una compiuta e riuscita retorica made in U.S.A.; questa è la consueta “sovrastruttura”, come sempre in John Ford. Quello che conta è “sotto traccia”: è, cioè, in un sorprendente e ripetuto gesto critico, che, pur enfatizzando un militarismo mai rinnegato, prende a bersaglio gli orrori del conflitto fratricida ed esalta una sensibilità ed un senso del dovere senza “patina”, perché sostenuti, e resi “tragici”, da ragioni umanissime e insospettabili.

Non c’è soltanto l’epica, tuttavia; c’è anche la commedia, rilanciata dalla complicità di William Holden (nelle parti del Maggiore Kendall) e Constance Towers (nei panni di Miss Hannah Hunter), come di alcune impagabili figure comprimarie (ad es. quella del Sergente Maggiore Kirby), in una fusione di tempi e di ritmi che, lungi dal contraddire il tono e il filo della narrazione, rende Wayne ancor più verosimile. Oltre a tutto questo, però, c’è soprattutto l’assoluta maestria di Ford: la carica sudista a Newton, specialmente, dovrebbe essere vista e rivista…

Un ricordo di John Ford, di Leonardo Locatelli

Tutto John Ford in 40 secondi (su Radio3)

Un documentario su John Ford (con John Wayne)

Allan Arkush su John Ford

La scheda su Ford (da www.scaruffi.it)

 

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Se per voi il Natale è un classico cartone animato…

Se per voi il Natale è una canzone un po’ ironica

Se per voi il Natale è un momento di riflessione tragicamente fantozziana

Se per voi il Natale è qualcosa da ricordare

Se per voi il Natale è un apologo sul Natale

Se per voi il Natale è come un incubo

Se per voi il Natale è un po’ teatrale

Se per voi il Natale è un’ottima occasione per improvvisarsi antropologi

Se per voi il Natale è un momento buono per il blues

Se per voi il Natale è un bel canto tradizionale…

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È un capolavoro di Orson Welles, del 1942. Basterebbe questo per descriverlo. Eppure è una descrizione che rischia di essere tanto precisa e significativa quanto ingannevole ed insufficiente.

In primo luogo il pubblico di oggi se ne ricorda poco. Così come si ricorda poco del libro da cui Welles ha preso spunto per la sua sceneggiatura, I magnifici Amberson (1918) di Booth Tarkington. In Italia questo splendido romanzo, vincitore del Pulitzer, ha trovato spazio in un’edizione pubblicata da Fandango (2005) e ormai già rara. Edoardo Nesi ne parla e riparla, anche nel fortunato Storie della mia gente, fresco vincitore, quest’anno, del Premio Strega; chissà che i lettori più sensibili sfruttino il libro di Nesi come un vero ipertesto – è per questo che quel libro vale, del resto – e vadano a scovare quanto di interessante si può scoprire nelle citazioni che racchiude, compresi I magnifici Amberson.

In secondo luogo si sarebbe tentati di ricordare L’orgoglio degli Amberson solo come un’operazione ambiziosa e sfortunata. Welles lo girò quasi integralmente, ma poi, a quanto pare, la fretta dei produttori fu tale da spingerli a commissionarne il montaggio ad altre mani. Come biasimarli, il giovanissimo talento era già in Brasile per girare un documentario (Its’ all true, rimasto, anche, incompleto). Sempre Nesi ci ricorda che Welles ne rimase quasi mortalmente ferito e che ebbe il coraggio di vedere il film solo molti anni addietro, piangendo per lo sconforto. Tuttavia si tratta ancora e sempre di un grande film, nonostante l’insuccesso al botteghino; anzi, probabilmente le mani diverse lo hanno reso più commestibile di quanto la sfrenata onnipotenza di Welles avrebbe potuto fare. Da questo punto di vista, forse, la pellicola è la dimostrazione che talvolta anche il genio necessita di essere educato.

In terzo luogo la pellicola in questione è una sorta di passepartout, per capire Welles, ma anche per capire l’immenso Citizen Kane, che era stato proiettato solo l’anno prima. I due film non sono diversi, e gli Amberson lo testimoniano con forza, non soltanto per la presenza di Joseph Cotten, ora nei panni dell’“inventore” e “costruttore” di automobili Eugene Morgan.

C’è uno sfondo, anche qui tutto americano: il declino di una grande ed opulenta famiglia del Sud, gli Amberson per l’appunto, nel momento dell’irresistibile avanzata dell’età industriale e dei mutamenti sociali che essa ha comportato.

C’è anche qui una storia tutta wellesiana: un’infanzia che si radica in sé stessa e che resiste alle evoluzioni della vita, dominandola integralmente e drammaticamente; una sola frase, pronunciata da George Minafer Amberson, l’ultimo rampollo della dinastia degli Amberson, interpretato da Tim Holt, esprime la radice di una maledizione che è il cuore della vicenda e che non è soltanto lo slogan storico di una classe arrogante e destinata ad essere superata: “L’unico vantaggio di essere qualcuno dovrebbe essere quello di fare il proprio comodo”.

E c’è anche qui, infine, un metodo, un approccio al cinema o, meglio, alla tecnica cinematografica anche e sempre tipicamente wellesiano: la trama è secondaria e il cinema, propriamente, è lo strumento di un exemplum, la cui grandezza lo supera e lo scuote, e al cui servizio cooperano sempre sinergicamente la voce del regista-narratore-dio, la forza della fotografia e dei chiaroscuri, l’alternarsi dei punti vista. Welles non realizza, in poche parole, la tragedia classica, ma è un vero maestro della letteratura apologetica, e qui sta, ancora una volta, la sua effettiva grandezza. Rispetto a Citizen Kane, l’epilogo, proprio perché costruito da altri, rende maggiormente palese il messaggio, in fondo così semplice.

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