Ad Alberto Lattuada si può arrivare anche per caso, in un pomeriggio noioso, durante il quale vedere in tv un vecchio kolossal degli anni Cinquanta, come La tempesta (1958). Così mi era capitato, in effetti, diversi anni fa, e dopo quel pomeriggio la voglia di leggere La figlia del capitano, il romanzo di Puškin da cui il film era stato tratto, aveva avuto il sopravvento. Ma i pomeriggi noiosi, si sa, non sono mai troppo pochi, ed è successo che, immerso nello stesso mood di una giornata nuovamente stanca, di Lattuada ho visto anche Anna (1951): l’immagine di Silvana Mangano si è stampata nella mia mente, come il ritmo di El Negro Zumbon, la canzone musicata da Armando Trovajoli, che la bellissima e giovanissima attrice interpretava nel doppiaggio della vicentina Flo Sandon’s (alias di Mammola Sandon, prossima vincitrice del Festival di Sanremo del 1953, assieme a Carla Boni, con Viale d’autunno). Dopo un po’ di tempo, altro pomeriggio noioso, ed altro film di Lattuada, molto diverso dagli altri due. Questa volta lo incontro su una piccola rete locale, ed è Mafioso (1962), interpretato da un inedito e stranissimo Alberto Sordi, eppure a suo modo, e ancora, indelebile. A conferma del fatto che, una volta visto, Lattuada non ci molla più.

Ho rivisto Mafioso anche questa settimana, in occasione di un cineforum. Ciò che accade al protagonista – un ingegnere siciliano che vive e lavora a Milano, in una grande industria, e che torna con la moglie lombarda in Sicilia, per una breve vacanza nel suo paese natale – riesce sempre a sorprendermi. Nino Badalamenti (Sordi) è animato dal desiderio di riscoprire tutta la sua migliore gioventù e di farla conoscere alla sua consorte. Ma il suo viaggio è un difficile processo di autocoscienza, che lo attanaglia ad un ordine sociale arretrato ed autoritario, e che lo risucchia nel sofisticato ordine criminale che di quell’ordine sociale rappresenta un destino apparentemente irrefutabile. Il vortice che travolge l’ingegnere è parzialmente insospettabile, nei suoi sviluppi, anche per lo spettatore: sicché l’impensabile si realizza, implacabilmente, e la proiezione si chiude dove era cominciata, nei movimenti e nei suoni della fabbrica in cui Nino ritorna ad essere il puntuale quadro industriale di cui ogni azienda vorrebbe disporre.

Quali sono, però, le cose che, come sempre in Lattuada, finiscono per non mollarci più? La prima fra tutte, forse, è la scelta dell’attore principale, quella apparentemente più discutibile: perché l’accento siciliano del romano Sordi è eccessivamente marcato; perché si tratta di un’icona della commedia catapultata in un ruolo fortemente drammatico; perché il tema è serissimo e, nonostante ciò, la maschera comune del grande attore nazional-popolare non manca di suscitarci qualche risata. Tuttavia è proprio questo immediato fattore di debolezza a rendere vincente l’intuizione del regista: Sordi, nel film, non è (solo) il siciliano; è (proprio) l’italiano medio, con la sua piccola famiglia, i suoi affetti, i suoi piccoli pregi e i suoi piccoli difetti; è quella parte dell’italianità più ordinaria in cui si nasconde, quasi strutturalmente, il seme di una tragica debolezza morale. In proposito, mi piacerebbe pensare che l’opzione Sordi sia venuta in mente, a Lattuada, dopo quel ciclo di film – girati da Luigi Zampa: Anni difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi – in cui, poco tempo prima, l’Albertone aveva messo a nudo proprio quella debolezza ed aveva attirato tante critiche, specialmente nel mondo politico.

Mafioso, peraltro, è ricco di tante altre suggestioni. È, ad esempio, una storia di chiasmi, di progressi che si incontrano e che vanno, però, in direzioni opposte: Nino affonda in un crescendo di disillusioni, vittima di una precisione che scopre di portare in un cuore molto fragile e che è del tutto parallela a quella rettitudine ordinatrice che dimostra quotidianamente nel suo lavoro, così moderno e produttivo; mentre la moglie, dal principio assai riottosa a calarsi in un contesto socio-culturale tanto diverso dal suo, tesse un legame di complicità con la cognata, riuscendo anche a liberarla da alcuni dei tanti complessi che ancora pesano, in quello stesso contesto, sulla condizione femminile. Forse, allora, è davvero corretta la lettura di chi coglie, in Mafioso, l’impronta studiata del Lattuada raffinato neorealista, e quindi un impietoso parallelismo, tutto politico, tra le costrizioni omologanti della società industriale e gli imperativi degradanti di una società patriarcale ed oppressiva e delle autorità mafiose che capillarmente la governano.

Per quale motivo questo Lattuada non viene ricordato tra i più significativi autori del cinema italiano? Probabilmente per alcune sfortunate ed assorbenti coincidenze temporali (nel 1962 esce anche il Salvatore Giuliano di Rosi); o per il duro giudizio di interpreti tanto importanti (come Sciascia, che a Mafioso rimproverava l’idea di una mafia troppo facilmente onnipresente e, per ciò solo, del tutto indistinta, consegnata, se del caso, alla riproposizione di tanti superati stereotipi). Comunque sia, e come altre volte, Lattuada riesce anche qui ad ottenere il consueto risultato: domande, suggestioni, pensieri e curiosità continuano ad affollarvi la mente. Tutto merito di un regista singolare, che dopo aver “guidato” le mani e gli occhi di Fellini (in Luci del varietà), ha gradualmente “sposato” Monicelli e Soldati, l’esterno e l’interno, il luogo delle avventure, individuali e collettive, e il luogo delle trasformazioni psicologiche e delle indagini antropologiche. Il segreto è questo: Lattuada, da fuori, ci attira dentro; per questo non ci molla (e non ci tradisce) mai.

Il film completo on line

Un breve omaggio a Lattuada (di Goffredo Fofi)

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È un film del 1954, con un Sordi davvero molto bravo. Si tratta, in particolare, dell’ultimo pezzo, il più bello, di una trilogia, i cui primi due titoli sono Anni difficili (1948) e Anni facili (1953). Luigi Zampa l’ha girata prendendo spunto da racconti di Vitaliano Brancati, che ha partecipato largamente anche alla stesura della sceneggiatura. Ci sarà un sequel nel 1962, per un’ultima “puntata”, meno riuscita: Anni ruggenti. In quest’ultimo caso il soggetto verrà da un racconto di Gogol’.

Non sono i riferimenti letterari, però, gli unici motivi che possono indurci a rivedere L’arte di arrangiarsi. Le ragioni di interesse sono altre.

Innanzitutto Sordi. Certamente, infatti, l’“Albertone nazionale” – che, all’interno della serie, compare solo in questa occasione – offre una performance davvero degna di tutti i suoi successi, anche di quelli futuri: in qualche modo, infatti, il protagonista adotta gesti, movenze ed espressioni che si ritroveranno in tanti film con (o di) Sordi (specialmente in quelli girati sempre da Zampa, su tutti ne Il vigile, del 1960, e ne Il medico della mutua, del 1968). Da questo punto di vista, è una commedia davvero riuscita, proprio perché “cannibalizzata” da un attore in splendida forma. Ma in questo caso scopriamo anche che la commedia non è necessariamente un genere “leggero” e che Zampa si conferma come un Maestro di questo singolare approccio impegnato.

Infatti, l’importanza de L’arte di arrangiarsi risiede soprattutto nella rappresentazione / denuncia di una certa immagine – icasticamente sintetizzata anche nel titolo – del trasformismo italico, causa quasi genetica di una sconfortante e “resistente” continuità tra tutte le fasi storiche del Paese.

Rosario “Sasà” Scimone (questo è il nome del personaggio principale) ne è l’orgoglioso e consapevole prototipo, capace di passare da uno schieramento politico all’altro, di tradire i suoi sodali e i suoi stessi parenti e amici, di agevolare sistematici e profondi conflitti di interesse, di sposarsi solo per convenienza economica, di farsi riformare, con frode, sia in occasione del primo conflitto mondiale sia prima del secondo, di diventare socialista, e poi fascista, per puro opportunismo, di riscoprirsi quindi comunista, per accreditarsi nell’Italia repubblicana, di tentare la via dello spettacolo e del successo, solo per corteggiare un’aspirante attrice e per trarne qualche vantaggio personale…

Il CV di Scimone, in sostanza, è una vera rassegna di vizi atavici e di propensioni radicate in buona parte della classe media, ed è anche la traccia simbolica del tentativo, destinato peraltro a fallire costantemente, di fiutare e di assecondare l’affare, lecito o illecito, più redditizio, assunto a sua volta, e paradossalmente, a mito, ad ideale tanto irraggiungibile quanto disponibile ad altri pochi eletti. Non è un caso che il “povero” Scimone finisca anche in galera, si riproponga come fondatore di un partito e, alla fine, si ritrovi a fare il venditore ambulante.

C’è da chiedersi, poi, nell’Italia del 2011, se, nel disegnare il cursus honorum di Scimone, punteggiato da appalti truccati, mazzette e speculazioni edilizie, vi fosse dell’intelligente preveggenza, oppure se esso non risultasse, già allora, l’indigesta descrizione satirica dello “stato della nazione”. Una risposta, forse, la può offrire la circostanza che il primo atto della trilogia, Anni difficili, fu accusato, in Parlamento, di “disfattismo nazionale”. Ma è significativo anche che la critica avesse lamentato, come veri e propri vizi, l’andatura volutamente frammentaria della storia e la dimensione intrinsecamente proteiforme del ruolo impersonato da Sordi. Il film di Zampa, quindi, non è solo bello e divertente; è anche “urticante”, parola che spesso fa rima con “importante”.

Scimone è il rappresentante di un ceto che, proprio perché consumato da un arrivismo fine a se stesso, non può mai riuscire, rimanendo condannato, nel proprio stato di mediocre egoismo, ad ambire a modelli niente affatto virtuosi (si potrebbe dire, a “non-modelli”). È “medio”, questo ceto, non tanto perché è quello “borghese”: se pensiamo a quanto “seria” può essere la borghesia e a quanto sia stata importante nella modernizzazione dell’Italia unita, non si potrebbe certo dire che sia tale quella impersonata da Sordi (è tale, invece, quella rappresentata, nel film, dalla figura del cognato e del suocero di Scimone; per capirne qualcosa di più sarebbe opportuno rileggere gli ottimi spunti di Arturo Carlo Jemolo, ripubblicati proprio quest’anno da Nino Aragno Editore ne Il malpensante). Questo ceto è “medio”, in definitiva, perché, indipendentemente dalla sua estrazione, decide di appiattirsi sugli istinti più volgari, di fare della furbizia la propria vocazione, di accontentarsi della propria ignoranza, in una parola, di “non crescere” e di “godere” in modo rapace delle fatiche altrui e delle vie talvolta complesse dell’interesse pubblico.

Se si vuole provare che cosa può accadere se l’Italia si guarda allo specchio, allora ci si può concedere una bella serata in compagnia di questo film, tra risate assicurate e sensazioni, viceversa, poco rassicuranti.

Il film in rete!

Il cinema di Zampa (dalla Cineteca di Bologna)

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