Che cos’è la poesia? Domanda persa nella notte dei tempi e, già per ciò solo, risposta difficile. Che, tuttavia, Aldo Nove prova, di fatto, a formulare in questo singolarissimo libro, focalizzandosi sull’unica risorsa cui si possa accedere per riuscire nell’impresa, ossia sulla propria personale esperienza. Perché per Nove la poesia è una specie di pratica, una disciplina, un procedimento (inspirazione, respirazione…), per il cui tramite stupirsi e inabissarsi – come il palombaro di Govoni – alla ricerca di un tesoro nascosto, spingendosi al limite, mettendosi completamente in gioco. È anche un tirocinio, lento e complesso, che in parte richiede di essere scoperto e assecondato, da sé come da altri che lo possano intuire e accompagnare. Dunque quello dell’Autore diventa presto il diario di un’iniziazione lunga una vita intera. Dalla scoperta delle poesie di Guido Ballo, in una piccola mostra a Viggiù, ai rapporti, veicolati da un suo sensibile professore, con Franco Buffoni e Milo De Angelis; dalla conoscenza di Nanni Balestrini fino al lavoro nella redazione dell’editore Crocetti. Nel mezzo: il racconto di  molte incomprensioni e di un’estraniazione progressiva da ciò che è comune e normale; l’ambizione di immergersi sempre di più nell’essenza del linguaggio poetico e nelle sue autonome virtù catartiche e filosofiche; due righe soltanto per la soddisfazione di togliersi qualche sassolino dalla scarpa e distanziarsi da proposte poetiche eccessivamente mainstream; e tante, tante (e talune formidabili) poesie: che non sono semplicemente raccolte, una dopo l’altra, ma punteggiano un itinerario di pensiero, quali pietre miliari o, meglio, exempla – nel senso medievale del termine – di ciò di cui Nove intende discutere, con galleria di altrettanti poeti e poetesse (Pascoli, Pagliarani, Hölderlin, Zanzotto, Giudici, Dickinson, Leopardi, Rimbaud, Bonnefoy, Thomas, Camon, D’Annunzio, Dante, Ritsos, Trakl, Celan, Neri, Caproni, Raffo, Palazzeschi, Penna, Poe, Sereni, Nemésio, Enzensberger, Brecht, Campo, Baudelaire, Pessoa, Shakespeare, Jarry, Campana, Sanguineti, Di Giacomo…).

Di questo volume – che in ogni caso può funzionare come ottima guida d’ingresso a importantissime voci della tradizione poetica – preme evidenziare soprattutto due aspetti. Il primo è quello che si può definire empatico, e che Nove coltiva nel richiamo costante tra arte e vita, tra verso e traiettoria esistenziale. Lo si comprende fino in fondo laddove si ricordano i casi di Lorenzo Calogero e Ivano Fermini, e quello sicuramente più conosciuto di Amelia Rosselli. E quindi quando – con quel sentimento di omaggio, gratitudine e riconoscenza che è proprio di chi sa alimentarsi dei messaggi che altri hanno lasciato, com’è tipico dei poeti – si evocano incontri e storie in cui la diversità o l’eccentricità o la solitudine altro non sono che chiavi privilegiate e condizioni per chi, pur marginalizzato, può accedere davvero al tesoro tanto cercato. È una prospettiva che consente a Nove di fare pure una scelta di campo; di esaltare, cioè, posture poetiche in cui il tesoro non passa per la trasmissione di un senso immediatamente afferrabile, ma per la riproduzione sapienziale di un effetto di fortunato stordimento. È un invito ad una sorta di sciamanesimo, che vale come luogo dell’agnizione, da un lato, ma anche come luogo della resistenza e della libertà a fronte di un regime ordinario e consumistico concepito sempre più come oppressivo (ai lettori di Inabissarsi non sfuggirà che il Nove di quest’opera è quello – arrabbiato – dei Sonetti del giorno di quarzo, scritti nel pieno della pandemia da Covid-19 e delle reazioni pubbliche e securitarie che essa ha generato). C’è un altro profilo che merita attenzione. Nella strada che Nove ha percorso la poesia si ritrova anche nella musica: di Lou Reed, ad esempio, ed è dato che non stupisce nessuno; di Umberto Tozzi ed Edoardo Bennato, che, invece, sono riferimenti meno scontati; e di Taylor Swift, con un interesse che recentemente è stato condiviso da acuti osservatori e che, tuttavia, qui, vale a rafforzare l’intuizione centrale, che “[i]l Regno della Poesia è mercuriale, salta altrove e sempre e chissà dove, ma sai che ti aspetta e ti si concede, se vuoi accoglierlo”.

Recensioni (di D. Brullo; di P. Vitagliano)

A chi esita (Bertolt Brecht, 1933)

Dici:
per noi va male. Il buio
cresce. Le forze scemano. 
Dopo che si è lavorato tanti anni
noi siamo ora in una condizione piú difficile di quando si era appena cominciato.

E il nemico ci sta innanzi piú potente che mai. 
Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso una apparenza invincibile. 
E noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo. 
Siamo sempre di meno. Le nostre
parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole
le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili.

Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? 
Qualcosa o tutto? Su chi
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla viva corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere piú nessuno e da nessuno compresi?

O dovremo contare sulla buona sorte?

Questo chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta oltre la tua.

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Tra il ‘68 e il ‘69, l’Autore de Il male oscuro pubblica sulle pagine di un noto quotidiano (Il Resto del Carlino) alcuni brevi interventi, che lo vedono dialogare con il suo cocker spaniel Cocai (dal Merlin Cocai pseudonimo di Teofilo Folengo, famoso artefice maccheronico del Baldus e del Caos del Triperuno). L’ambientazione dei colloqui – pubblicati in autonomo volume solo negli anni Ottanta, all’interno una ricca e intelligente collana di Marsilio – ha come baricentro topografico la casa d’elezione dello scrittore, da lui stesso edificata sul suggestivo promontorio calabrese di Capo Vaticano. Gli argomenti trattati, innanzitutto, sono quelli caldi di quegli anni: la guerra in Vietnam, le grandi agitazioni studentesche e il conflitto generazionale, i posizionamenti geopolitici di Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, lo spettro della conflagrazione nucleare, le missioni spaziali. Naturalmente lo scrittore trevigiano trapiantato al Sud non poteva non affrontare anche la questione meridionale, l’industrializzazione del Mezzogiorno e la nascita della nuova Università della Calabria. Nel merito dei discorsi svolti, come nella sostanziale ironia dell’approccio, il Berto di tutti questi testi non è così distante da quello conservatore della Modesta proposta, che verrà pubblicata nel ‘71. E la sua penna si conferma sempre chiara, asciutta ed essenziale, segnata dalla ricerca stilistica che meglio possa esprimere un comune e convincente buon senso. Nessun cedimento a quelle che egli stesso concepisce solo come vane emozioni, ingenuità o strumentalizzazioni.

Ciò che, tuttavia, si nota immediatamente è il carattere quasi dubbioso delle meditazioni, che sono esposte alla conversazione critica e provocatoria di Cocai, in qualità di curioso deuteragonista. Ma anche di compagno, amico e confidente, e di tramite diretto con gli affetti e con l’amore per la figlia (la “diletta” di cui aspetta il ritorno per le vacanze estive). Escluso il cane / tutti gli altri son cattivi, verrebbe da dire, riprendendo una canzone di Rino Gaetano, che uscirà qualche anno dopo, nel ‘75. È un Berto smarrito, che prova, e comunica, solitudine. Non solo quella ideale e, per così dire, storica ed epocale (di fronte a una civiltà i cui sviluppi non riesce a decifrare); ma anche quella letteraria (difesa con ostinazione, come dimostra il pezzo polemico con Moravia) e quella personale (si avverte distintamente che il pensiero ricorrente per la figlia non è solo un escamotage per riproporre l’invariante padri e figli o per esprimersi sulle retoriche della contestazione e del movimentismo). Più che mai, l’abitazione appoggiata sulla cima di un promontorio mozzafiato, lungi dal rivelarsi foriera di illuminanti vaticini (l’etimologia della località va in questo senso, tenta di crederci anche l’Autore), sembra il romitaggio di un intellettuale che non vede né immagina più il suo posto nel mondo e si limita a osservare le cose con franchezza estrema. Questo è, tuttora, il valore aggiunto di una voce pienamente libera.

Una recensione (di A. Cellotto)

Una lettura critica

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I motivi per procurarsi quanto prima questo piccolo libro di poesie sono tanti. Una buona sintesi sta nel messaggio (absit iniuria verbis) che l’Autore finisce per veicolare. Potrebbe suonare pressappoco così: a essere davvero seri, nella vita, bisogna non prendersi troppo sul serio. Sicché di messaggio (in effetti) non si dovrebbe discutere; si farebbe troppo torto a un Autore tanto cosciente quanto disincantato. Perché la saggezza di Pistolesi (il titolo coincide proprio con il concetto o, meglio, con l’approccio, e in fin dei conti ci si accorge veramente che non c’è – mai – differenza…) si risolve di per sé in un verso guizzante, divertito e divertente, spinto da un realismo ironico e autoironico. Che, però, non si lascia disorientare da alcunché e fila dritto al punto, anche quando pare smontarsi da solo. E che non ha neppure timori reverenziali; né paura di affermare, spietato, quello che conta, in modo efficace, se non assoluto. Lo preannuncia la (bellissima) citazione di Fortini, in apertura: “se continuiamo a non volere la verità / sarà terribile la nostra vita. / È bene che lo sappiamo una volta per sempre”.

Onestà estrema, innanzitutto, e specialmente verso se stesso. Può trattarsi di una sconsolata e preliminare constatazione, o negazione, politico-esistenziale, a mo’ di sintomatico proemio; delle reiterate difficoltà, e degli imbarazzi, di un amore tormentato e finito; della raffigurazione della paternità più iconica o del rapporto, e del sentimento, padre-figlio; della nostalgia per l’adolescenza che è stata; degli inganni temibili della solitudine; di una vera, e affatto timida, dichiarazione di poetica; o, meglio ancora, di una altrettanto vera, e autentica, scelta di vita e, dunque, di poesia. In quest’ultimo senso, mai quest’Autore pare soggettivamente a disagio. O meglio: mai risulta ordinariamente a suo agio, cosa che gli permette, liricamente, di orizzontarsi benissimo, navigando leggero, forte di una tradizione assimilata assai profondamente e di un ruolo che non ha alcuna sociale rilevanza, e che per ciò solo è il ruolo, poetico all’essenza, cui meglio può ambire, sereno. Non c’è dubbio alcuno: per dirla alla Aldo Nove (occorrerà tornarci presto), Pistolesi si è inabissato, lo ha fatto benissimo, e pure allegramente e, per questo, meno misteriosamente di quanto lasci intendere la lezione originaria. Lasciamoci contagiare, quindi; diventiamo saggi, anche solo per qualche ora.

Una selezione di testi e la Postfazione di G. Policastro (da leparoleelecose.it)



A mio padre dopo l’ennesimo tentativo di inventarci una confidenza

Onore a noi, dopotutto, che comunque

ci abbiamo provato, a fare questa cosa di parlare

l’uno con l’altro, sopra un aperitivo fuori tempo massimo

trovare parole che colmino un silenzio

lungo vent’anni, anzi ventiquattro, venticinque

quasi (sono vecchio, sono

vecchio!) – eppure esiste, la foto

in analogico da un’altra casa, da un’altra

vita, ci siamo noi due nella vasca

insieme, ridiamo, siamo

un padre e un figlio.



La saggezza (esercizi)

Mettere da parte questa lingua

impararne altre. Cominciare a nuotare, cucinare

più spesso. Dormire al pomeriggio

lavorare. Scrivere di cose sane

e quando il pensiero stringe e si fa terribile

cadere come corpo morto cade.



Se mai (poesia per B.)

Se mai dimenticheremo, nel grande gioco della normalizzazione e dell’età adulta,

lo schianto incredibile la collisione assurda 

che sono due persone quando s’incontrano, allora

buttateci pure via portateci dallo sfasciacarrozze, perché davvero non serviremo più a niente.

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Doralice Migliar – una sua foto è in copertina – era la nonna di Andrea De Carlo. Veniva dal Cile e faceva parte di una eccentrica e talentuosa famiglia di commercianti e artisti, che però aveva origini astigiane. A lungo lo scrittore ha pensato che Dora fosse morta quando suo padre Giancarlo – destinato a diventare architetto di fama internazionale – era ancora bambino, prima, cioè, del suo trasferimento a Tunisi, a casa del bisnonno Vincenzo. Poi un giorno ha scoperto che le cose sono andate diversamente e che Dora e nonno Carlo si erano improvvisamente allontanati. Che cosa è successo? Perché la sua famiglia ha sempre cercato di rimuovere l’accaduto? Tra poche foto, qualche fortunata lettura e una strana conversazione con l’anzianissima zia Velda e il cugino Jean-Paul, Andrea rievoca in pochi tratti il tono e i colori di un’intera epoca storica e dell’epopea avventurosa delle migrazioni italiane all’estero, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel contempo, prova a ricostruire il mosaico genealogico, al quale, tuttavia, mancano fin troppe tessere per poter assumere una fisionomia riconoscibile e sensata. Non gli resta, sulla base di alcuni indizi, che concludere che la rottura tra Dora e Carlo sia da attribuire a un fatto violento, e che da quel loro incontro, come dalla successiva separazione, siano sortite, per suo padre e per sé stesso, conseguenze esistenziali sottili ma decisive.

Titolo giusto, suggestivo; scrittura facile, leggera, che non stanca; e un’intuizione importante, potenzialmente profonda: ecco quanto basta ad Andrea De Carlo per costruire un libro. È un modello di cui La geografia del danno rappresenta l’ultima espressione. Ed è quasi un manifesto, una sintetica dichiarazione di poetica. Con la peculiarità che, questa volta, l’Autore racconta dei suoi nonni, alla ricerca di una sorta di spiegazione lontana per il proprio carattere e, forse, per tutta la propria vita. Il che è pienamente coerente con il tema alto dell’opera, enunciato espressamente a p. 123: “una delle ragioni per cui ho cominciato a scrivere questa storia è il desiderio di capire come un danno possa ripercuotersi attraverso le generazioni, e come gli interessati non ne siano consapevoli, fino a che non provano a ricostruire cosa sia successo davvero a chi li ha preceduti”. Il perno è questo: è essenziale, per ciascuno, scavare nelle origini, per scoprire se, e per quale motivo, esista davvero (lo ricorda pure l’Autore, ancora a p. 123) una magnetica coazione a ripetere, non solo nell’ambito della propria esperienza individuale. Cose terribilmente serie, quindi. Cose da Thomas Bernhard, per intenderci. Dopodiché, come sempre, e – lo si è già detto – come da modello, in De Carlo la fluidità e la pulizia del linguaggio e della trama fanno puntualmente premio sull’approfondimento e sulla complessità.

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Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Gianfranco De Bosio, che è stato regista (e co-sceneggiatore, assieme a Luigi Squarzina) de Il terrorista. Il film, che risale al 1963 e ha tra i propri attori anche Raffaella Carrà, è stato nuovamente proiettato, in questi giorni, alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia. Per l’occasione Mimesis ha pubblicato, a cura di Maria Ida Biagi e Giuseppe Ghigi, un interessante volume, che, oltre all’originale copione (già edito a suo tempo per Neri Pozza), raccoglie contributi sulla pellicola e sul suo restauro. Il plot è essenziale. In una Venezia vuota, livida e fredda, sorvegliata dai repubblichini di Salò e occupata dall’esercito tedesco, un ingegnere – un giovane Gian Maria Volonté, già pienamente calato nella sua iconica, tagliente espressività – si pone a guida di un GAP (Gruppo di Azione Patriottica) e organizza un attentato contro i comandi nazifascisti. L’azione non è stata condivisa con il Comitato di Liberazione Nazionale veneziano, che si riunisce clandestinamente, discutendo a lungo e facendo emergere le diverse posizioni delle forze politiche che lo compongono. È in gioco un radicale problema di legittimazione della lotta per la liberazione, e di responsabilità nei confronti della popolazione civile. Mentre si decide di tentare una mediazione ufficiale per evitare sanguinose rappresaglie, l’ingegnere, che nel frattempo ha fatto perdere le proprie tracce, compie un altro atto, questa volta dimostrativo, scatenando però, definitivamente, la reazione nazifascista: venti ostaggi vengono immediatamente fucilati. Il Comitato, nuovamente tormentato per i rischi che incombono, chiede istruzioni al CLN nazionale, che sta a Milano. Ma l’ingegnere e i suoi tentano subito una nuova operazione, che viene sventata, aprendo la strada alla caccia spietata della polizia fascista. La morsa va stringendosi attorno a tutti i cospiratori e pure ai membri del CLN veneziano, e l’ingegnere, prima di intraprendere la fuga, confessa alla compagna Anna le ragioni e l’angoscia della sua disperata risolutezza. Il finale è tragico.

Vedere, o rivedere, oggi Il terrorista è assai importante. In primo luogo, perché il suo carattere asciutto, quasi didascalico, e la recitazione da piece teatrale lo rendono un’efficace testimonianza di un momento drammatico della storia italiana e delle articolazioni spesso conflittuali delle forze che hanno fatto la Resistenza; una testimonianza tanto efficace perché verosimile e credibile, visto che De Bosio ha vissuto in prima persona l’appartenenza a una brigata partigiana (la Brigata “Silvio Trentin”, comandata dal patavino Otello Pighin). Ciò che colpisce è la capacità di ricostruzione e rielaborazione critica, visto che la composizione è assai consapevole e matura: a dimostrazione che anche dall’interno del mondo che ha partecipato direttamente alla Resistenza l’autoanalisi è sempre esistita. In secondo luogo, vi si trova rappresentato l’intreccio disperante, vissuto dall’ingegnere gappista, tra tensione ideale e civile, da un lato, e abisso morale, dall’altro: nel volantino di rivendicazione del primo attentato, il protagonista si compiace alla lettura della frase “È necessario agire anche se agire porterà necessariamente a soffrire”; nel dialogo intimo con Anna, però, improvvisamente, la fragilità esistenziale, la solitudine e le incertezze prospettiche di questa posizione vengono completamente allo scoperto (siamo sicuri che, dopo tanta sofferenza, non ci “sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… anestetizzare… da un po’ di pace e di abbondanza”?). Su questo piano, il film passa dalla ricostruzione quasi documentaristica alla messa in scena di una dinamica tristemente universale, e anche attuale. Assume, infatti, i toni e la forza di una tragedia classica, che come tale tocca nel profondo e continua ancora a interrogarci.

Il film in versione integrale

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Giovanni Pascoli mi ha sempre affascinato. È accaduto al primo impatto, sui banchi di scuola. Pareva un autore troppo semplice, quasi banale. Doveva per forza nascondere qualche mistero; un segreto che non fosse, naturalmente, quello che di solito si decritta anche nelle più comuni antologie. Come è noto, infatti, lo scioglimento dell’enigma è intravisto a metà strada tra una spiccata e riconoscibile abilità di innovazione e sperimentazione linguistica e di padronanza metrica e stilistica, da un lato, e, dall’altro, la poetica del nido come tenace ispirazione al ripiegamento luttuoso, tragico e doloroso in un confine di cose, di sensazioni e di affetti familiari e minuti. Ma questa lezione, a ben vedere, non è completamente convincente. Specie se presa come unica e, per così dire, autentica. Anche l’eccellente e persuasivo scavo di Cesare Garboli, a partire dal volume sulle Trenta poesie famigliari, non ha mutato il quadro critico di riferimento. Anzi, paradossalmente, lo ha tanto più consolidato attorno all’immagine esclusivizzante e a dir poco ambigua del rapporto tra il poeta e le sorelle Ida e Mariù (e soprattutto quest’ultima, elettasi in seguito al ruolo di custode ufficiale della memoria di Giovannino e della sua immagine). In anni recenti, però, la produzione di una nuova biografia e la pubblicazione del carteggio col fratello Raffaele – opere entrambe di una appassionata studiosa – consentono di allargare lo spettro dell’analisi pascoliana. Di rivelarne, cioè, una complessità ancor maggiore, e di valorizzare – nel tentativo di abbracciare una personalità mossa da forze talvolta contrastanti o addirittura contraddittorie – sia gli studi danteschi (a lungo misconosciuti, per la loro apparente oscurità), sia il corpus dei contributi in prosa (spesso valutati come occasionali o eccessivamente retorici). In particolare, ciò che si traguarda non è più l’esperienza dell’uomo prigioniero di un dramma e di una correlata istanza di ricostruzione e protezione affettive, bensì la dimensione del Pascoli proiettato nel futuro, innovatore e creatore di un nuovo approccio nei confronti della vita e dell’universo. Una dimensione, questa, che non è estranea al fattore psicologico, ma che con esso convive e si lega quasi sinergicamente, producendo un quid di irriducibile positività.

Di quest’ultima ispirazione costituisce esempio emblematico il libro di Giuseppe Grattacaso. Che si sviluppa in un originale ritmo alternato, dove alla meticolosa rivisitazione di alcune delle più celebri poesie pascoliane (tra cui L’aquiloneX agostoIl ceppo) si intervallano efficaci carotaggi in molti degli snodi cruciali dell’itinerario esistenziale e di pensiero del poeta di San Mauro. È proprio attraverso queste tappe, illustrate al lettore con sapiente oculatezza, che l’Autore riporta alla luce un Pascoli parzialmente diverso. Lo vediamo, ad esempio, nell’esuberante e fecondo periodo messinese, alla ricerca di un riconoscimento pubblico e di una posizione sociale che a tratti gli paiono più che tangibili. E lo scopriamo anche nella fedeltà che riserva alle sue amicizie e nella volontà di farsi portavoce visionario di una inedita forma di umanità, resa cosciente dai progressi della scienza. Allo stesso tempo, però, lo comprendiamo anche in tutta l’ambiguità e fragilità del suo carattere, che ce lo mostrano “come le foglie della sensitiva”, facile a ripiegarsi su se stesso al primo segnale di pericolo o di insuccesso. Sicché il sentimento di una strutturale, ma essenziale, precarietà diventa, per Pascoli, porta privilegiata di accesso per un’inedita Weltanschauung: la conoscenza sempre più precisa, e disorientante, della realtà è sostenibile, e diventa, addirittura, fonte di energia e di forza, soltanto alla condizione di cogliere la “spaventevole proporzione” tra ciò che è infinitamente piccolo e ciò che è infinitamente grande. In questa prospettiva, la sovrapposizione tra il presente e il passato come la prefigurazione del futuro e la custodia del ricordo non sono altro che funzionali ed efficacissime tecniche espressive. Non solo pongono Pascoli quale antesignano di esplorazioni e sensibilità tipicamente novecentesche (quale quella proustiana), ma consentono al poeta “fanciullino” di diventare “sacerdote”, mentore qualificato di una riconnessione palingenetica alla natura e al cosmo intero. È così che dal buio di una parabola calante si fanno strada una sofisticata proposta epistemologica e un kit di salvezza individuale e collettiva. Niente male per colui che finora è stato etichettato come grande incompreso e malinconico aedo contadino.

Giovanni Pascoli nella Treccani

La Fondazione Pascoli (a Castelvecchio) – Il Museo Casa Pascoli (a San Mauro) – La Rivista Pascoliana

Pascoli secondo Renato Serra (un famoso saggio) – Pascoli secondo Cesare Garboli (un testo, un’intervista, una lezione) – Un’intervista impossibile (Arbasino intervista Pascoli)

I grandi della letteratura italiana: Giovanni PascoliPascoli “Narratore dell’avvenire”Pascoli a Barga

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Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

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Luce è un’intraprendente architetta che vive e lavora a Parigi, dove ha conosciuto Gerard, collega e compagno. La morte della nonna – con cui ha vissuto da bambina, assieme alla sorella – la riporta in Italia, dove apprende di essere destinataria di una missione, che proprio la nonna sembra averle lasciato: mettere un fiore sulla tomba del bisnonno Antonio, caduto durante la prima guerra mondiale attorno a Cima Bocche. Il fatto è che la tomba è ignota. Luce cerca anche negli archivi militari, ma scopre che il fascicolo personale del bisnonno è vuoto. Ha tuttavia l’intuizione di consultare il fascicolo dell’ufficiale che aveva scritto alla nonna, per comunicarle la morte del marito. È così che, sulle orme di quell’ufficiale, il tenente Giardina, Luce conosce Marco, il nipote del tenente, con cui si lancia in una ricerca comune, che per entrambi comporta un viaggio nel passato personale e delle rispettive famiglie. E in alcune delle esperienze più drammatiche e ingiuste della storia dell’esercito italiano. Il racconto di Giovanni Grasso alterna le pagine sul rapporto, via via più intenso, tra Luce e Marco alle pagine del diario segreto del tenente Giardina, che il più classico degli espedienti letterari vuole ritrovate sul fondo di un vecchio baule. I fuochi del romanzo sono due: quello che denuncia nuovamente la crudeltà e l’ignominia delle fucilazioni sommarie, con un percorso analogo a quello compiuto qualche anno fa da Paolo Malaguti in Prima dell’alba (dove si rievoca un episodio che è citato anche in questo libro); e quello che, in un gioco dialettico tra cancellazione della verità e tutela morale, spiega quanto, e come, sia possibile fare giustizia anche con la memoria. Non sono temi nuovi, ma la scrittura è agilissima e l’Autore sa bene come prendere per mano i lettori, con un approccio che è delicato ed empatico allo stesso tempo. Rispetto ai “precedenti” più recenti sulla Grande Guerra, il valore aggiunto di questo libro si nasconde nelle pieghe di un tono pacato e nell’intuizione che ha saputo guardare all’immenso patrimonio delle tante, piccole/grandi storie di cui le famiglie italiane sono ricchissime.

L’Autore a Radio Radicale

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Il protagonista di questo romanzo è Marcello Gori, trentenne viareggino che, largamente fuoricorso, si laurea in lettere all’Università di Pisa. Presto, del tutto inaspettatamente, vince una borsa per il dottorato di ricerca. Non può avere occasione migliore: non tanto per imboccare finalmente una possibile strada professionale, quanto per starne ancora lontano e fuggire dalle responsabilità cui il padre lo richiama da tempo. Il mondo accademico, però, si propone subito in maniera grottesca, con tutti i modi, i riti e le storture che gli attribuiscono i più noti e accreditati stereotipi. È naturale che, pur orientato dai consigli di Carlo, un assegnista preparatissimo che pare essergli amico, Marcello si senta un pesce fuor d’acqua. La sua guida poi – il Chiarissimo Prof. Sacrosanti, mentore dello stesso Carlo e di Pier Paolo, un dottorando ben più a suo agio di Marcello – lo mette sulle tracce dell’opera letteraria di Tito Sella, membro negli anni Settanta di uno sgangherato gruppo pararivoluzionario di provincia, e condannato all’ergastolo per alcuni gravi reati commessi dalla sua banda. Sembra proprio un’esperienza priva di particolare respiro. Tanto più che i primi approcci critici di Marcello quasi annegano nel corso dei dibattiti puntuti di un grande congresso di italianistica comparata. Nonostante ciò, il destino spinge il protagonista fino a Parigi, a consultare gli archivi di Tito Sella e a vivere pro tempore l’esperienza del tipico giovane studioso italiano all’estero. In quel contesto, a dispetto dei consigli di Sacrosanti, Marcello si immerge, e si confonde, nella traiettoria esistenziale del suo personaggio, immaginandone nei dettagli il romanzo autobiografico. Lo straniamento lo porta ad un senso di improvvisa liberazione, con incontri e abbandoni sorprendenti. Fino al forzato ritorno a casa, dove apprende di un evento tragico che lo scuote profondamente e lo porta, come in un giallo, a rivedere la pista seguita fino a quel momento, a fare una scoperta potenzialmente sensazionale e a compiere, per la prima volta nella sua vita, una scelta davvero consapevole.

La ricreazione è finita possiede tutte le stimmate del potenziale successo editoriale. In primo luogo, solletica con arguzia i palati di chi ama dissacrare il mondo universitario e i suoi principali attori. Ferrari, infatti, offre un vero e proprio repertorio del più assurdo e ipocrita galateo accademico: dal modo con cui si preparano le note di un saggio scientifico alle corse a ostacoli che si devono compiere per organizzare una conferenza e sistemare a dovere i diversi relatori. Di più: il romanzo è popolato di macchiette perfette, di figure (la dottoranda bionda, il Professor Morelli, Sacrosanti) che incarnano i classici tipi umani e le leggende personali di cui l’università è invariabilmente popolata, con le connesse povertà umane e intellettuali. Già questo, dunque, funziona benissimo. Oltre a ciò, si tratta di un romanzo di formazione, che per il solo fatto di riguardare il prototipo del vitellone degli anni Duemila non può che suscitare empatia. È il racconto di una specie di ravvedimento, di una presa di coscienza (anche questo è un fattore che i lettori di solito gradiscono) che si costruisce per opposizione all’artificiosità e all’ambiguità (che alla fine si rivelano estreme) dell’ambiente ipoteticamente colto, illuminato e impegnato in cui essa matura. Forse il terminale ultimo della storia, il punto di caduta del protagonista e delle sue decisioni finali, è disegnato in modo eccessivamente rapido, quasi sommario, come un fulmine a ciel sereno. E forse la scrittura è talvolta discontinua, alternando spezzoni di osservazione profonda o concentrazione comica, e a tratti sarcastica, a lunghi brani (talvolta superflui e) meramente narrativi. Ma occorre ripeterlo: gli ammiccamenti sopra descritti possono coprire qualsiasi maniera, ogni difetto. Sicché, nel complesso, il romanzo gira, eccome.

Il fatto è che – al di là di quanto può verosimilmente piacere – l’originalità di questo libro – il cui titolo fa ironicamente il verso sia ad una famosa frase di De Gaulle, sia a un discusso saggio di Roger Abravanel – si scopre meglio nella sua parte apparentemente più ingenua, ossia nel modo con cui rappresenta la dialettica tra vita e letteratura, tra ragioni del cuore e ragioni della testa. È profilo che si può apprezzare su due livelli, quello che più riguarda il protagonista, e quindi l’io narrante e alter ego dell’Autore, e quello che coincide con il soggetto-oggetto della finzione, Tito Sella, raffigurato e comparato con gli eroi delle sue opere. Il primo livello si spiega semplicemente. Se da un lato la somma superficialità di Marcello è il vizio che ne caratterizza meglio la personalità, è indubbio che è proprio questa virtù – un approccio spontaneo alle cose, diremmo – ad averlo protetto dall’eccesso dell’intelletto: ad averlo, cioè, tenuto “a distanza dal baratro in cui scivola chi si concede integralmente, senza remore e senza protezioni, con il rischio di essere risucchiato dall’abisso senza nemmeno rendersene conto” (p. 431). Il secondo livello, invece, è più complesso. Così come Marcello si scopre vittorioso nel farsi del suo formale fallimento, anche Sella viene riscoperto e riabilitato a modello di dignitosa coerenza proprio allorché se ne rivelano le umane paure, gli emotivi dietrofront e i successivi, umanissimi rimorsi. Solo i maestri – come Sacrosanti – sono dogmatici e perfetti, sanno come comportarsi e come, e dove, riuscire ad affermarsi, con il trasformismo e il perbenismo più assoluti, e abdicando a ogni innocenza. Che viceversa può darsi meglio nella dignitosa sconfitta di una bruciante rinuncia.

Recensioni (di D. Cacopardo; V. Calzolaio; S. Mariani; L. Martini)

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Ci sono piccoli volumi che dischiudono ampie possibilità di scoperta e approfondimento. Come questa pubblicazione, edita da il Mulino nel 2014. Raccoglie la trascrizione, riordinata, delle “puntate” che più di vent’anni fa un importante studioso di storia romana aveva dedicato ad Annibale per la trasmissione radiofonica Alle Otto della Sera. Erano state già riproposte, anche in forma scritta per le edizioni della RAI, e oggi sono rimaste disponibili online. Sono una piacevole lettura. D’altra parte, il comandante cartaginese, il protagonista della seconda guerra punica che ha sbaragliato le legioni romane alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne, è una figura quasi mitica. Non può non affascinare. Inoltre Annibale è uno dei personaggi storici di cui ci si rammenta sempre qualcosa. Così è anche per me, se non altro per le nozioni acquisite in alcune ore passate, a suo tempo, in compagnia dell’abile e avvincente narrazione di Gianni Granzotto (per sincera curiosità, ma anche per compensare il polpettoso e romanzato peplum di riferimento, quello del 1959, con un baldanzoso Victor Mature nei panni del condottiero). Il fatto è che il valore del saggio proposto da il Mulino va al di là delle affezioni per gli eroi di gioventù. Giovanni Brizzi, certo, fa quello che ci si aspetta da un’agile, ma precisa, introduzione divulgativa: di Annibale ricostruisce le origini, il contesto familiare, l’educazione, i progetti, le tattiche e le strategie, e anche la sconfitta nella piana di Zama, ad opera di Publio Cornelio Scipione, con successivi caduta, esilio e morte. Non manca, ovviamente, di dare anche alcune coordinate, sintetiche ma nitide, sulla storia, e sul momento specifico, delle due potenze allora in conflitto, Cartagine e Roma. Ma l’Autore riesce pure a introdurre i non addetti ai lavori a un aspetto di fondamentale importanza. Riguarda le articolate chiavi interpretative che sono offerte dalla storia militare. Può sembrare scontato, nel caso di Annibale. Perché decrittare i segreti e le astuzie che hanno favorito la prevalenza, in battaglia, di uno schieramento anziché di un altro è molto interessante. Viene voglia di partire subito alla volta del lago Trasimeno, per camminare sulla scena delle operazioni di quel famoso scontro. Tuttavia ciò che offre la storia militare è una prospettiva che, in questo caso, aiuta a capire in maniera efficace il confronto tra l’approccio latino originario e il lascito maturo della cultura ellenistica, con un risultato finale, quasi un salto evolutivo, che, in un’esperienza drammatica, distruttiva e del tutto spiazzante, e grazie al tirocinio svolto da Scipione (che dell’avversario si rivela quasi un apprendista), ha fatto crescere e reso egemone lo stato romano. Analogamente, la stessa prospettiva consente di avvicinarsi ai più classici problemi delle total wars, dei conflitti, cioè, che, non solo nell’antichità, sono stati talmente intensi e decisivi dal determinare trasformazioni permanenti sui luoghi, sulle istituzioni e sulle civiltà che vi sono restati coinvolti. Così è accaduto, rispetto alla campagna militare di Annibale, per gli effetti a lungo termine che essa ha determinato sul meridione d’Italia, sulla politica interna e internazionale di Roma, e sugli equilibri socio-economici del Mediterraneo. Si può proprio dire che, di fronte ad Annibale, ci sono stati un prima e un dopo, e che questo è più che un buon incentivo a navigare nei due grossi tomi della ricerca che vi aveva dedicato Toynbee, uno degli storici più intelligenti del Novecento (e del quale attualmente, in tempi di concitato interesse geopolitico, andrebbe letto tutto, o quantomeno l’illuminante Il mondo e l’Occidente). Ecco, le pagine di Brizzi sono come scatole cinesi, per questo meritano di essere frequentate.

Annibale secondo Alessandro Barbero

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