In un futuro tecnologicamente avanzatissimo il globo terrestre è sottoposto al dominio di due grandi Blocchi, uno a Occidente e uno a Oriente, separati da un alto Muro magnetico. Le ragioni della divisione sono lontane nel tempo, nessuno se ne ricorda più. Tanto che le due partizioni – simboleggiate da un Triangolo e da un Quadrato – paiono dominate entrambe da un unico linguaggio di matrice scientifica, che misura costantemente i potenziali individuali e collettivi. Ormai sembra tutto regolato e risolto, anche se esiste ancora la questione meridionale, perché c’è una parte della popolazione – i “terroni” – che, con la sua atavica indolenza, male si è adattata al nuovo sistema e risulta del tutto disfunzionale. Si decide, allora, di sciogliere il nodo definitivamente, trasferendo quelle genti in un altro pianeta. Il romanzo racconta la storia avventurosa dell’astronave Speranza n. 5, che – sotto la guida del Capitano Don Francesco (Ciccio) Torchiaro – parte dallo scivolo spaziale di Vibo Valentia per condurre su Saturno gli ultimissimi “terroni”, ossia 1347 calabresi, con masserizie e animali annessi. Il lettore assiste a surreali e comiche vicende, tra cui un complotto, una storia d’amore, un singolare volo attorno al mondo, che nel frattempo, però, vive una drammatica conflagrazione, al termine della quale i meridionali, casualmente scampati, finiscono per rappresentare l’inizio inatteso di un’umanità nuova.
La “fantarca” del titolo è la Speranza n. 5: arca, perché, come quella biblica, raccoglie uomini e bestie, anche se, in questo caso, della sola Calabria (con pochissime eccezioni); fanta, perché il battello è degno di Star Trek e l’ambientazione è espressamente fantascientifica, ma pure fantastica, visto che il profilo futuristico è mescolato all’invenzione più pura, e ad un senso spiccato per l’ironia e la satira. L’intrinseca forza immaginifica della narrazione ha fatto sì che del libro, pubblicato nel 1965, è stata realizzata per la Rai, l’anno dopo, anche una riduzione televisiva, nelle forme di un piccolo spettacolo musicale in un unico atto. Ha sicuramente ragione Diego De Silva – che della presente edizione ha scritto la prefazione – quando sottolinea che La fantarca non è un’operetta morale. È quasi un divertimento, una distopia ibrida, concepita per mescolare paure, tensioni e orizzonti allora attuali (la guerra fredda, lo spettro del conflitto nucleare, la corsa per lo spazio) con la caratteristica vena antimoderna dell’Autore. Nonostante ciò, rimane lettura fresca e godibile, che sa sprigionare suggestioni tuttora pertinenti, e forse insospettate, specie per quanto concerne la critica alla fiducia nelle possibilità apparentemente pacificanti del progresso e la spontanea simpatia per la semplicità popolare (invero fin troppo idealizzata). L’elemento che, forse, oggi più sorprende è l’attacco alla tecnocrazia, con la consapevolezza – in Berto molto radicata – sulle inquietanti ed esiziali conseguenze del rapporto tra produzione, governo dei numeri e asservimento definitivo di qualsiasi spazio di libertà individuale come collettiva.