Dopo una serie di dieci fortunatissimi romanzi, seguiti da un periodo di silenzio, a sua volta intervallato dalla composizione di altri due cicli narrativi (uno sulla mafia italoamericana e uno sulle origini del socialismo italiano), Valerio Evangelisti rimette le vesti del suo più noto e apprezzato eroe: Nicolas Eymerich da Gerona, padre domenicano e spietato e sottilissimo inquisitore; un personaggio realmente esistito e operante nella seconda metà del Trecento, autore di quel monumentale Directorium inquisitorum, manuale teorico-pratico per i procedimenti contro gli eretici, che si pone anche alle origini del diritto del processo inquisitorio canonico. Le ultime due puntate della saga – che aveva debuttato nel 1994 ed è collocata in pieno Medioevo, pur essendo raccontata con intermezzi distopici e fantascientifici, che spesso interagiscono in modo essenziale con la trama della storia principale – sono Eymerich risorge (2017) e Il fantasma di Eymerich (2018). Questo secondo titolo ufficializza a tutti gli effetti l’avvio di un nuovo ciclo.

Nel primo romanzo (ambientato nel 1374) Eymerich è alle prese con un movimento eretico apparentemente indecifrabile, su espresso mandato di Papa Gregorio XI. Succedono cose strane tra la Provenza e il Piemonte: incendi improvvisi e apparizioni misteriose, di luci ma anche di uomini; su tutti, di Francesc Roma, francescano di rango e potente e astuto consigliere di Pietro d’Aragona, antico avversario di Eymerich. Non c’è nulla di meglio, dunque, per stimolare la determinazione del dotto e terribile inquisitore, che con l’aiuto dei suoi più fidati compagni – padre Jacinto Corona, il notaio De Berjavel e mastro Gombau – si lancia alla caccia di un culto enigmatico. Sembra che il mistero si celi tra le montagne, e che sia difeso dalle comunità valdesi. Ma si tratta di qualcosa di molto più profondo e temibile, tanto che Eymerich, oltre a doversi confrontare con campioni della più varia umanità, affronta pure la morte, ritrovandosi improvvisamente, e inspiegabilmente, risorto. Anche in questo caso la verità è nascosta nelle pieghe di un lontano futuro, in cui le ricerche sorprendenti del dottor Marcus Frullifer spiegano quali siano le oscure forze che nell’universo agiscono, e che si manifestano anche attraverso l’operato ultratemporale di un lontanissimo e potentissimo magister, assiso sulla Luna.

Nel secondo romanzo (che colloca la storia tra il 1377 e il 1378) l’inquisitore, liberatosi dalla prigionia cui lo aveva costretto un suo acerrimo nemico, fugge dalla penisola iberica per dirigersi via mare a Roma, dove conferisce con il pontefice. Gregorio XI, infatti, ha spostato la sede del Papato da Avignone all’antica ma degradata capitale dell’Impero. Sta morendo e confida a Eymerich che il sottosuolo della città eterna nasconde luoghi e riti pagani e minacciosi. L’indomito domenicano prende la palla al balzo e, districandosi tra volgari caporioni, prelati-guerrieri e sante in estasi, comincia ad indagare. Nel frattempo, attorno a lui, succede di tutto: viene eletto un nuovo Papa, Urbano VI, gradito al volgo romano, ma la sua lotta contro la simonia si fa quasi eccessiva, tanto da coalizzare per l’elezione di un nuovo pontefice la maggioranza dello stesso clero che lo aveva scelto. Si va incontro, così, all’intronizzazione di Clemente VII e al grande e grave scisma d’Occidente, mentre Eymerich non guarda in faccia a nessuno e sfida e sconfigge la setta che vuole reintrodurre il culto di Mitra. In questa lotta non è solo, non tanto perché a seguirlo c’è sempre padre Corona, ma anche perché c’è il suo alter ego, il magister venuto dal futuro, a metterlo sulla strada giusta. Anche questa volta gli oscuri segreti di queste comunicazioni intertemporali si intrecciano con le eccentriche avventure del dottor Frullifer.

Che cosa c’è, di imperdibile, nell’epopea Eymerich? Intanto c’è Eymerich stesso, uomo machiavellico ante litteram: implacabile contro chi ritenga colpevole di eresia e crudele, all’occorrenza, ma sempre aggrappato alla logica come arma invincibile, e capace di una graffiante ironia. È il paradigma di ciò che si definisce un personaggio a tutto tondo: icona di un Medioevo medievalissimo, truce e a tinte forti e nette; massimo esempio della razionalità del suo tempo e di ciò che di quel patrimonio culturale è transitato fino a noi. Chi non vorrebbe essere saldo e forte come Eymerich? Un altro tratto speciale dei cicli creati da Evangelisti è la sintesi più che riuscita tra romanzo storico, thriller e fantascienza: una ricetta nella quale l’ultimo, e apparentemente eccentrico, ingrediente è dosato quanto basta. Non è funzionale, infatti, alla creazione di una sovrapposizione di generi; non è, cioè, un espediente narrativo. È il medium di una visione totalizzante della letteratura, nel senso dell’idea di universo che si vuole raccontare, ma specialmente nel senso della dimostrazione che è possibile, con la letteratura, e vale a dire a partire dalla sua dimensione, cambiare la realtà storica. Innanzitutto quella presente.

Un’intervista all’Autore

Un’analisi linguistico-stilistica su Eymerich

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Un viaggio o forse un sogno (da labalenabianca.com)

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L’Autore di questo libro è il nipote di Ernest Hemingway. Quando il grande scrittore si è suicidato, John era nato soltanto da un anno: il nonno non lo aveva proprio conosciuto. Le sue memorie sono concentrate sul rapporto con suo padre, Greg, il secondogenito di Ernest. Ma la storia con Greg, se da un lato offre l’opportunità di mettere ordine in una galassia familiare assai complessa e conflittuale, dall’altro aiuta John a riconciliarsi con la figura di un padre eccentrico e bipolare, e proprio per questo di un Hemingway a tutti gli effetti. Non si tratta, evidentemente, del prototipo mitico del grande macho, del grande cacciatore, del grande eroe. Questa è la rivelazione de Una strana tribù. Perché Greg, che scrittore di fama non è stato (voleva fare semplicemente il medico), aveva pulsioni che in forma minore animavano anche Ernest. Attraversava, infatti, ricorrenti fasi depressive e maniacali; si travestiva da donna e aveva anche affrontato l’iter ormonale e chirurgico per cambiare il proprio sesso. I due, peraltro, Ernest e Greg, padre e figlio, avevano una relazione tormentata, di mutuo riconoscimento come di assoluta distanza: i loro carteggi ne sono la testimonianza più forte. È per questo che John ha cercato di approfondirla, dal momento che, ad un certo punto, anch’egli ha avuto modo di rompere con suo padre. Seguiamo, così, i tanti spostamenti e le tante peregrinazioni di Greg, come di John, tra la Florida, la California, il Montana… Ne viviamo i momenti di crisi, i fallimenti, i ricordi più teneri, le avventure quasi surreali. Saggiamo anche il significato che l’Africa ha sempre avuto nell’immaginario degli Hemingway. Soprattutto, sperimentiamo il percorso autocosciente di John, al quale forse, proprio come accadde al nonno, l’Italia ha donato la chance di dare una svolta alla propria esistenza.

Un’immediata osservazione riguarda un dettaglio che balza subito agli occhi e che, già da solo, suscita un po’ di commozione: un memoir sugli Hemingway non poteva che pubblicarlo un editore che porta il nome del famoso pesce (il marlin) de Il vecchio e il mare. È un libro, dunque, che, superficialmente, potrebbe dare l’idea di assecondare una certa tradizione, un certo stereotipo. E invece non è così. I ricordi e le ricostruzioni di John rivelano un’altra faccia della medaglia, una dimensione diversa e inattesa dell’essere Hemingway. O forse, a pensarci bene, un’immagine profondamente normale, fragile e umana, e per lo più inaspettata, come può essere quella di tante altre persone nel contesto di una famiglia come tante altre. Al di là di ciò, il libro stimola anche altre riflessioni. La prima origina da un rilievo tangenziale, proposto dall’Autore nel momento in cui afferma risolutamente che “Greg aveva molte cose in comune con la scrittura di suo padre e con il suo mito personale”. Secondo John, infatti, la consapevolezza sul problema del travestitismo consente di interpretare l’opera di Ernest in maniera innovativa, nella prospettiva, cioè, di una visione sovversiva del mondo e dell’immaginario americani; una visione di “critica sociale”, in cui la parte migliore di ciascuno emerge dalla sconfitta, non dal successo. È questo l’Hemingway che ti sorprende, il suo autentico profilo epico. La seconda riflessione si risolve in una domanda: a che cosa serve un memoir? E poi: perché leggerlo? Perché scriverlo? Tuffarsi nel passato aiuta a trovarsi, e a consolidarsi. La lezione vale per chi ne rende testimonianza diretta, come ci ha insegnato Proust, e come dimostra anche John. Ma vale anche per chi, da comune lettore, si addentri nelle vite altrui e, ciò facendo, scopra l’importanza di indagare un po’ più a fondo la propria. Quello di John è un libro coraggioso, onesto e, nella sua intimità, quasi toccante, che avrebbe sicuramente meritato un pubblico più ampio di quello che la sua collocazione editoriale gli ha potuto finora garantire.

Il volume a Un libro tira l’altro (radio24)

Il Museo Hemingway

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Il fantasma di Eymerich (da ilprimoamore.com)

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Uno storico racconta giovinezza, ascesa e peripezie di Marino Massimo De Caro, meglio noto come il “mostro dei Girolamini”: il parvenu nominato nel 2011 al ruolo di direttore della famosa e ricchissima biblioteca napoletana (che fu di Vico) dall’allora Ministro per i beni e le attività culturali; e colui che (come si è scoperto un anno più tardi) l’ha saccheggiata in lungo e in largo. Autentico parvenu, a dire il vero, De Caro non è. Proviene da una famiglia impegnata ed è stato egli stesso politicamente attivo, come portaborse di un senatore e come consigliere comunale. Al momento dello scandalo, poi, e giunto appena alla soglia dei quarant’anni, aveva già flirtato con i vertici, più o meno nobili, della sinistra e della destra, ed era anche entrato nelle grazie di un potente e discusso magnate dell’energia. A suo dire, addirittura, si è fatto complice efficiente degli intrighi più sottili e discussi degli apparati nazionali, russi e persino vaticani. In realtà, De Caro ha soprattutto dimostrato una precoce e tenace attrazione per il traffico illecito e la contraffazione di libri antichi: dalle prime esperienze adolescenziali alla successiva e inarrestabile escalation. È stato socio di una equivoca libreria basata tra Buenos Aires e Verona, ed è stato anche snodo iperattivo di una fortunata fabrica di falsi d’autore. In primis, di una portentosa quanto unica edizione del Sidereus Nuncius di Galileo, che per un po’ di tempo ha ingannato autorevoli studiosi. Quella galileiana, in effetti, è la passione che ha animato larga parte delle scorrerie di De Caro, impegnato sin dal tempo del servizio militare a trafugare esemplari autentici e rarissimi dalle collezioni pubbliche più prestigiose, e apparentemente inavvicinabili, dell’intero Stivale. È stato questo commercio, del resto, ad avviarlo verso una rete sempre più fitta di liaisons dangereuses. Ad un certo punto, comunque, con le vicende dei Gerolamini, i nodi sono venuti al pettine. Max Fox (il nickname Skype che lo stesso De Caro si è dato, e con cui ha lungamente comunicato con l’Autore) è stato presto risucchiato con tutto il suo pittoresco entourage in un vortice di plurime vicende giudiziarie, di fronte alle quali l’apparente e sopravvenuta resipiscenza e le lauree conseguite durante la detenzione a nulla sembrano servite.

Il libro si è subito trovato al centro di un vivace dibattito, nel quale un po’ di firme illustri si sono divise. In particolare, c’è chi ha accusato Luzzatto di essere stato troppo indulgente con il “mostro”, di averlo sostanzialmente assecondato e, indirettamente, capito. Qualcuno potrebbe anche aggiungere che, in questo caso, lo storico professionista è stato meno storico di quanto avrebbe potuto o dovuto: molto concentrato, più che su De Caro, sul suo rapporto, apertamente problematico e quasi personale, con il soggetto della ricerca; e assai sbilanciato, quanto alle fonti, sull’unilaterale rappresentazione del conclamato colpevole. Tuttavia c’è anche da dire che Luzzatto non ha neppure concepito un libro di storia (lo scrive testualmente: “quello che ho voluto scrivere è un non-libro-di-storia”, p. 249). Si è posto deliberatamente nella mente del suo impostore, accettando i rischi del “ricatto del testimone” (p. 279): ha fatto, cioè, uno sforzo di immedesimazione, in cui le lunghe interviste a De Caro non sono servite, né dovevano servire, a fare verità o giustizia. Lo scopo era quello di comprendere le ragioni e la cornice di una evidente deriva esistenziale, rappresentando (come in una “Cronaca del XXI secolo”: p. 265) la fitta rete di ulteriori, e non meno esiziali, interessenze, che ne hanno esaltato la traiettoria deviante. È su questo magma inquietante che lo storico punta il dito, perché permette di tracciare un quadro concreto – e a dir poco disperante – di alcuni ambienti: dalle spregiudicatezze del mercato del libro antico al sottobosco della politica, dalle ingenuità dell’accademia alle strategie della grande impresa. Nonostante l’accostamento con il Jean Valjean di Victor Hugo, davvero ardito (pur se andrebbe compreso anche questo, nel contesto della critica sociale che Luzzatto vuole stimolare), dal romanzo, in verità, De Caro non ne esce bene. Anzi, l’immagine che ne viene restituita è quella di un faccendiere incallito e quasi incosciente, di un anti-eroe per eccellenza: un modello dell’italianità più viziata e irrimediabile, per certi versi, ma anche un simbolo paradossale di anti-italianità, nel suo farsi egoistico e pervicace predone del patrimonio culturale, tesoro repubblicano per eccellenza. Comunque sia, alla fine della lettura, la condanna più forte sorge spontanea, e non può che essere il giudizio sconsolato di chiunque osservi il modo con cui un uomo ha deciso ripetutamente e invariabilmente di sciupare la sua vita.

Recensione (di Claudio Bartocci)

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In Praise of Public Libraries (da nybooks.com)

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