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A Montaigne si può arrivare in molti modi e quello più semplice – la lettura diretta dei Saggi – è sempre il migliore. Ciononostante è anche l’approccio che esige una dedizione continua; e che presuppone anche la capacità di navigare in mari particolarmente quieti, come sono gli oceani più grandi, profondi e mai totalmente esplorati. Pare semplice Montaigne, ma non lo è del tutto. Vengono in soccorso, così, bussole di varia fattura, come quella, godibilissima, di Compagnon, tanto apprezzata dai lettori di quest’ultima estate. O come quella, ben più vecchia, di Gide, che si è limitato a selezionare il suo Montaigne, senza apparato alcuno, proponendone in modo dichiaratamente personale, e quindi assai calzante, i passaggi ritenuti più illuminanti: poiché si tratta di un classico, che non è di nessuno ed è di tutti alla stessa misura. Va detto che, forse, la migliore introduzione organizzata ai pensieri singolari di questo nobiluomo francese del XVI secolo l’ha fornita di recente Sarah Bakewell: chi vuole essere bene informato, può rivolgersi alla sua ottima biografia. Chi, viceversa, vuole ascoltare semplicemente un racconto lento e pacato, può dedicarsi al libro di Ugo Cornia, che dei Saggi prova a immaginare un percorso esplicativo, un po’ ragionato e un po’ diacronico. È lineare e facile quasi come lo paiono le riflessioni di Montaigne, e in ciò consiste la sua virtù.

La prima parte del testo cerca di individuare quale sia la molla dei pensieri e delle divagazioni di Montaigne e la trova, acutamente, in una specie di sereno fatalismo, che tuttavia non si accompagna alla deferenza nei confronti delle abitudini, delle convinzioni e delle credenze degli uomini. Tutt’altro. Montaigne, infatti, si abbevera ad una smaliziata curiosità per tutto ciò che è natura, e in primis per quella cosa naturalissima e normalissima, eppure terribile, che è la morte: “La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione. Non c’è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione della vita non è un male”. Della morte, e della paura della morte, Montaigne ha fatto sempre esperienza diretta: in occasione della scomparsa del padre e dell’amico Étienne de La Boétie; a causa delle tante guerre fratricide che hanno dilaniato la Francia; per la sofferenza che a lungo ha dovuto patire a causa del “mal della pietra”, che lo ha tormentato fino alla fin dei suoi giorni e anche durante il lungo viaggio in Italia, che Cornia ricostruisce, nella seconda parte, proprio in questa chiave. Ma della morte Montaigne ha accettato la sfida anche quando ha rischiato di essere ucciso dai suoi nemici: lo ha salvato, nuovamente, la sua pacifica accettazione degli eventi, che si traduce soprattutto in una fiducia estrema, e disarmante, nei confronti degli altri. È questa, quindi, l’eccessiva socievolezza del titolo, la disposizione d’animo in cui Cornia vede il tratto distintivo di Montaigne e del suo messaggio; che ci invita ancora a guardarci intorno, a vivere, semplicemente, e a cogliere tutto ciò che di positivo e piacevole è nascosto nelle cose più comuni.

Montaigne in una “pillola”

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