Doralice Migliar – una sua foto è in copertina – era la nonna di Andrea De Carlo. Veniva dal Cile e faceva parte di una eccentrica e talentuosa famiglia di commercianti e artisti, che però aveva origini astigiane. A lungo lo scrittore ha pensato che Dora fosse morta quando suo padre Giancarlo – destinato a diventare architetto di fama internazionale – era ancora bambino, prima, cioè, del suo trasferimento a Tunisi, a casa del bisnonno Vincenzo. Poi un giorno ha scoperto che le cose sono andate diversamente e che Dora e nonno Carlo si erano improvvisamente allontanati. Che cosa è successo? Perché la sua famiglia ha sempre cercato di rimuovere l’accaduto? Tra poche foto, qualche fortunata lettura e una strana conversazione con l’anzianissima zia Velda e il cugino Jean-Paul, Andrea rievoca in pochi tratti il tono e i colori di un’intera epoca storica e dell’epopea avventurosa delle migrazioni italiane all’estero, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel contempo, prova a ricostruire il mosaico genealogico, al quale, tuttavia, mancano fin troppe tessere per poter assumere una fisionomia riconoscibile e sensata. Non gli resta, sulla base di alcuni indizi, che concludere che la rottura tra Dora e Carlo sia da attribuire a un fatto violento, e che da quel loro incontro, come dalla successiva separazione, siano sortite, per suo padre e per sé stesso, conseguenze esistenziali sottili ma decisive.

Titolo giusto, suggestivo; scrittura facile, leggera, che non stanca; e un’intuizione importante, potenzialmente profonda: ecco quanto basta ad Andrea De Carlo per costruire un libro. È un modello di cui La geografia del danno rappresenta l’ultima espressione. Ed è quasi un manifesto, una sintetica dichiarazione di poetica. Con la peculiarità che, questa volta, l’Autore racconta dei suoi nonni, alla ricerca di una sorta di spiegazione lontana per il proprio carattere e, forse, per tutta la propria vita. Il che è pienamente coerente con il tema alto dell’opera, enunciato espressamente a p. 123: “una delle ragioni per cui ho cominciato a scrivere questa storia è il desiderio di capire come un danno possa ripercuotersi attraverso le generazioni, e come gli interessati non ne siano consapevoli, fino a che non provano a ricostruire cosa sia successo davvero a chi li ha preceduti”. Il perno è questo: è essenziale, per ciascuno, scavare nelle origini, per scoprire se, e per quale motivo, esista davvero (lo ricorda pure l’Autore, ancora a p. 123) una magnetica coazione a ripetere, non solo nell’ambito della propria esperienza individuale. Cose terribilmente serie, quindi. Cose da Thomas Bernhard, per intenderci. Dopodiché, come sempre, e – lo si è già detto – come da modello, in De Carlo la fluidità e la pulizia del linguaggio e della trama fanno puntualmente premio sull’approfondimento e sulla complessità.

Condividi:
 

Su DF, piccolo comune rivierasco che possiamo pensare collocato nel sud del nostro paese, si abbatte improvvisamente un fenomeno straordinario: dapprima in singole, poche unità, poi a vere e proprie ondate, migliaia di cadaveri, tutti uguali, invadono e sommergono ripetutamente il litorale e la città intera. Il romanzo racconta, con le voci dirette degli abitanti, che cosa accade a DF, e in particolare come reagisce la comunità, dal più umile pescatore al sindaco. Da questo punto di vista, la distopia messa in scena da Giulio Cavalli è tanto orribile quanto fin troppo prevedibile. Al cospetto dell’oscura minaccia, che rimane sempre costante, si attiva il più scontato ed esiziale bisogno di rimozione, con tutto ciò che ne consegue: il ripiegarsi di ciascuno, e del paese intero, su se stesso; la coltivazione di un impossibile sogno sovrano; la costruzione di una barriera sul mare; lo stoccaggio dei corpi in appositi magazzini e la loro successiva lavorazione a fini industriali; la censura di qualsiasi ricostruzione critica; l’eliminazione delle figure più scomode… Anche il finale, ai limiti dell’horror, non è nulla di nuovo: basta rivedere Alien3 (uno dei meno riusciti di quella serie, tra l’altro…) per afferrarne il senso profondo. Il valore aggiunto di questo romanzo, dunque, non è nel suo lato distopico; né, pertanto, nella feroce rappresentazione, a quel lato chiaramente sottesa, di quali siano le mostruosità che si possono intravedere nel modo con cui ci si rapporta alle grandi questioni delle migrazioni e del loro impatto. Carnaio è un libro da leggere soprattutto per tre ragioni: 1) perché è una sorta di originale e fedelissima Antologia di Spoon River del più tipico provincialismo italiano, con una carrellata di personaggi memorabili, campioni assoluti di una umanità che sa essere grande solo nella mediocrità e nella solitudine della sua ambizione; 2) perché grazie a questo bestiario Cavalli suggerisce efficacemente che alcune classiche dinamiche di abbrutimento sociale e di ulteriore e drammatico arretramento istituzionale non poggiano su mali facilmente identificabili, ma dimorano in paure ed egoismi elementari, tanto banali quanto sottovalutati o mal sorvegliati o, peggio ancora, assecondati con convinzione perché ritenuti naturali, se non sacrosanti; 3) perché, infine, lo stile segue rigorosamente e coerentemente il contenuto, per il tramite di una scrittura a briglia sciolta, che sembra sgorgare liberamente dalla mente e dal cuore dei vari protagonisti, con un risultato di disperante verosimiglianza. È il sempiterno, insuperabile e mortificante paesone nazionale a portare nel suo ventre inclinazioni terribili: a questo vuole arrivare Cavalli, e ci arriva fino in fondo.

L’Autore a Fahrenheit

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha