fotoNon è stato male aver letto questo libro durante la fase finale del Mondiale brasiliano. Checché se ne dica – che si sia, cioè, pro o contro Messi, o che si sia delusi per il fallimento della spedizione italiana, o, ancora, che si sia soddisfatti per aver visto trionfare la squadra meglio organizzata o per aver visto emergere del bel gioco in formazioni di piccolo-medio cabotaggio – l’unica cosa che può mettere d’accordo tutti è che si è trattato del mondiale dei portieri. E quindi del tedesco Neuer, dell’argentino Romero, del messicano Ochoa, del costaricano Navas… Ma chi è veramente il portiere? La prefazione di Sandro Veronesi introduce il tema con un taglio quasi metafisico, evocando l’immagine leonardesca dell’Uomo Vitruviano, destinato, però, tra i pali di un rettagolo, a tentare un’impossibile quadratura. Bagattini, effettivamente, inanella con voce appassionata una serie ricchissima di ritratti, a dimostrare che la missione di chi sta in porta è spesso drammatica, sui campi di gioco come nella vita. E qui le storie sono tutte da non perdere, anche perché la decisione di ordinarle cronologicamente produce, come per incanto, un godibile spaccato su tutta l’evoluzione del football, dai tempi eroici delle origini inglesi all’inizio degli anni Zero.

In alcuni casi si rivivono esperienze quasi romantiche (come per Ezio Sclavi o Aldo Olivieri), in altri ci si commuove di fronte al mix di sfortuna e integrità morale (come per Claudio Tamburrini o, mutatis mutandis, per Astutillo Malgioglio), in altri ancora si sfiora il comico (come per Bernard Lama). Poi ci sono vicende dolorose e misteriose (come quella di Giuliano Giuliani), tragiche (su tutte quella di Valerio Bacigalupo), sfortunatissime e dannate (è la parabola di Moacir Barbosa), impreviste e “guascone” (fino alla fine, come per Jan Jongbloed), talentuose e maledette (Pagotto docet). La galleria è vivacissima e sorpendente. Bagattini ha compiuto una piccola impresa. Sarebbe stato troppo facile narrare delle gesta dei grandi vincenti: da Combi a Gigi Buffon, da Yashin a Schumacher, da Zamora a Schmeichel, da Zoff a Julio Cesar. Il giovane scrittore preferisce sedere allo stesso tavolo di Willie Foulke, il “ciccione” del Chelsea, o giocare in qualche bocciodromo emiliano con Cláudio Taffarel. Gli interessa la vita, berla dalla passione di chi se l’è bevuta tutta, letteralmente, andando fino in fondo, senza mezzi termini. C’è qualche refuso, ogni tanto, qualche ripetizione; non mancano alcune ridondanze. Quando si parla di calcio, certo, lo si può fare in punta di penna; ma piace immaginare che le vicissitudini dei tanti “eroi di sventura” di Bagattini siano state discusse e abbozzate nel rumore, e sui tavoli zoppicanti, di un bar di paese. Perché il calcio ha un’immensa anima popolare, ed è lì che riposano i suoi miti e i suoi segreti.

A proposito di Mondiali… un’altra lettura piacevole: M. Bonfiglio, La sindrome di Italia ’90. Il Mondiale che ha bruciato una generazione

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Nel bel mezzo dei mondiali non è semplice evitare di parlare di calcio, e in effetti l’Autrice di questa agile raccolta di saggi non ci chiede di metterci alla prova in un così grande sforzo. Semmai l’invito è a cogliere nello sport del pallone, così come in tutta la fenomenologia che esprime e che gli fa da contorno, un efficace criterio di lettura di molte tendenze socio-culturali. La proposta è formulata in modo interessante e il tenore di alcune suggestioni – talvolta ricercate – non travolge la freschezza dei ricordi e delle immagini familiari di una tifosa sinceramente appassionata, che cerca e suscita empatia sin dalle prime righe. Si parte proprio da qui, dalla rievocazione dei piccoli sedili di polistirolo che papà Serafini preparava ai due fratelli e al loro cugino per il pomeriggio domenicale sui gradoni della curva romanista. Allo stesso modo, poi, qui si finisce: con la confessione, sempre emozionata, che l’unica cosa “che resta uguale alla prima volta” è “entrare all’Olimpico”. Tuttavia, nel mezzo, si avanza con decisione un raffronto ficcante tra gli impossibili equilibri del calcio – che è fatto di schemi fissi e di guizzi imprevisti e risolutivi – e i segreti dei format televisivi e dei successi cinematografici (in fondo il calcio è un palinsesto, no?). Ci si avventura, pagina dopo pagina, anche nelle strategie della comunicazione pubblica, e politica in particolare, laddove i riferimenti al calcio possono essere spia di un determinato assetto nei rapporti di genere e, più in generale, di un modo ricorrente di pensare in maniera risolutamente indifferenziata ad una certa identità collettiva. Pure il discorso sulla fede incondizionata per una squadra può illuminare itinerari critici: non è forse vero che oggi si possono vedere tifosi anche fuori dagli spalti, e così tra gli elettori, gli spettatori, i lettori…? Che cosa significa, socialmente e antropologicamente, questa forte istanza di personalizzazione? Dov’è andata l’Italia in questi ultimi trent’anni? Non si parla di calcio, dunque; o, meglio, se ne parla per la semplice ragione che in società non se ne può prescindere. Come ricordava Pasolini, il calcio “è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” e, come sottolinea l’Autrice, “i campionati ricominciano sempre (…) almeno fino a quando saremo in grado di preservare il giocattolo”.

È un bel volume, con tanti pregi: la buona scrittura; la sincerità espositiva; l’andatura studiatamente rabdomante, e quindi gradevolmente affabulatoria, dell’argomentazione; i moltissimi riferimenti colti, impreziositi da un’appendice bibliografica altrettanto ricca che propone un verosimile e appagante prolungamento di lettura; la struttura ricorsiva del discorso complessivo. Quest’ultimo carattere è quello più curioso, poiché denota la tensione, diffusa in tutto il testo, per la realizzazione di una perfetta coincidenza tra la forma dell’esposizione e il significato che si vuole veicolare. C’è dell’hegeliano in tutto ciò, e le modalità con cui si presenta il thema, già nel secondo capitolo, lo confermano: la magia di un gioco che è sempre vivo perché si alimenta di contrasti apparentemente inconciliabili non è altro che una bellissima variazione della dialettica tesi-antitesi-sintesi, intesa come logica, naturale e irrinunciabile invariante. Anche i grandi campioni sono implicitamente inquadrati con la lente con cui Hegel guardava Napoleone a cavallo per le strade di Jena nell’ottobre del 1806: pure e tangibili manifestazioni dell’anima del mondo. In questo testo non si parla di calcio, è proprio vero: perché si riflette sull’utilità di uno specifico modo di guardare alla realtà, sul valore che questa prospettiva epistemologica porta con sé e sull’incoscienza quasi colpevole che si può naturalmente produrre allorché si dimentichi la forza esplicativa e riflessiva dell’analisi a favore di soluzioni apparentemente più (e troppo) facili e convincenti. Al termine del libro mi sono ricordato di una bella citazione di Sciascia (da La strega e il capitano), riportata all’inizio di un altro volume, letto recentemente e con pari soddisfazione: “Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Se fatto in questo modo, anche scrivere e leggere di calcio può risultare particolarmente accattivante.

Un’intervista all’Autrice

Letteratura e calcio (di Francesca Serafini)

Calcio, la più bella metafora del mondo (di Silverio Novelli)

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Il Brujo è un vecchio zoppo, che oltre tutto è privo di un occhio e vive da barbone, in una foresta del profondo Ecuador, riverito e temuto come uno stregone. Il giovane Sauro, italiano ex turista alla deriva, vivacchia in un villaggio lì nei pressi e si mantiene scrivendo per la tv locale i sottotitoli di vecchi programmi trash del suo Bel Paese. I due interagiscono quasi per caso, e il primo racconta presto la sua vita al secondo, e alla sua strana ed improvvisa compagna d’ascolto, l’eccentrica e disinibita Martina. Così il Brujo, alias Prudencio Picassent, alias Nesto Bordesante, antico fenomeno del calcio uruguagio, svela al suo uditorio gli episodi salienti, i segreti dolorosi e le tante peripezie di una esistenza passata tra la pampa e i campi da calcio, ma anche tra vizi e successi che negli anni Trenta solo un talento cristallino e un forte profilo guascone potevano dischiudere ad un orfano, in Sudamerica come nell’Italia fascista. Il resto è lo svolgimento scanzonato di un racconto che attraversa il secondo conflitto mondiale e che si interrompe sul più bello nel modo più naturale e spontaneo, come se si trattasse di una vicenda normale e vera.

La verità, però, spunta solo sullo scenario storico e geografico che fa da contorno alla trama, perché il Brujo,  il protagonista con cui interagisce Sauro, alter ego dell’Autore, è pura invenzione, come lo sono le identità dietro le quali ha vissuto tutte le sue avventure. Il bello di questo esordio – che ha vinto il Premio “Parole nel Vento” 2013 – sta tutto qui: la voce della fantasia è lasciata libera di scorrere, senza infingimenti e senza gabbie, e con un risultato finale di sincero appagamento, che tale dev’essere stato anche per lo scrittore. Non è un romanzo “alla Soriano”, non ci sono lezioni o morali da assumere o da contemplare, se non quelle elementari che soltanto i puri e semplici accadimenti possono insegnare. Se dovessimo tentare un raffronto, allora oseremmo evocare un felice disimpegno made in Salgari, augurandoci la stessa prolifica continuità. Anche se tempi e intrecci sono assai diversi, ed anche se Marelli dimostra una spiccata sete d’ironia, che quasi lo porta, al termine del romanzo, a fare il verso a se stesso. Per ora, ad ogni modo, c’è senso del ritmo, della fabula e del suo intrinseco incanto: e tanto basta a riconoscere i segni di una credibilità letteraria a tutto tondo.

Recensioni (di Nicola Fiorita e di Antonio D’Orrico)

Un’intervista all’Autore

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Originale e accattivante: sono questi i due pregi del romanzo di Ballestracci, che per qualche strana combinazione di intuizioni e di emozioni – non ultime quelle che suscita la foto in copertina, di Enrico Pandiani, altro “asso” di Instar Libri – non può che ricordare il bellissimo Tutto il ferro della torre Eiffel di Michele Mari; ciò, almeno, al lettore che si scopra meno incline alle mode del momento. Personaggi reali e spezzoni di storia e di vite effettivamente vissute si mescolano a trame variamente inventate, in intrecci e coincidenze sorprendenti quanto intelligenti.

Questa volta, però, i protagonisti non sono Bloch, Benjamin o Céline, e non agiscono soltanto nello spazio di una città “magica”. In questo caso, al centro di una scena che trascorre dall’Europa del 1938 all’Argentina degli anni Settanta e Ottanta si muovono indimenticati campioni sportivi, degli scacchi, del calcio, del ciclismo e del pugilato: da un mitico Gino Bartali a Ezi Willimoski, prolifica punta delle nazionali polacca e tedesca; da Matthias Sindelar, grande attaccante dell’Austria Vienna degli anni Trenta, al giovanissimo Diego Armando Maradona; da Carlos Monzón, uno dei più forti pesi medi della boxe, a Rodrigo Valdéz, suo tenace rivale. Le loro imprese fanno da sfondo e da contrappunto ad altre piccole e grandi vicende di valore e di resistenza, che sono, al contempo, testimonianza di amore e di passione incondizionata per lo sport, ma anche di sofferenza, di esilio e di persecuzione: a causa del dilagare del Nazismo, ma anche in ragione delle brutalità estreme dei rapimenti e delle torture messi in atto dai generali golpisti di Buenos Aires. Tra le righe, allora, compaiono e agiscono anche figure drammaticamente note e terribili: Adolf Eichmann, Martin Bormann, Klaus Barbie; così come Eduardo Acosta, Alfredo Astiz, Mario Alfredo Marcote.

Figura chiave di tutto il racconto è Casimiro Stablinski, prodotto diretto della penna, sempre curiosa, di Ballestracci. È il figlio del Leopoldo Stablinski che si incontra nelle prime pagine del libro e che si presenta, subito, come l’emblema dell’ebreo errante e, più in generale, di una porzione di umanità tragicamente predestinata a sperimentare continuativamente l’inesorabile follia della storia. Sarà proprio Casimiro, in tale destino, a fare da vittima, e la sua esperienza estrema gli consentirà la conquista di una dura consapevolezza, che, pur affascinata dalla logica della vendetta più feroce, si scioglierà nell’immaginazione di una giustizia tutta terrena e tutta incerta. In proposito, l’epilogo del romanzo è un vero capolavoro di pastiche storico-letterario, con le scene del processo Eichmann che trascolorano improvvisamente nei fotogrammi dei primi e recenti giudizi ai torturatori dei desaparecidos argentini: e qui troviamo Casimiro, che vi assiste assieme a Kaddish Poznan, felicissima incarnazione dell’omonimo protagonista de Il ministero dei casi speciali di Nathan Englander.

La storia balorda è una lettura altamente raccomandabile, non solo per il prezioso atto di memoria che l’Autore rende allo sport, alla letteratura e a tanti sconfitti del Novecento più drammatico. Il volume stupisce anche per le trovate ripetute e intense, diffuse a profusione nel corso della narrazione: la pagina su Paolo Rossi al mondiale del 1978, paragonato al coyote di Mark Twain, è semplicemente geniale; l’intermezzo su e con Osvaldo Soriano – l’autentica “musa” ispiratrice dell’Autore – è un meccanismo perfetto ed in sé compiuto; la sovrapposizione delle sfide calcistiche di Argentina ed Inghilterra con gli episodi della guerra delle Malvinas è epica pura ed azzeccata. Con Ballestracci, che è anche un quotato bluesman, basta soltanto avere un po’ di pazienza: abbandonarsi, cioè, al flusso degli eventi e delle tante e diverse epifanie del tempo che scorre. Attimi di vero piacere e momenti di profonda riflessione non solo possono coesistere; sono garantiti.

Le recensioni di Giovanni Pacchiano e di Giorgio Sbrissa

L’Autore si racconta

Il blog di Ballestracci

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Uno degli economisti italiani più noti e impegnati inaugura una nuova serie de il Mulino dedicata ad una interessante collaborazione tra questo editore e lavoce.info. Lo fa, nella specie, affrontando i mali del calcio italiano, in un’intervista che prende spunto dai tanti scandali degli ultimi anni (da Calciopoli alla recentissima vicenda, ancora pendente, delle scommesse) e che cerca di isolare i fattori che in Italia rischiano di inquinare sistematicamente, se non esaurire, le grandi risorse e le insospettabili potenzialità di questo sport.

La dimensione del libro (103 pp. in un formato più che tascabile) lo renderebbe particolarmente appetibile proprio per l’assolata giornata che sta per culminare in Italia-Spagna, attesissima finale degli Europei 2012, se non altro perché, al termine di riflessioni poco confortanti sul pianeta-calcio, c’è sempre la speranza di rinfrancarsi e di emozionarsi di fronte all’incontrollabile magia del gioco. Il fatto è, però, che la rassegna dei problemi / “vizi” analizzati da Boeri non ci rivela alcunché di particolarmente originale.

Da molto tempo, ormai, si discute, quanto al calcio italiano, della cronica incapacità di scoprire e lanciare nuovi e giovani talenti, o del patologico intreccio tra potere mediatico, disciplina dei diritti televisivi e scarsa solidità patrimoniale delle società sportive, o, ancora, del complesso reticolo che, anche nel “governo del pallone”, agevola e protegge conflitti di interessi e fenomeni più o meno macroscopici di “cattura” di quei soggetti istituzionali che, viceversa, dovrebbero essere il più indipendenti possibile. Non meno sperimentati sono i rilievi critici all’ampiezza della “forbice” che separa le grandi star dai giocatori delle serie minori. Analogamente, è da tantissimo tempo che si ragiona su quale possa essere il modo per rendere più sereni e “incorruttibili” gli esponenti della classe arbitrale, le cui aspirazioni di carriera – e di guadagno – sono sempre state il terreno di ogni possibile speculazione e di ogni relativo “scandalo” (estivo o meno). Certo, a quest’ultimo riguardo, ed anche per chi non consulta sempre l’home page di lavoce.info, il ragionamento di Boeri fornisce notizia di una bella ricerca empirica, che non può che suffragare ulteriormente le lamentazioni, spesso solo “sentimentali”, di appassionati e osservatori.

Ad ogni modo, la poca originalità del volume fa riflettere: in primo luogo, sulla circostanza che, forse, bene avrebbe fatto, lo stesso Boeri, a “non” parlare solo di calcio e, anzi, a saggiare le sue brillanti capacità analitiche proprio nella “metafora” cui dice espressamente di voler sfuggire, quella, cioè, tra i problemi del calcio italiano e i problemi del Paese; in secondo luogo, sulla questione, di ben maggiore portata, se l’apporto degli economisti ai dibattiti più cruciali e più sentiti dall’opinione pubblica debba concentrarsi, principalmente, non tanto sull’applicazione divulgativa del “metodo” che ne caratterizza l’expertise, quanto, piuttosto, sulla divulgazione “sostanziale” di dati, documenti, ricerche, studi e valutazioni che la loro scienza gli mette quotidianamente a disposizione (in altri termini: dobbiamo tutti “armarci” di una “tecnica” specifica e diventare, nel nostro piccolo, “economisti in provetta? O dobbiamo, meglio, conoscere effettivamente quali sono i risultati che lo studio dell’economia ci consegna e che ci permetterebbe di avere basi conoscitive ed istruttorie migliori per comprendere la realtà e per pensare, anche con l’aiuto di altre considerazioni, a qualche idea?). D’altra parte, i passaggi migliori di questo testo sono, guarda caso, quelli in cui si riferisce di indagini che non sono già disponibili al normale lettore delle pagine sportive dei principali giornali e che ne possono ampliare la “consapevolezza”, oppure quelli in cui si avanza qualche proposta operativa (come quella relativa ad una più netta “responsabilizzazione” dei dirigenti delle società).

Se c’è un aspetto, comunque, sul quale Boeri merita è un plauso è che ci ricorda che il calcio è una cosa maledettamente seria. Che cosa si può leggere, dunque, di serio, prima della partitissima? Ritrovo uno spunto di grande saggezza – quasi à la Montesquieu – in un classico pezzo dell’eterno Gianni Brera (Il più bel gioco del mondo, nel libro che porta lo stesso titolo e che raccoglie alcuni dei migliori articoli del grande giornalista, morto nel 1992: Milano, 2007, 409-410): “Il guaio è che il calcio è sempre maledettamente difficile da capire e da interpretare. Il fenomeno calcistico è vasto come il mondo ed esige conoscenze sportive non limitate affatto alla pedata, bensì fondate sullo studio dell’etnos, della psicologia razziale, dell’ambiente sociale ed economico. Quando un paese mezzo alpino e mezzo mediterraneo come l’Italia pretende di assumere gli usi e i costumi calcistici degli inglesi, immancabilmente si vota alla catastrofe; quando ripudia il proprio modulo ideale per adeguarsi a quello d’un popolo dalle caratteristiche quasi opposte, rivela altresì deleteria ignoranza. Questa verità critico-storica è oggi accolta da chiunque si interessi di calcio fra noi. Per giungere ad affermarla ci sono voluti quasi vent’anni, e fa molta specie ammetterlo, ma in fondo non meraviglia, perché la pigrizia mentale è sempre stata e rimane una delle più gravi jatture dell’uomo”.

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Arriva anche il tempo della perplessità… Cioè, arriva anche per un grande autore. In fondo, anche Stephen King ha vissuto stagioni difficili. Sta avvenendo la stessa cosa anche per Giorgio Faletti? Mi rendo conto che ci sono troppi “anche”… ma come resistere all’interrogativo più spontaneo: anche lui è un po’ in crisi?

Certamente Faletti non è King, questo va detto. Però è vero che Faletti, nel corso di questi ultimi anni, ha collezionato successi notevoli, raccogliendo un pubblico sempre più numeroso di aficionados. Eppure, l’ultima prova “breve” non convince. E forse è proprio la brevità, che dovrebbe invece rappresentarne l’ultima ed agognata conquista, a mettere in difficoltà un approccio narrativo finora fortunato.

Con ordine, si può dire, in primo luogo, che mentre il personaggio principale (Silvano Masoero, detto “Silver”) è interessante e convincente, meno ficcante è la trama in cui questo ex pugile corrotto si trova ad agire: la piaga del “calcio-scommesse” è troppo complessa, anche dal punto di vista sociale, per poter trovare uno specchio fedele nel racconto pedagogico di Faletti. Anzi, è proprio l’intento chiaramente pedagogico ad essere reso in modo non pienamente verosimile, poiché Il Grinta, il figlio del protagonista e l’idolo di una piccola squadra che sta per affrontare il big match per la promozione, difficilmente potrebbe rendersi autore, in una vita reale, del gesto finale che lo riabilita. Non si tratta, si badi, di una valutazione cinica o pessimistica; si tratta, viceversa, di un rilievo che si spiega nell’ambito di una riflessione sull’economia complessiva del romanzo, che presenta, già di per sé, profili poco credibili (ivi compreso lo stratagemma, in sé e per sé avvincente, di cui è autore l’“eroe” di questa storia).

In secondo luogo, poi, lo spazio delle poche pagine e del tempo assai ristretto in cui si svolge l’azione mal si addice alla tecnica che è propria del Faletti-scrittore, ossia alla “astuta” capacità di punteggiare il discorso con valutazioni / massime / considerazioni tanto suggestive quanto, a rigore, non del tutto essenziali per la riuscita della storia. È, questo, il punto di forza di un linguaggio e di un tono che hanno catturato molti lettori e che, sicuramente, costituiscono parte del “segreto” di Faletti. Vero è che il “segreto”, sulla “breve” distanza di 143 pagine, è troppo “grande” per non essere apertamente svelato e per non sembrare artificioso e sproporzionato.

Che dire ancora? Forse anche i passi falsi aiutano; anzi, è proprio il protagonista del romanzo, Silvano Masoero, ad insegnarcelo! Quindi non si può che augurare a Faletti di riconquistare il consueto passo che gli si addice.

Una recensione (invece) entusiastica di Antonio D’Orrico… a onore della par condicio!

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