Nel bel mezzo dei mondiali non è semplice evitare di parlare di calcio, e in effetti l’Autrice di questa agile raccolta di saggi non ci chiede di metterci alla prova in un così grande sforzo. Semmai l’invito è a cogliere nello sport del pallone, così come in tutta la fenomenologia che esprime e che gli fa da contorno, un efficace criterio di lettura di molte tendenze socio-culturali. La proposta è formulata in modo interessante e il tenore di alcune suggestioni – talvolta ricercate – non travolge la freschezza dei ricordi e delle immagini familiari di una tifosa sinceramente appassionata, che cerca e suscita empatia sin dalle prime righe. Si parte proprio da qui, dalla rievocazione dei piccoli sedili di polistirolo che papà Serafini preparava ai due fratelli e al loro cugino per il pomeriggio domenicale sui gradoni della curva romanista. Allo stesso modo, poi, qui si finisce: con la confessione, sempre emozionata, che l’unica cosa “che resta uguale alla prima volta” è “entrare all’Olimpico”. Tuttavia, nel mezzo, si avanza con decisione un raffronto ficcante tra gli impossibili equilibri del calcio – che è fatto di schemi fissi e di guizzi imprevisti e risolutivi – e i segreti dei format televisivi e dei successi cinematografici (in fondo il calcio è un palinsesto, no?). Ci si avventura, pagina dopo pagina, anche nelle strategie della comunicazione pubblica, e politica in particolare, laddove i riferimenti al calcio possono essere spia di un determinato assetto nei rapporti di genere e, più in generale, di un modo ricorrente di pensare in maniera risolutamente indifferenziata ad una certa identità collettiva. Pure il discorso sulla fede incondizionata per una squadra può illuminare itinerari critici: non è forse vero che oggi si possono vedere tifosi anche fuori dagli spalti, e così tra gli elettori, gli spettatori, i lettori…? Che cosa significa, socialmente e antropologicamente, questa forte istanza di personalizzazione? Dov’è andata l’Italia in questi ultimi trent’anni? Non si parla di calcio, dunque; o, meglio, se ne parla per la semplice ragione che in società non se ne può prescindere. Come ricordava Pasolini, il calcio “è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” e, come sottolinea l’Autrice, “i campionati ricominciano sempre (…) almeno fino a quando saremo in grado di preservare il giocattolo”.

È un bel volume, con tanti pregi: la buona scrittura; la sincerità espositiva; l’andatura studiatamente rabdomante, e quindi gradevolmente affabulatoria, dell’argomentazione; i moltissimi riferimenti colti, impreziositi da un’appendice bibliografica altrettanto ricca che propone un verosimile e appagante prolungamento di lettura; la struttura ricorsiva del discorso complessivo. Quest’ultimo carattere è quello più curioso, poiché denota la tensione, diffusa in tutto il testo, per la realizzazione di una perfetta coincidenza tra la forma dell’esposizione e il significato che si vuole veicolare. C’è dell’hegeliano in tutto ciò, e le modalità con cui si presenta il thema, già nel secondo capitolo, lo confermano: la magia di un gioco che è sempre vivo perché si alimenta di contrasti apparentemente inconciliabili non è altro che una bellissima variazione della dialettica tesi-antitesi-sintesi, intesa come logica, naturale e irrinunciabile invariante. Anche i grandi campioni sono implicitamente inquadrati con la lente con cui Hegel guardava Napoleone a cavallo per le strade di Jena nell’ottobre del 1806: pure e tangibili manifestazioni dell’anima del mondo. In questo testo non si parla di calcio, è proprio vero: perché si riflette sull’utilità di uno specifico modo di guardare alla realtà, sul valore che questa prospettiva epistemologica porta con sé e sull’incoscienza quasi colpevole che si può naturalmente produrre allorché si dimentichi la forza esplicativa e riflessiva dell’analisi a favore di soluzioni apparentemente più (e troppo) facili e convincenti. Al termine del libro mi sono ricordato di una bella citazione di Sciascia (da La strega e il capitano), riportata all’inizio di un altro volume, letto recentemente e con pari soddisfazione: “Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Se fatto in questo modo, anche scrivere e leggere di calcio può risultare particolarmente accattivante.

Un’intervista all’Autrice

Letteratura e calcio (di Francesca Serafini)

Calcio, la più bella metafora del mondo (di Silverio Novelli)

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