Ogni viaggio ha il suo proprio viatico. E per una breve trasferta a Udine ho afferrato questo libro, provvidenziale. Di Giacomini avevo già letto – e apprezzato – l’inclassificabile “trattatello” L’arte di andar per uccelli col vischio, pubblicato All’insegna del pesce d’oro nel 1969, e il romanzo Manovre, edito da Rizzoli l’anno precedente. Il primo, oggi, si trova felicemente riproposto per Quodlibet, assieme ad un corpus di poesie. Il secondo è stato oggetto di riscoperta – come tanti altri titoli di Giacomini, nel corso degli anni – da parte di Santi Quaranta, raffinata casa editrice di origine trevigiana.

Il giardiniere di Villa Manin è una raccolta di pezzi in prosa risalente a un periodo di molto successivo, visto che è stata pubblicata nel 2002. Riunisce, nell’ordine, il testo che dà il titolo al volume – una sorta di estratto di un immaginario diario del giardiniere della bellissima villa di Passariano, scritto a pochi giorni dal pensionamento – e altre tre brevi composizioni, i cui motivi (un po’ storici, un po’ popolari e di costume, un po’ paesaggistici) si collocano a Udine, a Lignano e a Cividale. Il risultato complessivo lo si potrebbe definire come una graziosa e delicata Wunderkammer sentimentale della friulanità. Più di tutto, però, è la voce del giardiniere a meritare un appunto. Non tanto per ciò che rievoca (l’inizio del suo lavoro alla villa, il rapporto con l’enigmatico ed eccentrico conte che ne era proprietario, le ristrutturazioni e manutenzioni dell’immenso parco, l’allontanamento dovuto allo scoppio del conflitto mondiale, le distruzioni dovute all’occupazione delle forze alleate durante la guerra, le visite guidate per le scuole, la consuetudine con gli animali del luogo…), quanto per il sincero, partecipato e tenace affetto che la anima. Il frasario di Giacomini, infatti, tradisce una profonda immedesimazione con il modesto e diligente giardiniere e, per il suo tramite, con il mondo che incarna; un transfert che ce lo rende credibile e che, più di tutto, spiega in modo efficace il segreto e la piccola e concentrata energia malinconica di cui l’Autore si fa sempre portavoce. 

È specialmente nel momento dell’abbandono, lungo il viale della villa, nelle ultime pagine del diario e negli ultimi sguardi e sensazioni del giardiniere, che giunge l’immagine risolutiva, quella che getta luce su buona parte della poetica intera di Giacomini: è la comparsa di un certo fringuello, solitario, il cui canto risuona quasi come un pianto. Eppure – si legge nel diario – “avvertivo anche una nota di forza in quei trilli, che lassù egli viveva il gelo della propria solitudine come un dono ricco del più arduo amore, che si sentiva in esso rinato come nel seno di un privilegio, in uno scrigno capace di difenderlo da ogni dolore”. Si fa sera, è ora di andare. Anche la vita lavorativa sta per finire, e non solo quella. C’è un intero cosmo in via di sparizione, aggredito da un tempo inesorabilmente diverso. Ma vicini, inattesi e insospettabili, ci sono gli alfieri di un equilibrio senza tempo, cui occorre guardare: per capire e per trarre ispirazione e forza. Qui è un fringuello, nella sua apparente e fragile resistenza. In Manovre era il piviere, l’ultimo e prezioso ospite dell’ecosistema della grava del Tagliamento, scacciato dalle aggressioni delle esercitazioni militari e di una modernizzazione che non sa farsi ospite rispettoso e si presenta, piuttosto, nelle forme temibili di quel progresso scorsoio di cui dirà Andrea Zanzotto. 

Amedeo Giacomini lo è stato, veramente, il più autentico giardiniere di Villa Manin. Che dunque non è un luogo, una splendida dimora storica, una cosa, ma una sineddoche, la parte di un tutto più grande e nobile. Perché, per mezzo della voce del suo indimenticabile personaggio e degli spazi in cui esso si muove, questo scrittore si è fatto custode e aedo di uno scenario intero, di un grumo compiuto di bellezza, semplicità, memoria e cultura. Nonostante le intense e barbariche, e tuttora mai dome, trasformazioni che il Nordest ha subito in più di cinquant’anni, basta frequentare il periodare dolce e pacato dell’Autore friulano per riuscire ad accorgersi dei richiami degli uccelli, a coglierne fuggevolmente l’occhio concentrato e attento, e grattare, così, sotto la superficie di un territorio tuttora ricchissimo e capace di commuovere.

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Raccolta comme il faut di uno dei poeti italiani più importanti degli ultimi trent’anni. Non è un caso che sia stata selezionata tra i potenziali vincitori del Premio Strega Poesia 2024. Del resto, non c’è nulla di sbagliato in questo libro: un numero assai elevato di testi riuscitissimi di per sé (ivi comprese, sparse, alcune belle traduzioni: da de Quevedo, Dylan Thomas, Rilke, Emily Dickinson, Marvell, Larkin…); la presenza di partizioni (o stazioni) tra loro molto diverse, ma tutte di volta in volta concentrate attorno a perni unificanti di personale e suggestiva esperienza; la possibilità di individuare una coerente ispirazione complessiva. Quest’ultimo aspetto si coglie sin dal principio, nonostante sia reso esplicito, quasi confessato, nel breve pezzo finale, che vale da chiave di lettura (p. 129): “Niente nella vita è terribile / perché tutto è terribile. / E in questo c’è un’amarezza / che si muta in dolcezza”. È proprio così: è il modo con cui Testa dichiara di essere il più lucreziano dei poeti contemporanei. Il mondo gli appare tutto volatile e transeunte, e naturalmente indifferente, ma anche ricco, vibratile, come i milioni di organismi nascosti sotto la sabbia di Cape Cod (p. 82). Anche il senso improvviso di un avvolgente, cosmico, “stato di sfinimento” è apertura allo “spazio infinito dell’universo” (p. 27). Bisogna saperla cogliere, specie dove il dettaglio sembra più insignificante. Ad esempio, osservando il taràssaco (che quasi si atteggia a leopardiana ginestra: p. 34) o accorgendosi della “piccola anfora / di fango argilloso” lasciata in dono, sul ripiano dei libri, da una vespa (p. 67) oppure, ancora, facendo come il ragazzo seduto su un masso, alle prese con un falcetto: “Senza bisogno di un maestro indiano, / esercizi da salotto o da palestra / e tante inutili parole” (p. 51). Quasi sulle orme di Meister Eckhart – viene da pensare – per un mistico approdo: “Una solitudine assoluta e senza nome. / Come quella dei dipinti dei paesaggi / nati nel digiuno dalla gente. / Conservare e annientare. / Essere uno. / Conoscere, tra gli ultimi, / l’erba di nessuno” (ibid.). Citazioni e immagini potrebbero moltiplicarsi, anche perché ogni cosa è potenzialmente propizia al Sublime: il “bar tabacchi dei cinesi” (p. 11), un “arcobaleno in chiaroscuro” sul muro della camera (p. 23), una “coppia di narcisi selvatici” (p. 100), la “lunga anestesia” in una seduta dal dentista (p. 104). Si può indugiare per mesi sulle pagine di questo libro. È un accadimento raro.

Recensioni (di F. Fiorentin; di G. Galletta; di G. Grattacaso; di N. Vacca)

Dal testo: due poesie e un breve commento

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In un mite pomeriggio autunnale del 1980 Nicoletta Segafredo, guida turistica e moglie dell’anziano avvocato Dal Bianco, viene uccisa alla Rotonda del Palladio, a Vicenza. Di lì a poco, non lontano da Schio, affiora in un canale il corpo di un architetto vicentino, Riccardo Molinari, funzionario della Soprintendenza. I due casi si intrecciano ben presto, tanto che il maresciallo Piconese di Schio e il commissario Bonturi di Vicenza cominciano a collaborare. La trama della storia si palesa complessa sin dal principio. La guida e l’architetto si conoscevano, e si vocifera pure di una possibile relazione clandestina. Li aveva incontrati anche Giulia Sigismondi, una giovane e istintiva storica dell’arte, che sbarca il lunario come guida part time e traduttrice. L’architetto, in particolare, pareva assai interessato agli studi di Giulia, specialmente alla sua tesi sui preziosi disegni teatrali di Palladio, scomparsi nell’ordito di complicati passaggi tra nobili collezionisti, mercanti e faccendieri di tutta Europa. È forse un caso che attorno a Giulia ronzi minacciosamente la strana figura di un antiquario padovano che lei stessa aveva intravisto a casa di Molinari? Come se non bastasse, all’improvviso viene ucciso anche il custode della Rotonda. E nel frattempo il maresciallo Piconese e i suoi carabinieri sono distratti da un misterioso furto, avvenuto in una locale fabbrica di impastatrici. La scena – che è animata anche da altri personaggi – si articola tra escursioni e inseguimenti montani, da una parte, e sopralluoghi nelle campagne e nelle bellissime ville della pedemontana veneta, dall’altra. Tuttavia, più che la caccia a qualche inestimabile tesoro rinascimentale, è la sapienza pratica di Piconese a salvare capra e cavoli, e a lasciar correre quindi il romanzo verso un piacevole e familiare lieto fine.

La facilità di scrittura e il senso dell’intrattenimento propri di questo Autore non sono nuovi, come non lo sono la passione per la cultura della sua terra (v. qui e qui) e l’invenzione del maresciallo Piconese, già all’opera in altre precedenti avventure (v. qui e qui). Questa volta al centro dell’attenzione non c’è più l’epopea della gente cimbra (che pure continua a emergere in più di qualche pagina e figura). Il fuoco è tutto su Andrea Palladio, sulle sue ville e sull’epoca che ne ha visto sorgere e diffondere la fama. Nonostante il racconto abbia una sua apprezzabile autonomia, il libro gravita tutto attorno al fascino che ancor oggi sprigionano le opere del grande architetto. Di ciò è testimone l’ampia appendice informativa che si trova al termine del volume e sprona, quasi fisiologicamente, a cercare e compulsare I quattro libri dell’architettura. Si ha l’impressione, dunque, che Giallo Palladio altro non sia se non un divertito pretesto per introdurre e stimolare i profani a una traiettoria artistica straordinaria, e anche a farne esperienza diretta nella riscoperta degli insegnamenti del famoso costruttore vicentino e nella frequentazione degli spazi, dei colori e dei volumi del paesaggio veneto. In questo senso quella di Matino – e del suo editore – è una proposta intelligente, da assumere come primo stadio di un percorso progressivo: da intraprendere, dapprima, con la lettura alternata di un altro bel testo, illustrato, che sempre Biblioteca dell’Immagine ha preparato sulle ville venete; e da proseguire, poi, con lo studio del classicissimo e tuttora magnetico tomo di Giuseppe Mazzotti e, magari, infine, con una visita alla Biblioteca Marciana di Venezia, per gustare le vedute di Fra’ Vincenzo Coronelli. Soprattutto, Giallo Palladio si può tenere sottobraccio, vagando all’ombra di qualche barchessa e cercando un riparato angolo di verde per gustarne la bonaria e accogliente (ma per nulla scontata) semplicità.

Andrea Palladio secondo Philippe Daverio

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Con tutta probabilità questo libro è la lettura più interessante dell’anno, almeno finora. Tra il 2014 e il 2018 un giornalista (Luca Fiori) ha intervistato a più riprese un noto artista (Giovanni Frangi). Dopodiché un critico (Giovanni Agosti, che ha seguito larga parte del percorso di Frangi, sul quale ha anche raccolto una serie di saggi) ha assemblato il testo, corredandolo di numerose immagini. Il risultato – edito alla fine del 2021 – è un volume assai originale: in parte autobiografia; in parte catalogo e “scrigno” iconografico; in parte flusso di coscienza sulla vita e sull’arte in generale. Quest’ultimo aspetto è quello più accessibile, più diretto. Discutendo di influenze, di ispirazioni, di tecniche e di opere (proprie come altrui), Frangi non manca di affrontare temi che definire classici sarebbe riduttivo. Lo fa in qualche passo sintomatico, quando si chiede, ad esempio, che cosa sia il suo mestiere: “l’arte ha un compito o è un’esigenza? Sono solo domande aperte, tutte le risposte sono buone. Come essere o non essere, credi in Dio o non ci credi, piove o non piove, m’ama o non m’ama… Io sono convinto che l’arte abbia una sua fisicità necessaria”. Ma lo fa anche quando si sofferma sul processo creativo: “Io prendo un’idea e la trasformo. Non è importante dove la prendi, dove la vai a cercare, ma dove la porti”. Non sono questi, però, i tratti più accattivanti del volume. Ciò che è meritevole di particolare attenzione – oltre ad alcune formidabili foto, fra cui una (splendida) di Sandro Penna e quella di “uno dei quadri più belli del mondo” (Frangi dixit) – è quanto il comune lettore non può pensare, trovare o immaginare per suo conto, e può, dunque, soltanto apprendere: sulla nascita e sull’evoluzione del percorso del pittore; sui temi prediletti (tangenziali, paesaggi, isole, giardini, ninfee, alberi); sull’importanza dell’atelier, come giusto luogo di lavoro; sul rapporto con galleristi e committenti, e con il critico di fiducia (che altri non è che il curatore del testo); sulle esperienze e sulle esposizioni più importanti (si racconta anche di quella, a suo modo piccola, presso il Mart di Rovereto, dove ho visto un Frangi per la prima volta); sulla relazione con lo zio famosissimo (Giovanni Testori) e sulle tante e notevoli conoscenze (Aldo Busi o Alda Merini, ad esempio); e poi sui quadri e sugli artisti preferiti; e ancora sulla luce e sul colore… Naturalmente tutto questo è avvincente per chi vuole avere esattamente queste notizie (com’è per coloro che sono fan di Frangi, quorum ego). Ma lo dovrebbe essere anche per altri. Perché è una prova di come qualsiasi itinerario di pensiero si nutra sempre di incontri, spazi, interferenze, intersezioni: di eventi in cui solo la forza dell’inatteso consente il passo ulteriore e motiva la buona riuscita dello studium, dell’applicazione costante e intelligente. L’intervista, inoltre, ha il pregio di nobilitare il genere che rappresenta: le testimonianze orali e il loro montaggio illuminano vie d’accesso altrimenti non praticabili. E anche questa, come sanno bene molti storici, è lezione di non poco conto. Detto sommessamente, al termine di questo breve pezzo: anche i giuristi potrebbero guadagnare qualcosa.

Recensioni (di D. Dall’Ombra; di M. Recalcati)

Un’intervista all’intervistatore (da artslife.com)

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Tra aprile e maggio di quest’anno sono stati pubblicati due piccoli libri, che potrebbero dirsi quasi gemelli: Nei luoghi ideali per la camporella di Davide Bregola, uscito per Avagliano; e Pane e noci di Lucio Montecchio, edito da Ronzani. In entrambi i casi ci si trova di fronte a raccolte di prose brevi. Ciascuna – a volte si tratta di un racconto, a volte di un’istantanea di situazioni o di luoghi presenti o passati – è un esercizio di rabdomanzia sentimentale, una chiave d’accesso per un mondo di ieri, che gli Autori rievocano oggi al fine di esprimerne e rilanciarne un senso complessivo, e di farne motivo ispiratore per riflessioni di più ampio respiro. Il mondo di Bregola è quello della Bassa par excellence, tra Emilia, Lombardia e Veneto, dove aggirarsi alla ricerca delle “potenze remote” che “facevano crescere”: ricordi di avventure di ragazzi, voci di testimoni che furono (contadini e operai), argini, strade, fossi, in cui “c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito”. Con Sermide (Leonessa del Po) a fungere da epicentro, fisico, storico e psicologico, convergenza geografica di più territori e dialetti, come di rivolgimenti sensazionali. Perché alla magia, e all’epica, del fiume e delle sue genti, e delle loro piccole, grandi storie, si è sostituita quella dell’hangar, della mecca selvaggia della produzione e della logistica, ammantata da una lunga e irrimediabile stagione di abbandoni.

Il mondo di Montecchio non è così diverso. Anche qui si parla di una “bassa”, quella padovana. E anche qui aleggia un tono che solo in apparenza potrebbe dirsi ambiguamente nostalgico, e che, come nell’altro volume però, non è ripiegamento, ma suggerimento di restituzione (parola che offre anche il titolo ad uno dei capitoli). Oltre a far riemergere luoghi, storie e usi di una civiltà paesana e biologica – che, a ben vedere, non è troppo lontana, visto che i nostri diretti progenitori le sono appartenuti – Pane e noci segna anche le tappe, individuali e collettive, della traiettoria straniante che, dagli anni del boom in poi, è stata impressa per effetto di un’industrializzazione onnivora. A legare i due testi, inoltre, non c’è soltanto una fenomenologia critica del presente. C’è pure molta qualità espressiva. Da questo punto di vista Bregola non stupisce. Chiunque abbia letto Fossili e storioni sa della grande abilità suggestiva, della malìa, di uno scrittore che padroneggia tutti i ferri del mestiere, e che sa analizzare ipnotizzando (come in Pozzo o Argini o Fossi) e commuovere raccontando (come in Acquaragia o in Cavie), e infine anche inveire (come in Hangar), a mo’ di tragica, ma necessaria, maschera teatrale. Montecchio – che tuttavia scrittore propriamente non è, pur essendo dotato di uno specifico canale di comunicazione cosmica, per nobile e tecnico mestiere – colpisce in alcune pagine narrative molto felici (nella spontanea e semplice invenzione di Gelso e Liana, ad esempio, o in El Beljo o, ancora, in Zia Luisa) ovvero in pezzi tanto brevi quanto vitali (come nei poeticissimi Un po’ (di buonsenso) e Orologio agreste, che paiono quasi filastrocche). Certamente Nei luoghi ideali per la camporella e Pane e noci si accreditano quali guide, affatto scontate, di ri-orientamento ecologico e morale. Ma il loro valore aggiunto – ciò che davvero non guasta – è che in quest’estate caldissima si rivelano come estratti rinfrescanti e rigeneranti di semplice e buona letteratura, da assumere lentamente, sotto un albero o ai bordi di un orto.

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Simon Sunderson è un forte e dedito bevitore, assomiglia moltissimo a Robert Duvall ed è un ex poliziotto del Michigan, fresco di pensione. Decide di dare la caccia ad un ambiguo santone, il Grande Capo, che si sposta di stato in stato e si fa chiamare in molti modi, anche Re Davide. Sunderson sospetta che questo personaggio approfitti della sua setta per abusare di ragazze adolescenti, ma gli mancano le prove decisive. Ne segue le tracce fino in Arizona, dove si reca per andare a trovare la madre ultra-ottantenne. Si fa aiutare da Mona, una giovane hacker che abita accanto a lui e che gli sollecita sensazioni contrastanti: da un lato, ne è irresistibilmente attratto; dall’altro, prova sentimenti paterni. Sunderson, infatti, dopo il divorzio da Diane, è rimasto solo, ed è costantemente in cerca di avventure e di relazioni umane più o meno solide. Le uniche cose che paiono dargli equilibrio sono la pesca al salmerino, le lunghe camminate nella natura più selvaggia e la compagnia dell’amico Marion, che fa il preside di una scuola ed è di origini indiane. La cultura e le tragiche vicissitudini dei nativi americani hanno sempre affascinato Sunderson, che ha un passato di brillante laureato in storia. Ora ritiene che queste conoscenze gli possano essere utili per il caso, e che – complici le suggestioni prodotte dallo studio di un fortunato saggio accademico: Sunderson acquista e legge molti libri – lo possano aiutare a capire il sincretismo religioso e la psicologia distorta di Re Davide e dei suoi accoliti. Proprio qui si manifesta il vero cuore del romanzo e della ricerca di Harrison. La detective story è solo un pretesto, destinato a sciogliersi tra vagabondaggi, piccole peripezie e qualche intermezzo erotico, con un epilogo tanto scontato quanto casuale e addirittura goffo. Quello che conta, invece, è il viaggio, il disorientamento, con la dinamica autoriflessiva generata nell’anziano protagonista e nella sua lotta con i fantasmi personali e con quelli della nazione bianca. Sunderson-Harrison fa i conti con la vecchiaia, con la sua biografia e con quella del Paese, e così facendo si immerge e si perde nel paesaggio e si spoglia del proprio io, cercando di mettersi in contatto con le radici dell’America per integrarsi in un ordine spontaneo e istintivo. La caccia all’uomo, quindi, diventa una caccia rituale, iniziatica, animata anche da simboliche opposizioni letterarie: tra una consolidata immagine posticcia (il mito suggestivo ma artefatto dei Classici americani di D.H. Lawrence) e un’esperienza di fiduciosa adesione alla natura primigenia e avvolgente delle cose (seguendo i passi di Gary Snyder). Questo Harrison è lo stesso di Ritorno sulla terra. Chi ha amato quelle atmosfere, amerà mettersi anche sulle orme del Grande Capo.

Recensione (di P. Dexter)

Un profilo dell’Autore

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“Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue”. Le parole di Giovanni Comisso, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, spiegano da sole la ragione dell’approfondimento che in questo libro è compiuto. Se Comisso è il suo paesaggio, allora è attraverso quel paesaggio – facendone esperienza diretta – che Comisso va letto e compreso. Nicola De Cilia, dunque, intraprende proprio quest’indagine, e lo fa in senso cronologico. Segue innanzitutto il trasloco della famiglia Comisso dalla periferia al centro di Treviso: cammina nei vicoli di oggi, alla ricerca di un’abitazione distrutta nella seconda guerra mondiale e di un’atmosfera che pur non esistono più, e del laboratorio che ha forgiato, come una camera oscura, le primitive proiezioni e la peculiare sensualità artistica e corporea dello sguardo del giovane futuro scrittore. Poi l’itinerario continua sul Piave, a Onigo, alla scoperta del paradiso terrestre di luci, di acque, piante e calde sabbie che hanno impresso al Comisso adolescente una insopprimibile vocazione panica ed erotica, fatta del desiderio continuo di amicizie complici e di ozi giocosi nell’abbraccio della natura. De Cilia, allora, ci conduce anche nelle retrovie della grande guerra, l’occasione imperdibile di un’avventura vera a tutto tondo. Comisso, però, almeno prima di Caporetto, la vive a lungo nell’incantamento delle retrovie, tra i colli e le terre coltivate del Veneto orientale e del Friuli, lungo i fiumi in cui rivivere trasognato le immagini e le sensazioni delle scorribande dell’infanzia. La rincorsa all’ebbrezza continua a Fiume e poi nell’Adriatico e a Chioggia, per addentare concretamente l’ideale di una vita completamente dedita al divenire costante e alla contemplazione delle stelle. L’Autore si aggira tra il Carso e la Slovenia, la Croazia e la laguna veneta, per sentire la scena che fu, per lasciarsene emozionare e ispirare. Così avviene, poi, anche nella campagna trevigiana, a Zero Branco, dove c’è ancora la casa che lo scrittore ha tanto amato, l’ombelico del mondo finalmente calmo e primigenio cui Comisso amava tornare sempre, nonostante i tanti viaggi. Il volume si chiude tra la descrizione delle ultime dimore cittadine dello scrittore e della sua tomba, da un lato, e una “chiusa” tutta critica, sul Comisso di Zanzotto e di Parise, e sul senso specifico – sulla inevitabilità metodologica – del “viaggio letterario” che l’Autore ha percorso.


“Senza la pianura trevigiana, con i fossi come vene, i monti che sfumano azzurri, il cielo tiepolesco che riflette la luce lagunare; senza il retroterra dialettale e la presenza dei contadini, con la loro ostinazione e devozione, Comisso non avrebbe dipanato, io credo, quel limpido e indeformabile canto poetico che ne contraddistingue la scrittura” (pp. 213-214). È una conclusione del tutto condivisibile. De Cilia – che sempre per i tipi di Ronzani ha anche compilato, poco tempo fa, una serie di ritratti carismatici di classici autori veneti – riesce a giustificarla molto bene, portando per mano il lettore in un’immersione sentimentale pienamente riuscita. E ciò proprio sottolineando e valorizzando il “privilegio d’ambiente” di cui parlava Zanzotto, perché – nonostante l’attuale “progresso scorsoio“, di cui scriveva sempre il grande poeta di Pieve di Soligo – c’è stato, e talvolta lo si intravede ancora, un Veneto perfetto: l’Arcadia della quale Comisso, il più ellenico dei maestri, ha forgiato il suo marchio inconfondibile. Il meglio del meglio, quindi, non è leggere De Cilia; è leggere direttamente Comisso, atto per il quale, tuttavia, questo libro rappresenta una guida imperdibile. La decisione è facile e rapida da prendere: si può cominciare da un titolo qualsiasi e non si sbaglia mai. Delle bellissime Satire italiane e dell’ispirato La mia casa di campagna si è già detto. Ma tra Longanesi e Neri Pozza – e l’ottimo Meridiano curato da Rolando Damiani e Nico Naldini – c’è solo l’imbarazzo della scelta: Giornale di guerra, Mio sodalizio con De Pisis, Il porto dell’amore… La Nave di Teseo, da ultimo, sta avviando la ripubblicazione di tutte le opere, a partire da Gioventù che muore. Che cos’è che fa grande Comisso? L’intuitiva sapienza del rapporto necessario tra micro e macro-cosmo; il che significa il presupposto esistenziale della piena coerenza tra il soggetto della scrittura e il suo oggetto, così come riflessa nella naturalezza e spontaneità dello stile. È per tale ragione che la lingua di Comisso è pulita e lineare: è uno standard, al quale – al di là delle pochissime concessioni a qualche vezzo un po’ snob – ci si può tuttora accostare, e accordare, senza timore.

Un estratto del libro

Un ritratto di Giovanni Comisso

Il Veneto felice di Comisso

Sui luoghi degli scrittori veneti

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Un nonno racconta alla nipotina aneddoti e storie della terra sulla quale ha vissuto per generazioni anche la sua famiglia. Sono dodici capitoli, concepiti come se fossero le altrettante stazioni di un itinerario ben preciso, da farsi in bicicletta. Il percorso segue dolcemente le curve di livello e la cartografia della zona: la lunga e ampia striscia di arenaria, mai più alta di 200 m (o poco più), che nelle Marche precede il Pesarese e culmina nel Monte San Bartolo. Per lo più si narrano vicende semplici, che si svolgono al di qua e al di là della impercettibile cresta che divide l’interno dal litorale e che, pure, solca il confine di due dimensioni reciprocamente altre, perché battute da venti, e anche da stagioni e destini, diversi. Affiorano così spezzoni, o ricordi, di epopee familiari, di piccoli e grandi eventi di una civiltà perduta, ma sedimentata, di contadini e di padroni, che per lungo tempo è parsa immutabile, salvo il procedere inesorabile delle acque marine, che si sono mangiate case, poderi, ville gentilizie e intere esistenze. Ma, paradossalmente, nell’erosione di uno scenario che continua a restare fascinoso si conserva e si rinnova comunque la memoria, talvolta anche terribile, di ciò che è stato.

Se fosse tutto qui, il libro sarebbe poca cosa. Per certi versi lo è realmente, ma nel senso diverso, opposto, di una cosa, cioè, tanto piccola quanto celata e preziosa. Il suo contenuto è paragonabile a quegli insetti preistorici che sono rimasti imprigionati, conservandosi miracolosamente intatti, in un guscio d’ambra; osservarli in controluce permette simultaneamente di accedere intuitivamente, quasi dolcemente, alla verità di epoche lontane, e di prendere coscienza, però, della loro persistente e invariabile presenza. In sostanza, e fuor di metafora, c’è un cosmo intero in questo libro, con un ritmo da eterno ritorno. Ciò si può affermare per due motivi: un certo, e sapiente, uso della lingua, che allude in modo elegiaco ad un tempo di cui provare nostalgia; un amaro fil rouge, la cui esistenza, al principio lieve, quasi edulcorata, diventa via viar incombente, fino ad un drammatico epilogo. Sul valore del ricorso studiato ad una terminologia dialettale ed arcaica, e confidenziale, funzionale anche alla trasmissione generazionale di un sapere di comunità, i critici si sono già parzialmente soffermati e ad essi si può facilmente rinviare con profitto (anche per moltepli esemplificazioni del vocabolario dell’Autore). Sul climax che percorre il racconto, non si può che lasciare al lettore la sottile inquietudine che è correlata alla sua conclusiva rivelazione e ad un orgoglioso colpo d’arma da fuoco. Qui è sufficiente osservare che – almeno a parere di chi scrive – lo sgretolarsi della materia cui è ispirato il titolo dell’opera sembra essere la pervasiva sanzione geologica di una condizione sociale naturalmente soccombente, fiera di riscatti soltanto episodici, rabbiosi e perdenti. E intanto il paesaggio ammalia e cattura sempre, nonostante tutto. Bene è stato scritto: “Il messaggio sotto o dietro le righe del testo, mentre si vaga e divaga in salita e in discesa, a caldese o vernìo, nei posti baciati dal sole o dall’ombra è: guardatevi attorno, è bellissimo, drammatico e bellissimo”. Arenaria è stato candidato allo Strega; avrebbe meritato la vittoria.

Recensioni (di Mario Barenghi; di Giulia Caminito)

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Libera è una bambina selvatica, cresciuta da sola nei boschi dell’Appennino, alle Terre Soprane, tra l’Emilia e la Toscana. È stata abbandonata? Forse non l’hanno voluta, a causa di una malformazione che l’ha privata di una mano sin dalla nascita. Non sa parlare, o meglio non lo sa fare allo stesso modo con cui lo fanno tutti gli altri uomini, quanto meno quelli che abitano nelle Terre Sottane, in pianura. Però sente e capisce soprattutto la lingua degli animali e interloquisce con loro. È così che riesce a comunicare con l’Uomo-Somaro, che le spiega che proprio lei ha una missione importantissima da compiere: ritrovare il “Mezzo” Patriarca dei Cinque Popoli, quello che è scomparso nel 1945, durante la guerra di Liberazione, rifugiandosi dove abitano gli uomini. Se Libera, che è nata proprio in quell’anno, non lo troverà, gli uomini e i Popoli si separeranno per sempre, a tutto vantaggio degli antichi Semidei dell’Appennino, che, a quanto pare, non hanno mai gradito quell’alleanza. E infatti fanno di tutto per ostacolarla. Ma il viaggio di Libera, lunghissimo e pericoloso, termina in un giardino di Modena, dove finalmente ritrova il “Mezzo” Patriarca che stava cercando e incontra anche l’Autore. Prima di tornare indietro, però, Libera deve tenere fede alla promessa che ha fatto a coloro che l’anno aiutata, agli strani e misteriosi nocchieri dell’aldilà che le hanno indicato la strada giusta. Anche questa missione ha successo e, nonostante i Semidei le tendano un agguato potenzialmente mortale, Libera riesce a ritrovare l’Uomo-Somaro, che la salva definitivamente. Non le resta che continuare a diffondere il messaggio che, in conclusione, funge da morale della favola: “Resistere. Lottare. Immaginare”.

Questo romanzo, per il suo contenuto apparentemente criptico e per la scrittura antica da cui è alimentato, è molto singolare; così singolare da correre il pericolo di attirare l’attenzione di pochi o di essere banalizzato. Tuttavia è una lettura che dà soddisfazione. La dà perché offre una proposta in cui il racconto non risponde ad alcuno degli standard più diffusi e, ciò facendo, stimola il gusto della scoperta, pagina dopo pagina. Si nutre, in particolare, di un tono da leggenda, quasi da fiaba, talvolta grave e talvolta leggero, eppure appropriato alla materia e ai luoghi d’ambientazione. La materia, infatti, non dev’essere rigorosamente e attentamente districata, dev’essere intuita: così si addice alla narrazione mitica, sempre, e tanto più in questo caso dove viene in gioco una simbologia che tende alla riconciliazione tra l’uomo e una parte ben precisa delle forze naturali, di quelle che ne hanno consentito, storicamente, un’emancipazione armonica. Che questa rappresentazione, poi, venga allestita nell’Appennino tosco-emiliano – e sul tracciato eroico della Via Vandelli – è il valore aggiunto che conferisce allo stile dell’Autore credibilità e verosimiglianza: non c’è niente di più denso e misterioso delle foreste degli itinerari canossiani. La selva, in effetti, è l’altro fattore forte del libro: per l’aperto riferimento dantesco, visto che anche Libera compie un viaggio nell’oltretomba, e lo fa in un momento cruciale della sua vita e della storia dell’umanità; ma anche perché Meschiari ha colto perfettamente che la selva ha molto a che fare con il nostro tempo, e ha scelto di assecondare, per le ragioni di riconciliazione di cui si è detto, il ritorno ad una certa selva (alleata e vitale) piuttosto che l’affermazione definitiva di un’altra selva (artificiale e disorientante). Meschiari è da leggere, quindi: come se si leggesse Il libro della giungla di Kipling, per certi versi, anche se il passo è quello nostrano e affidabile del miglior Pederiali e della più felice tradizione affabulatoria modenese.

Recensioni (di Monica Bedana; di Rossella Pretto)

L’Autore a Radio Radicale

I primi due capitoli

Arte cosmographica (di Matteo Meschiari)

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Un po’ scrittore, un po’ poeta, e un po’ anche etnografo, Davide Bregola segue l’alternarsi delle stagioni da una casa galleggiante ancorata in riva al Po nei pressi di Felonica, in provincia di Mantova. Perché proprio lì? Il fatto è che “[c]erti posti è come se dicessero: Ti diamo un punto di vista, prova a sollevare il tuo mondo”. Ma il diario di Bregola va oltre questo obiettivo. L’osservazione, pur intima e concentrata, registra trasformazioni di ampia portata e di lungo periodo, nella natura circostante, grande e piccola, e nel microcosmo socio-economico della zona. Sono le terre di Giovannino Guareschi, e quindi di Peppone e Don Camillo, anche se oggi l’epos del Fiume, e di un Paese in crescita e alla ricerca di un’identità, è sostituito dal resoconto di processi di rururbanizzazione e speciazione. πάντα ῥεῖ: è proprio il caso di dirlo, e di viverlo, perché lì “ci sono l’essenziale, la frugalità, l’insensato”. Proprio l’identità del passato, in generale, non pare rispecchiarsi in quella del presente, tanto più nella provincia dismessa e spopolata della Bassa, dove le gite in canoa e le ricorrenze colorate delle comunità Sikh si alternano alle incursioni notturne e clandestine dei pescatori dell’est. Allo stesso tempo, tuttavia, lo “spleen padano” consente di cogliere immagini e sensazioni di insperata e pacificante continuità. In questo trascorrere, dai segni così contraddittori, di eterna e disorientante decostruzione permanente, Bregola dispone di nocchieri qualificati: Hermes, il pescatore, che gli fa da scorta sul suo batèl; e Jenny, un’enigmatica presenza femminile, la cui voce sembra l’espressione più matura della sofferenza che deriva dal senso della perdita e, simultaneamente, della coscienza dell’immutabilità del paesaggio e delle sue radicate certezze. Le sembianze editoriali collocano il volume in uno spazio di programmatica, nobile marginalità. Ad essere sinceri, quello di Bregola è il libro dell’anno. È un travelogue originale, scritto con i piedi piantati in un unico luogo, con un linguaggio che concilia asciuttezza e raffinatezza, e con un’ispirazione che piacerebbe sia a Zanzotto, sia a Celati. Viene da pensare che, nel 2019, il viaggio in Italia non possa che essere questo.

Il trailer del libro

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