Intenso, complesso e, soprattutto, sentito: sono questi, in estrema sintesi, i tre caratteri fondamentali del saggio di Bencivenga, comparso già qualche anno fa in altra veste editoriale (Feltrinelli, 1992). Si tratta, è bene dirlo subito, di caratteri che ben si addicono ad una riflessione molto impegnata ed ambiziosa, che si apre con una vera e propria dichiarazione di intenti: «In questo libro voglio offrire un’idea articolata e coerente di essere umano e di società, non perché mi auguro che diventi la base di un nuovo pensiero unico ma invece come risposta positiva al non-pensiero che ci circonda, e al disorientamento e alla disperazione che il non-pensiero causa anche nelle persone migliori» (p. 6).
Lo svolgimento del programma è davvero denso e per Bencivenga non può che passare attraverso il confronto con Kant e la rivisitazione della concezione più comune e diffusa della soggettività e del modo con cui essa si pone in relazione con il mondo.
Il modello dell’io logicamente indipendente, primario ed autoreferenziale, di matrice cartesiana, è la causa prima di un radicato infantilismo politico, tanto sterile quanto pericoloso: esso ci porta, al massimo, a “tollerare” le diversità, e può svilupparsi in fenomeni di totale assimilazione progressiva del pensiero e dell’identità individuali, ma può anche alimentare episodi reattivi di virulenta riaffermazione di fondamentalismi religiosi o di localismi pseudo-culturali. L’unica alternativa credibile è l’accettazione faticosa e “drammatica” di un’identità necessariamente ed intrinsecamente plurale e differenziata, educata ed “allenata” ad essere sempre tale, essa stessa teatro e comunità di opzioni sempre diverse che dialogano tra loro.
Il punto di svolta, sul piano delle scelte politiche, consiste nell’imparare l’altro e, al contempo, nel diventarlo, scoprendosi così, quasi paradossalmente, come motivo ed occasione di tutela sia di quell’identità, sia della propria. In questa prospettiva, la società deve farsi integralmente scuola, «in cui non si arrivi mai a mettere la situazione sotto controllo, in cui non ci si lasci mai in pace, soddisfatti dalla competenza raggiunta, in cui ognuno sia per l’altro una costante provocazione: un constante invito a imparare di più, a chiedere di più a sé stesso, ad allargare le frontiere sempre solo temporanee del proprio soggetto» (p. 137). Né sono escluse, in questa mutazione di orizzonti – che Bencivenga definisce “copernicana” – altre interessanti, e sia pur delicate, conseguenze: «Per secoli, l’oggetto della politica è stato quel che uomini e donne hanno. (…) La rivoluzione concettuale che propongo ha come conseguenza che l’essere dell’uomo (e della donna) diventa il tema politico fondamentale, e una certa forma d’essere l’obiettivo politico qualificante» (pp. 137-138).
Nonostante l’Autore si proponga di fornire, in questo modo, una nuova possibilità per il pensiero politico di sinistra, il messaggio che illustra e i temi che pone non hanno un destinatario inevitabilmente specifico e connotato. Per tutti i cittadini, ma anche per i giuristi, e in particolare per gli studiosi della Costituzione e dell’azione dei pubblici poteri, la prospettazione esigente di cui parla Bencivenga può funzionare molto efficacemente quale ottica con cui guardare, con uno sguardo diverso ed altro, alle ragioni del pluralismo che la tradizione giuridica occidentale si propone di promuovere e di difendere, e ai difficili equilibri che il perseguimento di questa finalità sempre ripropone.
Da leggere prima di (o assieme a) questo libro: La filosofia come strumento di liberazione