Dieter Müller è un ex professore universitario di filosofia della storia. È il 1948 e si trova in Argentina. È riparato lì nel 1944, dopo aver insegnato per anni a Friburgo, l’Università di Martin Heidegger, suo Maestro. È stato il grande pensatore, l’autore di Essere e tempo, a folgorarlo e condurlo sulla via degli studi filosofici. Ma allo stesso tempo Heidegger – che nel 1933, sia pure per un solo anno, era diventato rettore abbracciando esplicitamente l’ideologia del nuovo regime e in particolare della sua fronda più estrema – ha posto Dieter anche sulla via del nazionalsocialismo. Anzi, Dieter ne è certo: i presupposti teoretici della nuova ideologia risuonavano pienamente già nell’opera del Maestro. E di ciò lo stesso Dieter scrive al figlio in una lunga lettera, che compone la prima parte di questo originale romanzo, e che è destinata ad essere letta postuma. Al termine di essa, il suo autore si toglierà la vita, sparandosi un colpo di pistola e utilizzando a tale scopo la vecchia Luger che suo padre aveva utilizzato sul fronte del primo conflitto mondiale. Dieter, infatti, venuto a contatto con un gruppo di irriducibili nazisti in fuga, si accorge all’improvviso degli orrori indicibili dell’Olocausto, di cui avrebbe dovuto sapere da tempo, e dei quali dunque si sente inevitabilmente corresponsabile. Nella seconda parte del libro, il figlio di Dieter – Martin… come il tanto ammirato mentore del padre – narra del suo incontro con Heidegger, vent’anni più tardi, e rievoca il silenzio e l’estraneità del filosofo di fronte al suo racconto, in cui, oltre a riportare la tragica fine di Dieter, offre una drammatica raffigurazione delle tormentate vicende argentine del peronismo e dei golpe militari, e sfida Heidegger alla presa d’atto dell’insostenibile abissalità politica della sua posizione intellettuale.

In questo libro Feinmann, scrittore argentino famoso e assai particolare, scomparso di recente, affronta il noto caso Heidegger. Che periodicamente torna a galla, come è effettivamente accaduto anche in Italia, più volte, e pure qualche anno fa, con la pubblicazione di uno studio molto rilevante. Franco Volpi e Antonio Gnoli lo sottolineano nella Postfazione (di cui si può leggere un estratto online): Feinmann mette il dito nella piaga, invitandoci a rispondere a una questione complessa. Come accettare che un pilastro della filosofia del Novecento sia stato così tanto, e ostinatamente, contiguo a una delle pagine più nere di quel Secolo e della Storia tutta? Ma si potrebbe dire anche di più: può essere davvero considerato un pilastro un filosofo tanto contiguo? Sono domande forti anche per i giuristi, che spesso si sono misurati, e continuano a misurarsi, e a scontrarsi, con il caso Schmitt. Va o non va letto e studiato tuttora questo penetrante e terribile giurista tedesco? Si può apprezzare la profondità di un’esperienza scientifica pur condannando senza appello il cinismo, l’opportunismo e la convinta indifferenza di una traiettoria umana e professionale? L’ombra di Heidegger non offre risposte. Da un certo punto di vista fa qualcosa di meglio, perché suscita la sensazione viscerale che non sia possibile non formulare degli interrogativi e che il solo fatto di porseli possa avere un valore esistenziale e deontologico irrinunciabile, per ogni individuo come per ogni studioso.

Recensioni (di M. Caneschi; da 2000battute)

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Non è facile esprimersi su questo libro. Anche il suo Autore l’ha definito un “oggetto narrativo non identificato”: qualcosa di sconosciuto e indecifrabile, che a ogni pagina si avvicina sempre di più e va scoperto con cautela, passo dopo passo. E che forse si capisce soltanto arrivati alla fine, quando ci si ritrova curiosi di ricominciare. La raccolta comprende cinque racconti, che andrebbero riletti a ritroso, visto che l’ultimo – l’Epilogo – fornisce la mappa delle ispirazioni che sono alla base degli altri e che, nella finzione, vengono stimolate e collegate da un’occasionale conversazione con un anonimo giardiniere. Partiamo dal fondo, dunque, perché è così che si può apprezzare la singolare regressione proposta al lettore.

Il quarto racconto – il più lungo – è quello che in questa edizione italiana dà il titolo al volume ed è diviso in più capitoli. È il pezzo apparentemente più prevedibile. Narra dell’irruzione nella scienza contemporanea delle teorie che hanno sconvolto il modo di ricostruire le leggi che governano la materia, e lo fa con la rievocazione, a tratti anche suggestiva, di spezzoni di vita, e di intima dis-avventura speculativa, di alcuni dei più grandi fisici del Novecento, in particolare di Heisenberg e Schrödinger. Il tema dominante sembra quello – di per sé un po’ scontato – del nesso tra solitudine, patologia e genialità. È una sinergia che viene sviluppata anche nel terzo racconto, Il cuore del cuore, che segue la traiettoria esistenziale incrociata di due matematici famosi, incompresi e fatalmente impazziti, Shinichi Mochizuchi e Alexander Grothendiek. Questo fil rouge colora l’andamento complessivo della raccolta di un senso tragico e incombente, prodotto di una verità ineffabile eppure calcolabile, al cui cospetto il destino individuale dello scienziato, uno scopritore sconcertato, si mescola indissolubilmente con quello collettivo di una società tanto normale quanto potenzialmente aperta a qualsiasi conseguimento, anche il più terribile. Da questo punto di vista, ben più interessante, il secondo testo – La singolarità di Schwarzschild – è decisamente più chiaro e si occupa dello studioso che ha intuito e teorizzato l’esistenza dei buchi neri, e che è morto nel primo conflitto mondiale per effetto dei gas venefici. Blu di Prussia, infine, è il primo lavoro ed è senz’altro il più convincente, il punto di arrivo della climax rovesciata in cui si dispone il contenuto del volume. Approfondisce gli intrecci quasi sorprendenti che hanno portato alla sconvolgente invenzione di un veleno, il cianuro, che da fonte di un originale e fortunato pigmento, scoperto nel Settecento in modo del tutto casuale, è stato industrializzato nel Novecento per la produzione di un pesticida fortissimo e del tristemente famoso Zyklon B, massivamente utilizzato negli stermini perpetrati all’interno dei lager nazisti.

Di che cosa vuole parlarci, in definitiva, Labatut? Non certo – o non solo – di Heisenberg e delle grandi svolte epistemologiche connesse alla formulazione del principio di indeterminazione: a prescindere dalla recente divulgazione di Carlo Rovelli, il meglio, sul punto, lo ha sempre dato in prima persona il grande fisico tedesco, in un’opera facilmente reperibile che dovrebbe essere letta da tutti. Quando abbiamo smesso di capire il mondo non è neppure un’ennesima versione in prosa della rappresentazione degli intensi e tragici, e premonitori, dibattiti in cui si sono arrovellati i più grandi fisici della prima metà del Novecento: a ciò ha già provveduto da tempo Michael Frayn, con Copenaghen. In questa prospettiva, Labatut non vuole neanche tornare sul luogo del delitto su cui si è soffermato Leonardo Sciascia nel suo ineguagliabile La scomparsa di Majorana: la rinuncia dello scienziato più profondo è un motivo che viene affrontato, ma nel libro dello scrittore cileno manca l’accelerazione morale che dovrebbe suggerire all’umanità una potenziale opzione di reversibilità generale. Che non è, tuttavia, quella distorta e “pazza” dello scienziato che, nel farsi incosciente distruttore di se stesso, si rende distruttore consapevole di un ordine a sua volta letale, come avviene nella bellissima Manhunt, la serie su Unabomner disponibile online per Netflix. A tutte queste variazioni Labatut aggiunge una cornice, uno spazio che disegna come contorno obbligato, per mettere in scena un’orribile discesa negli inferi. Da un lato è lo spettacolo – dalla biblica ineluttabilità – su ciò che può significare, per l’uomo e per la sua irresistibile vocazione tecnologica, la caduta nella conoscenza più estrema. Dall’altro, però, è anche la dimostrazione che ciò che si nasconde dietro l’orrore di cui l’uomo è capace non è questa conoscenza, ma l’incontrollabile ambizione normalizzante che vorrebbe dominarla.

Recensioni (di P. Beltrame; di D. Coppo; di E. Franzin; di G.I. Giannoli; di R. Precht)

Interviste all’Autore (di M. Moca; di F. Pellas)

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Il dott. Norton Perina è un medico famoso in tutto il mondo: ha vinto il Nobel per aver scoperto in una remota popolazione primitiva una strana patologia, che allunga la vita. Viene condannato a due anni di prigione per aver abusato di molti dei suoi tanti figli adottivi, di volta in volta prelevati dalle isole in cui aveva fatto le sue fortunate ricerche. Un collega e amico, il dott. Kubodera, ne pubblica il memoriale, in cui lo studioso racconta le sue origini, il rapporto complesso con il fratello, le prime e frustranti esperienze di lavoro in un grande laboratorio universitario. Rievoca soprattutto la scelta, quasi fortunosa, di avventurarsi nel ruolo di assistente di un brillante antropologo di Stanford, Paul Tallent, e di andare con lui a Ivu’ivu, un’isola del Pacifico in cui dovrebbe vivere una tribù isolatissima e misteriosa. Arrivati a destinazione – e scortati da alcune guide della vicina U’ivu – Norton, Paul ed Esme, la petulante collaboratrice di Paul, trovano nella giungla un gruppo quasi disperso di alcuni “sognatori”: è così che battezzano questi indigeni, che sono molto anziani e un po’ rimbambiti. Poco dopo scoprono un villaggio vero e proprio, ai cui margini si accampano. Comincia un periodo di meticolosa e straniante osservazione: comprendono che i sognatori hanno più di cent’anni e che sono stati banditi dalla comunità; assistono a rituali molto forti, e in uno di questi gli uomini più vecchi del villaggio sembrano abusare dei ragazzi che diventano adolescenti; capiscono che per quella comunità un ruolo misterioso e fondamentale è svolto da una peculiare specie di tartaruga. È a proposito di questa tartaruga che Norton ha l’intuizione che in pochi anni lo porterà a pubblicare studi rivoluzionari e ad attirare su di sé l’attenzione degli scienziati. Il resto del racconto riferisce della nuova vita di Norton, della fama improvvisa, delle numerose adozioni, della strana scomparsa di Tallent, della distruzione dell’arcipelago di U’ivu per opera delle missioni delle grandi cause farmaceutiche. Poi si narra dell’origine dell’adozione di un figlio particolare, Victor, e del conflitto familiare che porta il protagonista alle accuse per le quali viene arrestato, processato e giudicato colpevole. Fino alla dura e diretta confessione conclusiva, che il dott. Kubodera dapprima espunge dal memoriale e poi rivela dal luogo segreto in cui si è rifugiato con Perina.

Questo libro appartiene al genere di quelli che si leggono perché tutti ne parlano. Ci si arriva con un misto di grande aspettativa e non minore scetticismo, il tipico stato d’animo che ormai è proprio anche del forte lettore. E da cui bisogna guardarsi. Perché anche il forte lettore si nasconde tra i compratori medi, e in quanto forte rischia di esserlo pure nella mediocrità del giudizio. Occorre abbandonarsi alla storia, alla sua articolazione e alla scrittura. Occorre, in poche parole, non fermarsi alla superficie, non cadere nella trappola che la reale vicenda di cronaca – la parabola del dott. Daniel Carleton Gajdusek, nascosto dietro le fattezze di Norton Perina – pare preparare tanto bene. Se si prende quella via, infatti, ci si trova subito incagliati nelle sabbie di interrogativi molto scontati: si può essere geni e mostri al contempo? A quali inquietanti deformazioni può condurre l’omosessualità repressa? Quali sono i costi dell’esplorazione occidentale delle società cosiddette meno evolute? E quanto sono comparabili i modelli sociali? Il rischio è di terminare la rassegna delle domande con quella ancor più banale: anche il dott. Kubodera era omosessuale? Insomma, questo è un caso in cui, prima che il contenuto, sono la forma e la struttura del romanzo ad essere tanto sintomatici. C’è un’evidente sproporzione, infatti, nelle dimensioni come nell’insistenza e nell’accuratezza della descrizione, tra il racconto della scoperta (dell’isola, della giungla, dei riti della tribù, del segreto della tartaruga, della propria consapevolezza, anche sessuale) e il racconto della crisi (che si focalizza sull’ultimo atto, sul crollo di una specie di ecosistema individuale). È nel primo che si trova il centro di gravità dell’intera storia, e ciò, semplicemente, perché è lì che si nasconde l’iniziazione di Norton e la sua vocazione totalizzante, il principio e l’epilogo di tutta la vicenda. In fondo, Norton crolla di fronte alla vendetta, implacabile, della società e della cultura che egli stesso ha tradito, e che non è quella di Ivu’ivu, ma quella occidentale. Solo così si spiega la volatilizzazione di Tallent, che rimane cosciente e distante fino alla fine. Ma c’è di più. Perché questa distanza è quasi metafora di un approccio scientifico alternativo, quello che Perina ha colpevolmente misconosciuto, rompendo il meccanismo dell’obiettività e, cosa ancor più grave, importando la dimensione rituale dentro di sé e dentro la propria esperienza di ricercatore. Se da un lato, dunque, si può leggere Il popolo degli alberi ponendosi questioni fin troppo facili, dall’altro lo si può considerare come la cronistoria perfetta di una tragedia umana e scientifica davvero senza precedenti. Ed è specialmente da questa visuale che l’Autrice e il suo lavoro si lasciano apprezzare.

Recensioni (di M. Crawford; di B. Kimzey; di K. Kitamura; di C. Mazzoleni)

Conversazione con l’Autrice

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Il maggiore Richard è un reduce, ha combattuto in due grandi conflitti. Ora è sposato con Teresa e cerca un lavoro. Chiede aiuto a un ex commilitone, Twinnings, che pare avere le mani in pasta e sapere a chi rivolgersi. Richard, infatti, non riesce ad adattarsi al “nuovo” mondo che le guerre hanno dischiuso. È ancora radicato in quello “di ieri” e prova una sincera nostalgia per la scuola militare, il cameratismo, la cultura del cavallo e dell’onore. Ma sa che quel tempo è definitivamente tramontato e, soprattutto, che ha bisogno di dare certezze alla moglie, che tanto confida nel suo valore. Accetta, pertanto, la proposta di Twinnings, che gli procura un colloquio per un impiego, non ben definito, alle dipendenze del grande Zapparoni, il ricco e misterioso imprenditore che in quel momento ha più successo. Il magnate, in particolare, suscita l’ammirazione continua dei ragazzi e degli adulti, per i robot sofisticatissimi che costruisce e per le sue mirabolanti produzioni cinematografiche. Richard avverte già che lo aspetta qualcosa di ambiguo e pericoloso, anche perché Caretti, l’uomo che dovrebbe sostituire nella factory di Zapparoni, è misteriosamente scomparso; e perché i dipendenti ultraspecializzati di quell’azienda, pur pagatissimi, paiono legati al loro principale da un vincolo sostanzialmente inscindibile. Nonostante ciò Richard si presenta alla casa del famoso tycoon, dove viene letteralmente preso in contropiede. Da un lato si ritrova in una villa i cui ambienti e panorami lo riportano al passato che tanto rimpiange e lo avvolgono in una sensazione quasi piacevole. Dall’altro si scopre a fronteggiare direttamente l’imperscrutabilità di Zapparoni, che, dopo averlo messo alla prova sul terreno inatteso della tattica bellica, lo lascia in balìa delle curiose ed efficientissime api che sorvolano la tenuta. Mentre si rilassa e ripiomba così, ancora una volta, nella rievocazione del tempo che fu, Richard fa una improvvisa scoperta, che lo sconvolge e gli fa temere per la propria vita. Prova a reagire, istintivamente; ma alla fine accetta di essere assunto alle dipendenze del nuovo mago tecnologico e di godere da subito della promessa di conforto che questa scelta comporta.

Ritmato da una scrittura rapsodica e a tratti ammaliante – che cospira in modo efficace alla riproduzione dello stato mentale del suo protagonista – Le api di vetro è un tipico libro di Jünger. La spina dorsale è tutta autobiografica, intima e retrospettiva. È la speculazione, non priva di malinconia, di un uomo che rimpiange una dimensione cosmica che non può mai aver veramente raggiunto, neppure nella sua pur ricca esperienza di vita vissuta, e che tuttavia anela a conseguire e quindi a indicare a chi lo vuole ascoltare. La polpa del racconto, però, ciò che incarna la spina dorsale, si risolve in un’allegoria sull’impossibilità definitiva dell’agognato traguardo. Non solo per Jünger: è l’umanità nel suo complesso a dover soccombere, specie di fronte alla forza demiurgica della società tecnologica e dei suoi profeti. Il mondo, infatti, ha fatto un salto mortale, abbracciando un gioco le cui potenze non si lasciano comprendere fino in fondo e sono, tuttavia, capaci di attirare ciascun individuo in un meccanismo di irresistibile sinergia. Ecco dunque il punto: “la perfezione umana e il perfezionamento tecnico non sono conciliabili”; l’una via esclude l’altra, ma – come dimostra la parabola del maggiore Richard – la prima è inattingibile e la seconda, perniciosa, è fortissima e suadente, e consente il godimento di istanti di illusione e di felicità. Istanti che Jünger, ovviamente, cerca in altro modo: nella sua ossessione per l’osservazione (che spiega i suoi particolarissimi hobbies, coltivati per tutta la vita: l’entomologia e la geologia); e nella pratica effettiva, quotidiana, del suo auto-escludersi, del suo essere (per sua stessa definizione) un “anarca”. Non stupisce che questo autentico Zarathustra abbia avuto col nazismo più di qualche compromesso, né che tra i suoi interlocutori intellettuali vi siano stati sia Carl Schmitt, sia Martin Heidegger. Specie il dialogo con il grande filosofo dimostra il carattere plumbeo e ustionante del terreno in cui ci si muove; un soggetto che tuttavia ha saputo stimolare anche felici e ironiche ricostruzioni, come in Fernando Acitelli: con Oltre la linea. Jünger e Heidegger a Wembley, facendo il verso ad un noto argomento di confronto tra i due Autori, è stato in grado di spiegarli, e umanizzarli davanti ad una partita di calcio. Con momenti veri, questi si, di afferrabile serenità.

Recensione (di I.A. Chiusano)

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Why Information Grows?
È la domanda cui cerca di rispondere l’Autore, giovane direttore del Macro Connections Group presso il MediaLab del MIT di Boston. Prima di tutto occorre capire di che cosa si tratta. L’informazione, infatti, è nozione tecnica: identifica il modo con cui si strutturano, si correlano e si dispongono gli oggetti fisici. Si studia in termodinamica ed è una sorta di anomalo e curioso contraltare dell’entropia: paradossalmente aumentano entrambe. Il fatto è che l’uomo, che ne è esso stesso un frutto tangibile, ha una grande possibilità di influire sull’informazione, che a sua volta, per crescere, abbisogna di occasioni di solidificazione, come accade, ad esempio, nei prodotti industriali. Ma affinché ciò accada occorrono sistemi non in equilibrio e una combinazione di volta in volta efficace di conoscenza, know how e capacità di calcolo. L’uomo, creando oggetti con la propria fantasia, può cristallizzare la propria immaginazione e concentrarvi grandi quantità di informazione, sempre più complessa. Può quindi operare agglutinando informazione nel modo più vario. In questa direzione, Hidalgo si propone di capire quale rapporto vi sia tra la crescita dell’informazione e l’economia, e quali siano i fattori sociali e produttivi che possano fungere da ostacolo o da moltiplicatore di questo processo. Su tutto, in particolare, emerge il ruolo fondamentale dell’esistenza di specifiche reti di persone, senza le quali conoscenza, know how e capacità di calcolo non riuscirebbero a trovare una sintesi puntuale e funzionante. È così che, in economia come nel mondo degli atomi, l’ordine fisico prospera in modo sensibilmente differenziato, soprattutto nei luoghi in cui l’informazione meglio può concentrarsi e moltiplicarsi.

Questo saggio va letto perché: offre una chiave di lettura molto originale sulle dinamiche dello sviluppo e su frontiere epistemologiche che forse abbatteremo molto presto; passa dalle scienze dure alle scienze sociali senza soluzione di continuità e in modo suggestivo; dimostra di per sé l’importanza di un approccio metodologico integrato all’analisi del presente e del futuro dell’esperienza umana; è scritto come un romanzo, ma senza incorrere in facili semplificazioni; guida il lettore passo dopo passo, accompagnandolo con rapide e limpide riepilogazioni al termine di ogni capitolo; prova ancora una volta che si può coniugare divulgazione e rigore scientifico senza imbarazzanti effetti collaterali. Dopodiché L’evoluzione dell’ordine è anche un piccolo modello per gli studiosi di ogni disciplina: non ha paura di fare teoria; non si abbandona a ipotesi fantasiose, ma sente sempre il bisogno di suffragare le proprie tesi con elementi verificabili; domina lo specialismo senza temere di rinunciarvi e di alzare, in questo modo, lo sguardo a un livello superiore; non pecca di autoreferenzialità; è un luogo in cui coltivare una prospettiva dichiaratamente obliqua e sperimentare l’esistenza e la praticabilità di traiettorie inusuali. Quanto al significato dell’interpretazione proposta, è difficile dire se si tratti di un nuovo antropomorfismo, rovesciato, o se si tratti, invece, di una forma sofisticata di darwinismo 2.0, oppure, ancora, se – senza prendervi espressamente posizione – ci si trovi di fronte, materialmente, ad un perfetto terreno di coltura per visioni postumaniste di varia estrazione. La sensazione – ed è una sensazione positiva… – è che Hidalgo non intenda dirci che cosa dobbiamo fare, ma voglia solo illuminare di una luce differente il maggior studio delle interazioni e delle continuità tra uomo e natura. Gli orizzonti di senso e le scelte sono riservate ad un altro piano.

L’Autore presenta la sua lettura

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In piena Guerra Fredda un matematico di fama mondiale racconta in prima persona la sua partecipazione a un misterioso progetto di ricerca del Governo degli Stati Uniti, un tempo segreto, dandone così la sua particolare versione. Il progetto aveva un nome in codice: la Voce del Padrone. Tutto era nato in modo un po’ rocambolesco. Ma l’ondata neutrinica che aveva investito il pianeta a più riprese, e che alcuni osservatori avevano registrato, non era un caso: forse era una lettera, un messaggio inviato da una civiltà superiore e lontana. Come decifrarlo? Nel bel mezzo del deserto, in una vecchia base costruita per sostenere un attacco nucleare, era stata allestita una task force di esperti. Dopo una prima fase, nel gruppo più ristretto veniva chiamato anche il protagonista, che rievoca, ora, a mente lucida, i tanti tentativi e le molteplici e grandi tesi che sono state avanzate e discusse dai diversi team di lavoro. Il suo è un racconto affascinante, sempre sospeso tra fisica, chimica, biologia, filosofia… Ma è anche la storia, tortuosa, del fallimento di un’impresa quasi impossibile. Il brillante matematico, anzi, ci confessa che tutti quegli sforzi – e tutte quelle menti – si erano rivelati pressoché inutili. Non c’entrava soltanto il limite intrinseco della scienza terrestre; c’entrava qualcosa di più grave. Era la posta in gioco ad aver paralizzato ogni possibile ragionamento: perché gli uomini, sulla Terra, si aspettano sempre che dalla scoperta di una forma più avanzata di conoscenza si possano trarre soprattutto, e forse soltanto, i vantaggi più temibili e distruttivi. Anche loro, di fronte alla Voce del Padrone, si erano comportati come “formiche”, che, trovato “un filosofo morto sul loro cammino”, ne hanno comunque ricavato un superficiale “beneficio”. Probabilmente però – così conclude il matematico – l’intelligenza cosmica che ha escogitato l’indecifrabile missiva aveva calcolato anche questo; e l’esito fallimentare si è trasformato in tal modo in una insospettata fonte di speranza.

È il primo libro di Lem che leggo, su consiglio – azzeccato – di un amico scrittore. C’è da restarne, a dir poco, frastornati: perché sembra davvero il resoconto autobiografico di uno scienziato; e perché il tema fantascientifico è quasi azzerato, dal momento che si tratta di un lungo monologo sulla scienza vera e propria, concepito con estrema cognizione di causa. Il bello è qui, non certo nella collocazione, quasi banale, dell’opera e del suo significato corticale: scritto nel 1968, ha come obiettivo immediato l’assurda escalation agli armamenti da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica, un processo capace di asservire ogni conoscenza, e forse anche ogni logica, ai suoi scopi potenzialmente esiziali. Ma la fiction messa a punto da Lem è troppo articolata per fermarsi alla contingenza storica. Il libro discute soprattutto del (difficile, scivolosissimo) confine tra scienza e cultura, dei loro reciproci condizionamenti, forse paralizzanti, e del fattore, la politica, che li combina e ricombina in varianti di volta in volta (troppo) prevedibili. Se ciò è vero, si può accedere veramente alla natura e ai suoi segreti? La lunga e avvincente avventura dei tentativi di decifrare la Voce del Padrone – sempre che fosse sul serio un messaggio extraterrestre… – è la risposta che Lem cerca di fornire, rappresentandoci un circuito chiuso, una sorta di inestricabile e ineliminabile circolo ermeneutico, una condizione super-esistenziale di inganno sistematico, propria degli scienziati, certo, ma anche di tutti gli uomini. Quella di Lem, però, non sembra una mera e sconsolata raffigurazione di una condizione irrimediabile: non può esserlo, non potrà mai ambire all’immagine della verità. C’è un tono, piuttosto, specie nel finale, da sofisticata operetta morale, nella quale l’interlocuzione con un orizzonte scientifico e tecnologico superiore, sia o meno esistente, non ha lo scopo di tratteggiare la disponibilità di nuovi mondi, in ipotesi preclusa dalla pochezza dei riferimenti umani, ma gioca il ruolo di alterità critica, qui ed ora; di un confronto indispensabile, cioè, che per ciò solo può garantire fiducia in un futuro (migliore) che proprio così ci è reso afferrabile, curiosamente, e quindi anche a prescinderne.

Recensioni (da IlFoglio.it; da emilianodimarco.wordpress.com; da zlobone.com)

Un sito interamente dedicato a Lem

Le opere di Lem

Golem XIV a Torre del Greco (su Lem e Leopardi) (di Beppi Chiuppani)

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Terzo della “trilogia dello spazio”, che ha come protagonista il dottor Ransom, filologo di Cambridge, That Hideous Strenght sviluppa una trama che questa volta si svolge tutta sulla terra, in Inghilterra, nella piccola (e immaginaria) città universitaria di Edgestowe e nei suoi immediati dintorni. Le forze celesti, tuttavia, non stanno a guardare; e ciò perché il pericolo è grande. Infatti, con la complicità di alcuni professori “progressisti”, un fantomatico N.I.C.E. (National Institute for Co-ordinated Experiments) si sta per impadronire dell’antico bosco di Bragdon, proprietà del Bracton College. L’oscuro disegno, in principio, è quasi imperscrutabile e il giovane e ambizioso Mark Studdock, nuovo sociologo del Bracton, si lascia facilmente irretire nel quartier generale del N.I.C.E., nella vicina Belbury, dove si mette a disposizione di un eccentrico e misterioso gruppo di comando, capitanato dal vice-direttore Wither. Nel frattempo, però, Jane, la moglie di Studdock – che Wither vorrebbe a Belbury per poterne sfruttare le innate capacità predittive – trova ricovero a St. Anne, in una strana dimora, nella quale convergono, come a “corte”, tutti gli alleati di Ransom, ivi compreso un grande e docile orso chiamato Mr. Bultitude. Il filologo, reduce dai suoi viaggi interplanetari, è perfettamente cosciente della gravità della battaglia che si va preparando e dell’importanza della posta in gioco: il piano del N.I.C.E. è chiaro, c’è un’orribile e temibile forza che lo muove e che si propone di minacciare definitivamente quello che resta di un antico ordine naturale, muovendo da Edgestowe, instaurandovi un regime di polizia e trasformando tecnologicamente gli uomini in meri strumenti di una nuova religione scientista. Fortunatamente, l’alleato che il perfido Wither cerca nel bosco di Bragdon si risveglia prima di essere scoperto e si presenta, quasi provvidenzialmente, al cospetto di Ransom: dopo secoli di sonno, Merlino è tornato e, grazie alla sua intermediazione, la potenza di Maleldil si manifesterà con tutta la sua forza e non lascerà alcuno scampo ai suoi sventurati avversari.

Pubblicato nel 1945, e subito recensito da Orwell, questo romanzo offre un gradevolissimo spaccato della missione letteraria di Lewis: modernità, disincanto e fede nella scienza hanno convertito l’uomo e la sua visione del mondo, dandogli l’illusione di averlo consegnato a se stesso e per ciò solo liberato; ma la perdita di una prospettiva cosmologica può essere fatale e preludere al dominio irresponsabile di pulsioni tanto incontrollabili quanto apparentemente razionali. Occorre, dunque, tornare al mito, che può essere, in questa cornice, anche un fedele alleato della religione, nella comune finalità di rammentare all’uomo quanto la sua vita possa essere realmente apprezzata se non nella piena accettazione di un limite foriero di gioia e semplicità. In That Hideous Strenght – il cui sottotitolo spiega ogni cosa: “una favola per adulti” – il messaggio è quasi più efficace che nelle Cronache di Narnia; e forse, qui, addirittura, Lewis si rivela, per un attimo, più diretto di Tolkien e di molti altri Inklings. In primo luogo, infatti, ci sono passaggi, dal tenore scopertamente pedagogico, in cui la visione di Lewis si fa particolarmente esplicita, e non solo per gli insegnamenti di cui i personaggi si fanno testimoni, ma anche per il modo assai felice con cui questi se ne fanno portavoce dal punto di vista antropologico. In secondo luogo, è l’ironia a farla da padrone, in un susseguirsi di scene, talvolta esilaranti, nelle quali la pochezza – certamente spirituale, ma non solo… – dei cattivi e delle loro schiere viene messa totalmente alla berlina: come se l’Autore avesse voluto rappresentare, ridicolizzandola, l’estrema debolezza dei poteri cui l’umanità rischia di mettersi al servizio; poteri che sono, viceversa, tremendi solo per i danni che possono causare all’umanità stessa e alla terra che li ospita. Si può restare sorpresi dal tratto talvolta misogino e conservatore dell’universo lewisiano. E non è una mera impressione. Ciononostante il racconto dello scrittore britannico, gustoso e divertente come pochi, trasmette ancora intuizioni che fanno riflettere e che, anche a più di mezzo secolo di distanza, nascondono pillole di saggezza.

Recensioni (di Roberto Persico; di Gianfranco Franchi; di Andrea Monda)

Il romanzo in lingua originale

Un sito (italiano) tutto dedicato a Lewis

La CSLewis Foundation

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Edgardo è un giovane copista dell’abbazia di Bobbio e si lascia persuadere dal confratello Ademaro che la soluzione alla sua crescente miopia possa nascondersi nelle virtù di alcune misteriose pietre, lapides ad legendum, di cui narrano i mercanti di Venezia. Si recano entrambi in laguna, ospiti del convento di San Giorgio, nella speranza di trovare una risposta ai loro interrogativi in qualche misterioso trattato proveniente dall’Oriente. Ma la città è allarmata da una serie di inquietanti omicidi: gli occhi delle vittime – che provengono tutte dal mondo dei mastri vetrai, i “fiolari” – vengono sostituiti da bulbi artificiali. Edgardo, però, non si lascia condizionare e comincia la sua ricerca, anche se si trova ben presto al centro delle strane trame del mercante Karamago e della risoluta concorrenza tra il collerico mastro Segrado e i suoi più acerrimi competitori. Segrado, infatti, vuole realizzare un vetro purissimo, aiutato dalla fedelissima schiava Kallis, ma sono tante le persone che desiderano conoscerne i segreti di fabbrica. Edgardo, che intanto, nello scriptorium di San Giorgio, ha scovato un libro scritto in arabo, pieno di allusioni alle strane pietre vitree che lo potrebbero aiutare, accende la miccia dello scontro definitivo, tra delazioni, sospetti, linciaggi e improvvise e travolgenti passioni. Come in ogni più classica trama da romanzo giallo, il colpevole non è mai la figura più scontata e il gran finale, una vera e propria resa dei conti, ha, per Edgardo, il sapore di una triplice iniziazione: ad una vita finalmente adulta, al lato oscuro del sapere, alle più forti delusioni del cuore.

Il nome della rosa lo ha scritto Umberto Eco, un bel po’ di anni fa: la debolezza de La pietra per gli occhi è questa. Nonostante si tratti di una storia diversa, sono tanti, forse troppi, i punti di contatto, le coincidenze, le suggestioni convergenti; e il modello rimane ancora insuperabile. Il resto, invece, funziona molto bene, tanto che il libro merita veramente una lettura. La Venezia fangosa, umida e sporca – e sconosciuta – dei secoli in cui era ancora un arcipelago e si stava preparando a dominare il mare e la terraferma; la vivacità del porto di Rialto, allora in febbrile espansione; i nomi originari di piccole isole un tempo abitate e oggi scomparse; l’abilità e la curiosità di artigiani tenaci, autentici pionieri della produzione dei più antichi occhiali; le intuizioni e le sperimentazioni del grande scienziato arabo Alhazen; la violenta determinazione di una popolazione costantemente divisa in fazioni; il fascino straordinario di palazzi e costruzioni destinati a diventare patrimonio dell’umanità: Tiraboschi vi si orienta – e ci guida – con perizia e passione, come tra i canneti e le atmosfere limacciose della brughiera e della foresta medievali della serie di Fratello Cadfael. In poche parole, ciò che è pregevole, in questo giallo storico, non è il giallo, ma la storia, lo sguardo che l’Autore ci consente di dare ad un tempo tanto lontano e ad un’ambientazione eternamente carica di segreti e di miracoli.

Una recensione (di Sergio Pent)

Un’intervista all’Autore

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Nell’agile pamphlet sono raccolti, a mo’ di capitoli, cinque diversi saggi. Il primo è quello più lungo, ed è anche il più rilevante, rispetto al quale gli altri possono essere considerati come approfondimenti di punti specifici. In esso si discutono alcuni profili di crisi della filosofia, comuni, del resto, ad altri ambiti del sapere o, precisamente, della sua dimensione accademica: l’aumento dei “pensatori” nella società industrializzata e di massa, e con essa l’aumento delle produzioni scientifiche e, pertanto, del materiale da conoscere e dominare intellettualmente; il conseguente prodursi di una trasversale istanza di specialismo e di professionismo, che rendono il filosofo un artigiano, “un normale ricercatore che controlla un’area di studio circoscritta e si propone di contribuire ad essa”; le connesse difficoltà di comunicazione dei risultati o degli orizzonti delle ricerche nei confronti di altre discipline e del pubblico colto in generale, con naturale diminuzione dell’influenza culturale del pensiero filosofico e con ulteriore perdita di legittimazione dell’intero settore. Esiste un modo per evitare questa sorta di impressione sul duro presunto tramonto degli studi filosofici (ma, si potrebbe dire, di quelli umanistici in generale?). Per Marconi la chiave di volta è fatta di diversi profili teorici e di altrettante azioni da intraprendere all’interno della comunità scientifica di riferimento. Di che cosa si tratta?

Anche se i ragionamenti di Marconi – che complessivamente sembrano animati da un sano buon senso – si muovono sul crinale di dibattiti interni al discorso filosofico (e soprattutto della dialettica, sempre vivace, tra filosofia analitica, ermeneutica e storia della filosofia), alcune delle indicazioni che emergono nel libro possono essere utili per un proficuo esame di coscienza da parte di tutti gli accademici. Cerco di riassumerle, in parte generalizzandole, in parte traducendone il tenore anche per i professionisti delle social sciences: 1- alla scarsa conoscenza pubblica di determinate ricerche si può rimediare con la buona divulgazione scientifica, che non necessariamente è nemica della serietà degli argomenti; 2- le rivendicate specificità di alcuni approcci metodologici possono essere smussate nella comune reciproca accettazione del valore obiettivo di molte delle rispettive indagini; 3- il rigore dell’attitudine specialistica è carico di implicazioni positive e non rinunciabili, ma lo specialista deve conservare anche dimestichezza con uno sguardo sintetico, non può smettere di discutere i presupposti delle sue convinzioni, né può dimenticare che esiste una domanda sociale nei suoi confronti; 4- posto il rigetto di qualsiasi tentazione qoeletica (“in passato è già stato detto tutto…”), la considerazione storica dei problemi e dei temi oggetto dello studio è, quanto meno, un formidabile serbatoio di esperienze, di ragionamenti, di tecniche, che, al di la della loro eventuale attualità, fungono da irrinunciabile palestra per ogni ricercatore. Al netto delle tante precisazioni con cui l’Autore accompagna e contestualizza queste ammonizioni, si può ben dire che ce n’è per tutti; ovviamente anche per i giuristi…

Recensioni (di Elisa Caldarola, di Leonardo Caffo, di Alfredo Vernazzani, di Pierluigi Fagan, di Federico Vercellone, di Guido Vitiello)

L’Autore a Fahrenheit

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“Voti, seggi e parlamenti da Platone ai giorni nostri”: è questo il sottotitolo di un volume che può sembrare complessivamente curioso, sia per lo stile espositivo scelto dal suo Autore, sia per i profili e i problemi che si propone di indagare. Occorre dire subito che il libro non si occupa tout court di sistemi elettorali. La questione affrontata è differente e duplice: 1) qual è il modo migliore di votare nell’ipotesi in cui un certo collegio deve scegliere tra più di due opzioni? (In questo caso la domanda non vale solo per situazioni proprie delle elezioni politiche; nel testo si discute anche di decisioni assunte da commissioni, da consigli o da organi giurisdizionali) 2) qual è la soluzione tecnicamente più adeguata a garantire una corretta distribuzione di seggi parlamentari in corrispondenza di un certo numero di circoscrizioni elettorali di diversa dimensione? (Qui la domanda ha a che fare con uno snodo classico, quello della definizione della formula elettorale, che Szpiro analizza, in particolare, con riferimento alla controversa vicenda della scelta, da parte del Congresso degli Stati Uniti, di un meccanismo che meglio garantisse la ripartizione dei seggi tra i diversi Stati: la Costituzione americana, infatti, si avvale di un criterio flessibile, che dipende dalla popolazione: v. l’art. 1, sec. II). 

Per entrambi i quesiti l’approccio è diacronico. Per il primo, si parte da Platone, mossi dalla suggestiva immagine di un filosofo in erba che non si dà pace per il modo con cui una “giuria” pubblica aveva condannato il suo maestro Socrate. Ma si viene presto a contatto con Plinio il Giovane e con la scoperta delle insidie nascoste nel voto a maggioranza semplice, specialmente per la debolezza che esso presenta nei casi di “voto strategico”. Si scopre anche che grandi pensatori medievali – Raimondo Lullo e Nicolò Cusano – hanno ipotizzato metodi di scelta che potessero evitare queste criticità, incappando, però, nella scoperta disarmante del carattere “intransitivo” delle votazioni tra più di tre alternative, o sperimentando comunque tutti i limiti di ogni soluzione che abbia l’ambizione di predefinire il merito di ogni potenziale opzione e di consentire ai votanti di stabilire una graduatoria. La cosa più stupefacente è che la scelta di un metodo può davvero condurre a risultati differenti. Il dibattito continua anche molto tempo dopo, nella Parigi rivoluzionaria: Jean-Charles de Borda viene studiato e poi criticato da Condorcet, che sancisce ufficialmente il paradosso dei voti a maggioranza semplice (in quanto sistematicamente forieri di soluzioni “cicliche”) e che, tuttavia, non riesce ad elaborare un valido stratagemma. Di lì a poco, Laplace suggerirà che solo la maggioranza assoluta (e, in taluni casi, una maggioranza ancor più qualificata) può dare qualche garanzia. Sarà l’inventore de Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, Lewis Carrol (ossia Charles Lutwidge Dodgson, matematico di Oxford dal carattere un po’ difficile…), a cercare di immaginare, in piena età vittoriana, alcune varianti, ma con un tasso di difficoltà operative forse troppo elevato per permettere un’effettiva acquisizione del nuovo metodo su larga scala.

A questo punto, Szpiro passa al secondo problema, inanellando, con diversi esempi, le descrizioni delle soluzioni immaginate dai Padri della Costituzione americana e da tutti coloro che si sono confrontati con gli innumerevoli inconvenienti di quegli stessi espedienti, tra i quali spiccano grandi matematici ed economisti delle più influenti e prestigiose università degli USA. La cosa notevole di questa parte del volume è che l’appello alla migliore expertise matematica non sembra aver portato ad un risultato univocamente riconosciuto e condiviso, sicché, al di là di quanto avrebbe stabilito anche la Corte Suprema, ad ogni nuovo censimento (ogni dieci anni) la diatriba può riproporsi con effetti destabilizzanti. È così che l’Autore del saggio riprende nuovamente il primo problema e si sofferma sull’opera giovanile di colui che sarà anche un noto Premio Nobel, Kenneth J. Arrow, cui si deve la dimostrazione (disperante) dell’impossibilità razionale di una qualsiasi soluzione di scelta capace di preservare con sicurezza le preferenze individuali espresse nella società. In conclusione, per Szpiro, “l’opprimente matematica della democrazia non è destinata a scomparire”. Non esistono, cioè, accorgimenti capaci di ridurne i paradossi, se non uno, lo stesso che anche Szpiro lascia implicitamente intravedere qua e là, quando allude all’estremo grado di consapevolezza diffusa, istruzione e fair play che solo potrebbe evitare ogni manipolazione e che d’altra parte consente, di tanto in tanto, di riproporre l’attenzione di attori politici e di eminenti studiosi. Se non altro, l’indagine – la cui lettura non richiede conoscenze aritmetiche particolari ed alterna all’esposizione divertita del tema ritratti briosi dei protagonisti che con esso si sono cimentati nel corso dei secoli – prova, ancora una volta, che la democrazia non si può risolvere mai con in algoritmi e in fatti di pura volontà: parafrasando note e autorevolissime espressioni, tra “legge del numero” e “legge della ragione” la democrazia e la sua cultura stanno esattamente nel giusto mezzo. Vero è, ad ogni modo, che essere coscienti delle ambiguità sottese ad una procedura piuttosto che ad un’altra è parte assai rilevante di questa cultura. Ed è per questo che il lavoro di Szpiro non può passare inosservato.

Recensioni (di Piero Bianucci, di Anthony Gottlieb)

Il sito dell’Autore

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