
Il dott. Norton Perina è un medico famoso in tutto il mondo: ha vinto il Nobel per aver scoperto in una remota popolazione primitiva una strana patologia, che allunga la vita. Viene condannato a due anni di prigione per aver abusato di molti dei suoi tanti figli adottivi, di volta in volta prelevati dalle isole in cui aveva fatto le sue fortunate ricerche. Un collega e amico, il dott. Kubodera, ne pubblica il memoriale, in cui lo studioso racconta le sue origini, il rapporto complesso con il fratello, le prime e frustranti esperienze di lavoro in un grande laboratorio universitario. Rievoca soprattutto la scelta, quasi fortunosa, di avventurarsi nel ruolo di assistente di un brillante antropologo di Stanford, Paul Tallent, e di andare con lui a Ivu’ivu, un’isola del Pacifico in cui dovrebbe vivere una tribù isolatissima e misteriosa. Arrivati a destinazione – e scortati da alcune guide della vicina U’ivu – Norton, Paul ed Esme, la petulante collaboratrice di Paul, trovano nella giungla un gruppo quasi disperso di alcuni “sognatori”: è così che battezzano questi indigeni, che sono molto anziani e un po’ rimbambiti. Poco dopo scoprono un villaggio vero e proprio, ai cui margini si accampano. Comincia un periodo di meticolosa e straniante osservazione: comprendono che i sognatori hanno più di cent’anni e che sono stati banditi dalla comunità; assistono a rituali molto forti, e in uno di questi gli uomini più vecchi del villaggio sembrano abusare dei ragazzi che diventano adolescenti; capiscono che per quella comunità un ruolo misterioso e fondamentale è svolto da una peculiare specie di tartaruga. È a proposito di questa tartaruga che Norton ha l’intuizione che in pochi anni lo porterà a pubblicare studi rivoluzionari e ad attirare su di sé l’attenzione degli scienziati. Il resto del racconto riferisce della nuova vita di Norton, della fama improvvisa, delle numerose adozioni, della strana scomparsa di Tallent, della distruzione dell’arcipelago di U’ivu per opera delle missioni delle grandi cause farmaceutiche. Poi si narra dell’origine dell’adozione di un figlio particolare, Victor, e del conflitto familiare che porta il protagonista alle accuse per le quali viene arrestato, processato e giudicato colpevole. Fino alla dura e diretta confessione conclusiva, che il dott. Kubodera dapprima espunge dal memoriale e poi rivela dal luogo segreto in cui si è rifugiato con Perina.
Questo libro appartiene al genere di quelli che si leggono perché tutti ne parlano. Ci si arriva con un misto di grande aspettativa e non minore scetticismo, il tipico stato d’animo che ormai è proprio anche del forte lettore. E da cui bisogna guardarsi. Perché anche il forte lettore si nasconde tra i compratori medi, e in quanto forte rischia di esserlo pure nella mediocrità del giudizio. Occorre abbandonarsi alla storia, alla sua articolazione e alla scrittura. Occorre, in poche parole, non fermarsi alla superficie, non cadere nella trappola che la reale vicenda di cronaca – la parabola del dott. Daniel Carleton Gajdusek, nascosto dietro le fattezze di Norton Perina – pare preparare tanto bene. Se si prende quella via, infatti, ci si trova subito incagliati nelle sabbie di interrogativi molto scontati: si può essere geni e mostri al contempo? A quali inquietanti deformazioni può condurre l’omosessualità repressa? Quali sono i costi dell’esplorazione occidentale delle società cosiddette meno evolute? E quanto sono comparabili i modelli sociali? Il rischio è di terminare la rassegna delle domande con quella ancor più banale: anche il dott. Kubodera era omosessuale? Insomma, questo è un caso in cui, prima che il contenuto, sono la forma e la struttura del romanzo ad essere tanto sintomatici. C’è un’evidente sproporzione, infatti, nelle dimensioni come nell’insistenza e nell’accuratezza della descrizione, tra il racconto della scoperta (dell’isola, della giungla, dei riti della tribù, del segreto della tartaruga, della propria consapevolezza, anche sessuale) e il racconto della crisi (che si focalizza sull’ultimo atto, sul crollo di una specie di ecosistema individuale). È nel primo che si trova il centro di gravità dell’intera storia, e ciò, semplicemente, perché è lì che si nasconde l’iniziazione di Norton e la sua vocazione totalizzante, il principio e l’epilogo di tutta la vicenda. In fondo, Norton crolla di fronte alla vendetta, implacabile, della società e della cultura che egli stesso ha tradito, e che non è quella di Ivu’ivu, ma quella occidentale. Solo così si spiega la volatilizzazione di Tallent, che rimane cosciente e distante fino alla fine. Ma c’è di più. Perché questa distanza è quasi metafora di un approccio scientifico alternativo, quello che Perina ha colpevolmente misconosciuto, rompendo il meccanismo dell’obiettività e, cosa ancor più grave, importando la dimensione rituale dentro di sé e dentro la propria esperienza di ricercatore. Se da un lato, dunque, si può leggere Il popolo degli alberi ponendosi questioni fin troppo facili, dall’altro lo si può considerare come la cronistoria perfetta di una tragedia umana e scientifica davvero senza precedenti. Ed è specialmente da questa visuale che l’Autrice e il suo lavoro si lasciano apprezzare.
Recensioni (di M. Crawford; di B. Kimzey; di K. Kitamura; di C. Mazzoleni)