Ennio Guarneri vive a Milano, ama il body building ed è un ex poliziotto. Era entrato nel corpo da giovanissimo e aveva anche avuto modo di diventare presto ispettore. Poi il suo personale senso di giustizia – l’idea, cioè, che la giustizia non segua necessariamente i percorsi della legge e che, quindi, debba essere veicolata per altre vie – lo ha indotto a cooperare con alcuni colleghi per praticare saltuari e sostanziali “tagliandi” a figure spregevoli, ma capaci di farla sempre franca. Un giorno è stato colto sul fatto e costretto alle dimissioni. Nel bel mezzo del limbo in cui la nuova vita di disoccupato sembra farlo galleggiare decide di prendere lezioni private dalla sua vecchia maestra, per ripetere le elementari. Una mattina, casualmente, mentre si trova in riva al Ticino, sventa un’esecuzione e uccide il killer, facendo fuggire la vittima. La storia comincia proprio da qui. Perché è da quel momento, in effetti, che Ennio finisce in una spirale pericolosissima, che decide di raccontare giorno per giorno in un diario privato. L’uomo che ha ucciso era il fratello del capo di una spietata organizzazione nigeriana, il cui scopo è di fare giustizia dei “mercanti di uomini” e di quanti si siano macchiati di gravi crimini nei confronti dei migranti. Uno strano personaggio, un investigatore privato – finito, forse, allo stesso modo nelle grinfie dell’organizzazione – fa sapere a Ennio che c’è una sola via per sperare di salvarsi dalla rappresaglia del capo: mettersi al suo servizio come sicario. Di fronte a questa sorta di inaccettabile e tragica “proposta contrattuale” Ennio entra in crisi, tanto più che, proprio in quel momento, si innamora perdutamente e la sua vita sembra riacquistare un senso. Che fare? 

Gli sviluppi successivi non si possono rivelare, anche se occorre anticipare che la via d’uscita non sarà semplice e che, in ogni caso, il protagonista, se potrà salvarsi, lo farà grazie a un aiuto che aveva programmaticamente escluso. Guarneri, infatti, non ne uscirà da solo, e forse, alla fine, troverà un nuovo potenziale amico. Ma liberarsi dal vizio della solitudine non è così facile, specie per chi sembra esservi condannato da sempre. Del resto anche l’epilogo è tutt’altro che pienamente positivo, visto che Guarneri dovrà comunque affrontare due perdite molto importanti. In questo libro, che si potrebbe ascrivere al genere noir, Montanari riesce a intrecciare una trama quasi, e scopertamente, banale (che ben si addice allo stereotipo del tipico thriller metropolitano) con una traiettoria esistenziale particolarmente solida e paradigmatica (e che all’apparenza potrebbe dirsi del tutto sproporzionata rispetto alle esigenze di quella stessa trama). Non è dato sapere se questo genere di costruzione corrisponda a un espediente calcolato. Eppure il risultato convince: tanto distrae e annoia l’avventura per così dire principale, quanto attrae e fa riflettere l’evoluzione laterale della dimensione personale del protagonista, in un gioco incrociato di salite e discese narrative. Con l’effetto che, alla fine, è quella dimensione ad essere veramente al centro del romanzo. Come si finisce per intuire al termine della lettura, il cuore della storia e già del tutto riassunto nell’immagine panoramica di apertura, nello sguardo impaurito di un cormorano ferito, che dinanzi alle inspiegabili e temibili insidie del mondo, separato dai suoi compagni e rimasto fatalmente da solo, può soltanto soccombere.

Recensioni (di R. De Marco; di G.P. Serino)

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I Burroughs sono una famiglia di fuorilegge. Il loro clan vive da sempre di traffici illegali. A Bull Mountain, Georgia, nel cuore della foresta, sono padroni di un impero selvaggio, costruito sul traffico di whiskey e poi “evoluto” nella coltivazione di marijuana e nella produzione di droghe sintetiche. La montagna, quella montagna, è il loro regno, e niente è più importante. Rye è morto proprio per questa ragione: perché non si possono tagliare impunemente le radici che legano quella stirpe alla sua terra e alle sue leggi implacabili; neanche un Burroughs può farlo. Oggi tocca a Clayton sfidare il destino. Reietto lo è da un pezzo, da quando ha deciso di fare lo sceriffo, proprio lì, a Bull Mountain. Ora un agente federale, Simon Holly, gli propone uno strano patto: convincere il fratello Halford, il capo della famiglia, a incastrare l’organizzazione di Miami che fornisce al clan le armi; in cambio c’è la promessa di graziare tutta la banda, purché rinunci ai suoi affari. Clayton sa che rischia la vita. Ma non sa ancora che il motivo per cui rischia tutto non è soltanto la tenace violenza del fratello. Holly, infatti, porta con sé un disegno segreto. C’è uno spettro del passato che incombe su Bull Mountain. E vuole vendetta: una sentenza che, pagina dopo pagina, si lascia scoprire in tutta la sua ferocia.

L’opera prima di Panowich, già musicista girovago e pompiere volontario in un piccolo paese della Georgia, è un godibile intreccio tra Mario Puzo, Lansdale, McCarthy e Don Winslow. Cocktail di questo tipo, così tremendamente modalioli nel mainstream di genere, rischiano di essere indigesti, di deludere, di esplodere sin dal principio per eccessiva intenzione corrosiva. Ma non è il caso. Primo: nel romanzo domina un binomio di successo, terra e famiglia, matrice irrinunciabile e cornice ideale di qualsiasi tragedia ben riuscita, specialmente quando si tratta di narrare un’epopea malavitosa e cruenta. Secondo: il libro funziona anche come sceneggiatura, già pronta e finita, da proiettare sull’epico e spietato scenario di un Dixieland mai veramente scomparso e sempre affascinante. Faulkner e Capote l’hanno battezzato per l’eternità, perciò la sua resa è tuttora sicura, e qui si riesce a percepirlo, a vederlo, a toccarlo. Terzo: c’è un quid pluris. L’Autore aggiunge alla ricetta un pizzico di noir. È il vero tocco originale del racconto, se si vuole il meno americano, tanto che viene quasi da pensare a Derek Raymond. Il fatto è che questo sapore veicola il mood più giusto per interpretare correttamente il finale della storia, altrimenti un po’ scontato (che nessuno possa sfuggire a se stesso non è una grande novità…). A conti fatti, tutto si tiene in Bull Mountain, anche dal punto di vista fisico: EnneEnne si conferma come editore che tiene molto alla qualità della grafica di copertina, dalla quale ammicca, coerentemente, una natura oscura e terribilmente incombente. Insomma, Bull Mountain è davvero un oggetto gradevole.

Recensioni (di Elisabetta Favale; di Angel Luis Colón)

Intervista a Panowich

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In una Milano fredda e sferzata dal vento, Carlo Monterossi, noto autore televisivo di talk show tanto trash quanto di successo, viene coinvolto in una brutta storia. Un venditore di auto di lusso e un’accompagnatrice di alto bordo sono stati uccisi, freddati dai proiettili di una stessa pistola. La seconda è stata anche torturata. Il vice-sovrintendente Ghezzi, per caso, si è quasi imbattuto nell’assassino, ma gli è andata male. Ora Carlo è preso da una rabbia invincibile: aveva conosciuto la donna – si faceva chiamare Anna – e non riesce a perdonarsi di non essere riuscito a intravedere il pericolo mortale che l’ha travolta. Cominciano le indagini, dunque, su tutti i fronti. Si muove la polizia, sia ufficialmente, con la squadra del sovrintendente Carella, sia ufficiosamente, con un Ghezzi quanto mai determinato. Si muove però anche Carlo, con l’amico Oscar, enigmatico factotum metropolitano. Il punto è che gli indizi sono pochissimi e che il killer è ancora a piede libero. Quel che è certo è che sta cercando un fantomatico “tesoro”, qualcosa che Anna custodiva, forse per lui. Le strade, così, sembrano condurre tutti gli investigatori verso la figura di un rapinatore tuttora latitante, vecchia fiamma della giovane uccisa. È lui il colpevole? Naturalmente le strade della polizia e quelle di Monterossi si incrociano subito e finiscono per convergere, almeno in parte. Almeno fino a quando il caso sembrerà risolto. Poi spetterà proprio a Carlo, tra suggestioni letterarie e frequentazioni (sic) cimiteriali, a scoprire gli ultimi segreti e agire di conseguenza.

Carlo Monterossi è una proiezione narrativa dell’Autore. I due fanno lo stesso mestiere, e la sensazione è che al secondo piacerebbe davvero vestire i panni del primo. Soprattutto, però, Monterossi è un personaggio ben riuscito, felicemente ammiccante: fa un lavoro che gli permette di vivere comodamente; è un uomo affascinante; ha un’agente che ci si immagina come un incrocio tra Giusy Ferré e Mara Maionchi; è coccolato dalle attenzioni culinarie della portinaia straniera che tutti vorrebbero avere; e si scopre saltuariamente detective non per passione o per affezione, ma per un insopprimibile istinto morale, che lo porta sempre, come per forza di gravità, a scegliere la via più complicata e ad andare fino in fondo. Robecchi, poi, scrive in modo efficace, possiede i ferri del mestiere e conosce i trucchi del genere. Le virtù del romanzo, dunque, sono tutte qui. Il punto è che, talvolta, queste virtù possono essere anche viziose. Perché quando i fattori di forza sono così evidenti, allora tutto rischia di sapere un po’ troppo di costruito. Specialmente quando di ingredienti giusti ce ne sono a bizzeffe. Sia chiaro che il libro è piacevolissimo e che questa terza avventura di Monterossi non è da meno delle precedenti. Quindi l’occasione è più che buona per constatare, ancora una volta, che nell’attuale e variegato mondo del noir italiano “nulla si crea e nulla si distrugge”, e che è difficile, pertanto, distinguere la ricorrenza puntuale, ma armoniosa, di veri e propri tòpoi dal peso specifico della riproducibilità tecnica, paradigma assoluto al quale l’opera d’arte finisce comunque per obbedire, da molto tempo ormai, anche in questo settore.

Recensioni (di Pietro Cheli; di Antonio D’Orrico; di Anna Girardi; di Sergio Pent)

Il sito dell’Autore

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In un campeggio del sud della Francia viene trovato il corpo di una giovane turista olandese, orrendamente sfigurata. Nel frattempo, non lontano, scompaiono un tassista e un’altra cittadina dei Paesi Bassi. Il primo caso sembra irrisolvibile; sul secondo indaga una squadra della polizia di Perpignan, di cui fa parte anche l’ispettore Sebag. Una moglie bellissima, due figli adolescenti, una casa con piscina e un comodo, e ordinario, servizio da sbirro: perché incaponirsi, in piena estate, su un delitto extra-giurisdizione e su una vicenda che potrebbe essere soltanto la storia della fuga di due amanti? Il fatto è che un’altra ragazza, sempre olandese, subisce una misteriosa aggressione; e qualcuno pensa che i tre eventi siano tutti collegati. Per complicare le cose arrivano al commissariato strani messaggi, scritti dal colpevole in persona e diretti – inspiegabilmente – proprio a Sebag. Si apre la caccia, quindi, e l’ispettore, con la famiglia tutta in vacanza, comincia a seguire il suo intuito, spalleggiato dai colleghi di sempre. La vicenda si sbroglia passo dopo passo, senza grandi sorprese, salva la coda finale, che impegna gli inquirenti in una corsa contro il tempo.

Non è un libro nuovo; è stato pubblicato in Italia nel 2012, quando veniva lanciato come l’ottimo esordio di un nuovo “maestro” del poliziesco francese. Bisogna ammettere che nel romanzo sono tante le cose che funzionano, a partire dalla buona caratterizzazione del protagonista, che convince subito, con la sua crisi di mezza età, e dall’ottima scelta dello scenario, un caldo, profumato e accogliente meridione francese. Altri aspetti, però, sono meno riusciti, e non sono secondari. L’omicida del campeggio e il rapitore-killer corrispondono un po’ troppo al cliché dello psicopatico cresciuto in famiglia; e la dinamica tra la paziente metodica del commissariato di provincia e la pretenziosa sicumera del funzionario della polizia centrale è altrettanto scontata. Sanno di già visto anche l’espediente che si nasconde dietro il titolo (tra il colpevole e Sebag, chi è il gatto e chi il topo?) e l’idea della filastrocca come traccia del disegno criminoso (v. Io non ho sonno di Dario Argento). Le pagine, allora, passano, lentamente, è un po’ noiosamente (alla fine il titolo si rivela davvero azzeccato…), e all’improvviso ci si scopre più interessati a capire se la vita affettiva di Sebag nasconde davvero qualcosa di imprevedibile o a immaginare se scegliere i Pirenei come meta della prossima estate.

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Bruno Arcieri, colonnello dei servizi segreti, è ufficialmente in pensione. Dopo la sua ultima avventura, che lo ha visto rischiare il tutto per tutto, si è stabilito a Firenze e ha aperto una trattoria, facendosi aiutare dai giovani che aveva già conosciuto prima di chiudere i conti con il passato (v. Il ritorno del colonnello Arcieri). O, quanto meno, prima di averci provato. Perché se da un lato può immaginare davvero di cominciare una nuova vita, accanto alla bella Marie, dall’altro viene presto costretto a riattivarsi, ad assaggiare la concitazione di nuove prove. Angela, una delle sue giovani cuoche, si è messa nei guai, e nessuno ne capisce le ragioni; oltre a ciò, Nelli, anziana nobildonna e amica fedele, gli chiede di fare alcune indagini, per verificare se sia proprio vero che Antonio Arnai, padre di Nicoletta, è scomparso a Milano, nel terribile attentato di Piazza Fontana, avvenuto qualche giorno prima. I fronti, dunque, sono due, e Arcieri è presto coinvolto in un susseguirsi di spostamenti, inseguimenti e cambi di scena: per un verso deve fronteggiare a viso aperto le ansie delle nuove generazioni e i pericoli cui sono esposte, che, tuttavia, lo preoccupano e lo affascinano allo stesso tempo; per altro verso deve rituffarsi in un mondo ambiguo e pericoloso, che credeva superato. Anche l’età comincia a farsi sentire. Vecchie spie, lontani ricordi, un gruppo di musicisti capelloni, un anziano faccendiere, una matrona spietata, una valigia piena di misteriosi documenti, un conclusivo colpo di scena: a Gori bastano pochi ingredienti per rituffare il suo eroe nella mischia, per confezionare un apparente lieto fine e per lanciarlo subito verso una missione ancora tutta da scrivere.

Non è tempo di morire è un romanzo di transizione; e forse – non ci sarebbe nulla di male – è anche un libro un po’ “furbo”. L’Autore aveva bisogno di capire se il fortunato personaggio sarebbe stato in grado di reggere ancora la tensione, di “tornare”, cioè, un’altra volta. E Bruno Arcieri, certo, ha risposto con un colpo di reni, testando il suo fisico e la sua caparbietà, e riscoprendo il profondo senso dell’onore che gli impone di andare fino in fondo, al di là di ogni stanchezza o nostalgia. Ma la storia – quella che ogni volta tutti i fans di Gori si aspettano, da Nero di maggio in poi – ha ancora da venire; ci viene prospettata, infatti, solo nel finale, come antipasto del prossimo volume. C’è da dire, però, che l’astuzia dell’Autore – o la strategia dell’editore… – termina qui. L’impressione, cioè, è che la transizione non sia stata forzata, ma sia, piuttosto, la conseguenza del più tipico, e conclamato, processo di simbiosi tra lo scrittore e la sua creatura. È come se i due si fossero presi ancora del tempo per guardarsi negli occhi e sciogliere alcuni interrogativi fondamentali (o fondanti). Ora che tutto è stato fatto e provato, e che Arcieri è morto e risorto, ed è pure invecchiato; ora che Gori ha già presentato Arcieri a Bordelli, il commissario creato da Marco Vichi, che tra l’altro compare anche nelle ultime pagine di questo romanzo (quasi l’implicita conferma di un passaggio di testimone), ci può essere spazio per continuare lo stesso ciclo? La risposta sembra affermativa, anche se a tratti, e soprattutto nello showdown che oppone l’anziano carabiniere alla vecchia Ada, ci è parso che Gori abbia voluto sperimentare il passaggio dall’Arcieri James Bond all’Arcieri detective. Ma i panni di Bruno, decisamente, sono altri, e così anche la fantasia dell’Autore si è ribellata, rimettendolo in pista a dispetto di qualsiasi credibilità anagrafica. Se la scelta sia stata giusta, lo si scoprirà presto, nella prossima e graditissima puntata.

Il sito dell’Autore

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Marco Buratti, detto l’Alligatore, è un ex galeotto e un investigatore senza licenza, ed è alla fonda in quel di Cagliari. Sta scappando dal ricordo dell’ultima tragedia cui gli è capitato di assistere, la morte della compagna di Beniamino Rossini, spietato gangster gentiluomo e alleato di tante avventure e di altrettante faide criminali. È tempo, però, per un nuovo incarico, davvero insolito: scoprire quale sia stata la fine di Guido Di Lello, un ricercatore universitario che si era invaghito della ricchissima Oriana Pozzi Vitali, diventandone l’amante segreto. Le ricerche riportano Buratti nella sua Padova, assistito dal “collega” Max La Memoria, e presto il quadro si manifesta nel suo colore più sinistro: il mistero Di Lello è opera di Giacomo Pellegrini, il “re di cuori”, lo spietato assassino che ora si è apparentemente ripulito come riverito proprietario di un rinomato ristorante e che, tuttavia, non ha rinunciato ad esercitare le sue doti più diaboliche. Buratti contro Pellegrini, dunque: i due si fronteggiano a viso aperto, fino ad una conclusione che non ha nulla di realmente definitivo e che promette nuove puntate.

Nell’ampia produzione di Carlotto, i due personaggi per eccellenza sono Marco Buratti e Giorgio Pellegrini: il primo è diventato famoso con La verità dell’Alligatore; il secondo ha gelato gli animi di moltissimi lettori, non solo italiani, dapprima in Arrivederci amore, ciao (noir affilatissimo che si è guadagnato anche gli onori del grande schermo), poi in Alla fine di un giorno noioso. Ora tornano entrambi alla ribalta, in un romanzo, però, che, diversamente dai precedenti, non ha nulla di particolare o di avvincente. Forse non si tratta neanche di un romanzo; anzi, sembra decisamente lo studio per qualcosa che l’Autore non ha ancora pensato e che sta meditando di riproporre al suo pubblico dopo tanto tempo. La banda degli amanti, infatti, non è altro che un esercizio, per riprendere confidenza con i campioni e con i luoghi preferiti, che ci vengono ripresentati in tutti i loro consueti caratteri, come se provenissero da un fumetto di successo, accantonato per un po’ di tempo e pronto a nuove “strisce”. L’Alligatore e Pellegrini, così, sono quasi prevedibili: oggi assomigliano di più a ciò che i loro tanti ammiratori si aspettano anziché agli originali. Ma non c’è dubbio che la combinazione può reggere, anche perché si sostiene nella contrapposizione romantica tra l’eroe, il fuorilegge condannato ingustamente e dotato di un cuore (un po’ l’alter ego dell’Autore), e l’antierore, il malvagio privo di onore (e il connivente di tutte le nostre paure e fragilità, e dei tanti mali da cui è fiaccato il tessuto sociale). C’è solo da attendere il prossimo libro, allora, come se fosse il primo episodio della serie tv che un trailer ammiccante ci fa tanto desiderare; e c’è anche da sperare che, risciacquando i panni in Bacchiglione, lo stesso Carlotto ritrovi piena confidenza con la verve che da fuggiasco lo aveva trasformato in ottimo scrittore.

Carlotto racconta il ritorno dell’Alligatore

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Edgardo è un giovane copista dell’abbazia di Bobbio e si lascia persuadere dal confratello Ademaro che la soluzione alla sua crescente miopia possa nascondersi nelle virtù di alcune misteriose pietre, lapides ad legendum, di cui narrano i mercanti di Venezia. Si recano entrambi in laguna, ospiti del convento di San Giorgio, nella speranza di trovare una risposta ai loro interrogativi in qualche misterioso trattato proveniente dall’Oriente. Ma la città è allarmata da una serie di inquietanti omicidi: gli occhi delle vittime – che provengono tutte dal mondo dei mastri vetrai, i “fiolari” – vengono sostituiti da bulbi artificiali. Edgardo, però, non si lascia condizionare e comincia la sua ricerca, anche se si trova ben presto al centro delle strane trame del mercante Karamago e della risoluta concorrenza tra il collerico mastro Segrado e i suoi più acerrimi competitori. Segrado, infatti, vuole realizzare un vetro purissimo, aiutato dalla fedelissima schiava Kallis, ma sono tante le persone che desiderano conoscerne i segreti di fabbrica. Edgardo, che intanto, nello scriptorium di San Giorgio, ha scovato un libro scritto in arabo, pieno di allusioni alle strane pietre vitree che lo potrebbero aiutare, accende la miccia dello scontro definitivo, tra delazioni, sospetti, linciaggi e improvvise e travolgenti passioni. Come in ogni più classica trama da romanzo giallo, il colpevole non è mai la figura più scontata e il gran finale, una vera e propria resa dei conti, ha, per Edgardo, il sapore di una triplice iniziazione: ad una vita finalmente adulta, al lato oscuro del sapere, alle più forti delusioni del cuore.

Il nome della rosa lo ha scritto Umberto Eco, un bel po’ di anni fa: la debolezza de La pietra per gli occhi è questa. Nonostante si tratti di una storia diversa, sono tanti, forse troppi, i punti di contatto, le coincidenze, le suggestioni convergenti; e il modello rimane ancora insuperabile. Il resto, invece, funziona molto bene, tanto che il libro merita veramente una lettura. La Venezia fangosa, umida e sporca – e sconosciuta – dei secoli in cui era ancora un arcipelago e si stava preparando a dominare il mare e la terraferma; la vivacità del porto di Rialto, allora in febbrile espansione; i nomi originari di piccole isole un tempo abitate e oggi scomparse; l’abilità e la curiosità di artigiani tenaci, autentici pionieri della produzione dei più antichi occhiali; le intuizioni e le sperimentazioni del grande scienziato arabo Alhazen; la violenta determinazione di una popolazione costantemente divisa in fazioni; il fascino straordinario di palazzi e costruzioni destinati a diventare patrimonio dell’umanità: Tiraboschi vi si orienta – e ci guida – con perizia e passione, come tra i canneti e le atmosfere limacciose della brughiera e della foresta medievali della serie di Fratello Cadfael. In poche parole, ciò che è pregevole, in questo giallo storico, non è il giallo, ma la storia, lo sguardo che l’Autore ci consente di dare ad un tempo tanto lontano e ad un’ambientazione eternamente carica di segreti e di miracoli.

Una recensione (di Sergio Pent)

Un’intervista all’Autore

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Il titolo allude ad una pista da sci particolarmente bella in quel di Champoluc, Val d’Ayas. Ma il nero non è soltanto il noto segno distintivo del grado di difficoltà del tracciato. Accanto alla pista, in una delle scorciatoie che sono percorse dai gatti delle nevi, viene ritrovato il corpo di un uomo. La pista nera, così, è anche quella di una morte violenta e misteriosa, che, suo malgrado, il vicequestore incaricato delle indagini, Rocco Schiavone, deve ricostruire. Suo malgrado, si: perché Rocco è stato spedito ad Aosta per punizione; perché è svogliato e demotivato; perché, a dirla tutta, non è uno stinco di santo; e perché è tormentato da un passato enigmatico che continua ancora ad occupare tutto il suo presente, e che all’improvviso comprende anche il lettore, in modo disarmante, solo alla fine. Eppure, questo romanissimo poliziotto – che finisce per trascinare nelle sue losche e pericolose abitudini anche un suo giovane e brillante sottoposto – comincia a muoversi sfrontato sulla neve, inzuppando le sue Clarks e assommando indizi su indizi, tra intuizioni non comuni e metodi decisamente anticonvenzionali. La soluzione del caso gli riesce quasi naturale, nel contesto di un plot forse troppo lineare, ma classicissimo e di certa soddisfazione.  

Il romanzo non è nuovo; ha un anno ormai. Avevo perso l’attimo e, data la stagionalità dell’ambientazione, non potevo che attendere un successivo inverno. Ho pazientato fino alle prime nevi e, fortunatamente, non sono rimasto deluso. Schiavone, infatti, è un personaggio che regge e che, pertanto, merita futuri episodi, anche per fargli avere il tempo di spiegare meglio la sua vita precedente e per dargli ulteriori possibilità di riscatto in quella futura. È sempre un’anima in pena, in bilico, cioè, tra opzioni inconciliabili, tra pensieri che non si accordano, tra un male al quale gli piace abbandonarsi e un bene che tuttavia avverte come una normale ma frustrante inclinazione. E poi è un bel mix di fascino, durezza e simpatia, doti che Manzini riesce a sfruttare anche per regalare sprazzi di facile e genuina comicità. È molto interessante, poi, l’idea con cui l’Autore costruisce la sua creatura, operazione in cui si risolve tutto il libro, e che si comprende veramente solamente nell’epilogo, quando lo strano rapporto con la figura della moglie Marina viene totalmente a galla. Manzini è uno sceneggiatore, dunque un piccolo sospetto sorge di per sé: e se questa fosse una sorta di “prova-Montalbano”? Sia chiaro, preferisco sempre un buon libro alla fiction di RaiUno, però devo proprio dire che una riduzione televisiva non sarebbe proprio male…   

Recensioni (di Bruno Quaranta, Luca Terzolo, Anna Quatraro)

Una breve intervista all’Autore

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Milano d’autunno è sempre carica di suggestioni, e anche di sorprese. Durante un blitz convegnistico alla Statale, nel bellissimo chiostro della Ca’ Granda un collega mi parla di Carlo Castellaneta e del suo Notti e nebbie. Poco dopo, come risultato di una rapida visita al Libraccio più vicino, un altro amico mi regala il volume che raccoglie in economica i tre romanzi di Colaprico e Valpreda. Castellaneta ci lascia tutti sul posto il giorno successivo (!), dunque l’ordinazione è un omaggio obbligato, ma ci vuole tempo. Passa così una settimana, e intanto la prima influenza della stagione ci mette del suo. Sicché afferro questo libro giallo (di forma e di sostanza) e mi abbandono alle consolazioni dell’improvvisa chance di lettura supplementare.

Avevo già apprezzato le abilità stilistiche del giornalista di Repubblica, ma l’accoppiata con il noto anarchico – per capirsi, quello che era stato processato, e poi assolto, per la strage di piazza Fontana – è interessante. E lo è, precisamente, in questa edizione Feltrinelli, che raccoglie in unico volume i tre pezzi scritti quando Valpreda era ancora in vita, pubblicati autonomamente per Tropea tra il 2001 e il 2002. Il maresciallo Binda, infatti, indaga anche in altri romanzi (in larga parte “farina del sacco”, di per sé munifico, del solo Colaprico: L’estate del mundial e La quinta stagione), ma sono i primi – Quattro gocce d’acqua piovana, La nevicata dell’85, La primavera dei maimorti – a battezzarlo e a farlo evolvere, dandogli la fisionomia inconfondibile del bonario e sveglio “anarcocarabiniere” lombardo, cui non difetta il passo del detective metropolitano.  

Al suo debutto, Binda è un ex maresciallo che ricorda uno dei casi più difficili della sua carriera, l’omicidio del Prof. Gariboldi, rimasto per lungo tempo insoluto ma infine sbrogliato proprio sulla base di una nuova intuizione del carabiniere in pensione, “piovuta” direttamente dal cielo. Questo Binda è un personaggio ancora un po’ malinconico, proteso verso una Milano che fu, moralmente solido e tutto “casa e strada”. È un investigatore acuto, che si muove alla Maigret, ma che anche i suoi Autori immaginano parzialmente ignaro di una verità che si nasconde in un epilogo sorprendente. Ne La nevicata dell’85, tuttavia, Binda, seppur a riposo, si taglia i baffi, conosce una nuova giovinezza e riscopre la passione, supera così il dolore per la scomparsa della moglie e si aggira nel cimitero del quartiere di Baggio, per capire quale possa essere la ragione che ha determinato la morte apparentemente accidentale di alcuni anziani signori. Binda, ora, ha le movenze del Duca Lamberti di Scerbanenco, e forse anche di Marlowe: come il principe dell’hardboiled americano si destreggia tra pericolose e indecifrabili figure femminili. Il finale di questa seconda indagine, però, è orchestrato secondo un copione classico, che ricorda un po’ Nero Wolfe e un po’ Hercule Poirot. La mutazione decisiva è in quello che Colaprico definisce come il libro migliore, ossia nel terzo racconto: che è focalizzato attorno alla figura del Binda giovane brigadiere, addestratosi assieme ai corpi speciali e spedito in incognito a San Vittore, in carcere, per comprendere il mistero di una catena di morti che lo costringerà a ripercorrere le strade di un traffico abietto e, con esso, i momenti più duri e ambigui della fine del secondo conflitto mondiale. L’ambientazione è quella delle contestazioni studentesche della fine degli anni Sessanta, e Binda, anche se continua a pensare in dialetto, potrebbe tranquillamente assumere le fattezze di un risoluto Franco Nero.

Ciò può senz’altro bastare per invogliare anche i più scettici. Nonostante i tanti riferimenti alla tradizionale letteratura poliziesca, espliciti o impliciti, Binda sintetizza perfettamente i canoni ricorrenti del noir all’italiana. Ma resta ancora inevaso il più spontaneo degli interrogativi: e Valpreda? Occorre dire che la presenza di questo singolarissimo testimone, qui nei panni dello scrittore, si avvertono in tanti dettagli: nelle descrizioni di certi luoghi meneghini, nel richiamo a sedi e riferimenti ideali del movimento anarchico italiano, nella persona dell’ex rapinatore Loris, nella ricostruzione della routine carceraria e dei suoi molti e angosciosi disagi, in qualche rapida, ma chiara, allusione ad uno dei periodi più delicati e oscuri della Repubblica… Un valore per nulla tangenziale, poi, ha la Nota dell’autore superstite, che Colaprico dedica, prima di ogni romanzo, al suo curioso compagno di scrittura e all’amicizia che ha finito per avvicinarli sempre di più. Ad ogni modo, grazie a Le indagini del commissario Binda si ricompone con tratto vivace e consapevole uno spicchio importante della storia sociale dello Stivale.

Una bella recensione a La primavera dei maimorti (di Matteo Collura)

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Questo romanzo è l’esordio narrativo di un noto consigliere di Stato, un giudice amministrativo assai impegnato: come fautore di importanti orientamenti interpretativi; come studioso del diritto amministrativo sostanziale e processuale; come animatore di percorsi formativi di successo, assai frequentati dai giovani che si propongono di accedere alla magistratura. È del tutto naturale, quindi, che la fonte d’ispirazione di questo noir sia il mondo della giustizia, con tutte le sue insidie, e specialmente con tutti i dubbi e i problemi che ogni giudice incontra nella sua esperienza quotidiana. E magari anche con la gustosa aneddotica che circonda da sempre tutto l’ambiente, a partire dalla celebre domanda che ogni collegio si porrebbe al principio della camera di consiglio: Ci è u ftiènt? (p. 55).

Il colore del vetro si dipana nel sovrapporsi di due diverse vicende. Quella di Maurizio Salinaro, detto “Cristo” per l’espressione del suo viso barbuto, giudice penale presso il Tribunale di Milano. Il suo equilibro ha già subito una forte scossa, in particolare allorché, in un recente passato, si è trovato ad affrontare una questione che lo ha profondamente turbato. Ora sente di essere incappato in un imperdonabile errore, che rischia di aver consegnato alla cella un innocente. L’occasione lo mette fortemente in crisi, sia dal punto di vista professionale, sia dal punto di vista personale ed affettivo. Ad essere in crisi, però, è anche l’altro protagonista: Nicola Morgese. Maurizio lo aveva incrociato in un momento decisivo della sua vita. Ora Nicola, che è separato e ha perso la possibilità di restare con i suoi due figli, ambisce a costruirsi una vita diversa, sul crinale di una traiettoria che è sospesa tra un presente non del tutto chiaro e un futuro di nuova e insperata passione per la bella Giovanna e per il mondo semplice da cui essa proviene. Le due vicende tendono lentamente a convergere, fino ad una rivelazione che si lascia intuire passo dopo passo e che, tuttavia, non rappresenta il vero colpo di scena, che l’Autore consegna soltanto alle ultimissime pagine del libro.

Il titolo sintetizza bene ciò che Caringella vuole proporre all’attenzione dei lettori: “Se un giudice sceglie il vetro o il colore sbagliato la verità diventa inafferrabile” (p. 114). Salinaro lo prova sulla sua pelle e lo comunica efficacemente; soprattutto, riesce a farci capire il peso che può gravare sulle spalle di chi esercita determinate funzioni. Ma non si tratta di un filone nuovo: sulla stessa strada, non molto tempo addietro, si è indirizzato anche Giorgio Fontana, in Per legge superiore, con la creazione del p.m. Doni, anch’esso immaginato tra i corridoi del Palazzo di Giustizia meneghino. A differenza di Salinaro, però, Doni è più anziano e pone rimedio ai dilemmi che lo attanagliano proiettandosi al di fuori della propria storia personale. Salinaro e Morgese, invece, sono fagocitati dall’assolutezza delle proprie scelte e da un senso di insopprimibile frustrazione. Caringella, forse, intende dirci qualcosa che non coincide con ciò che vuole dirci Fontana. E il romanzo, come si diceva, non ha un lieto fine.

Quest’ultimo aspetto è l’elemento migliore de Il colore del vetro, perché costituisce l’approdo chiarificatore per la crescente tensione drammatica delle biografie dei due protagonisti, che all’inizio si fa strada tra le pagine quasi timidamente. Dapprima, infatti, si è avvolti da uno stile e da un linguaggio piani e sereni, che lasciano quasi presagire una nostalgica e romantica adesione alle ragioni, pur contraddittorie, di Nicola e di Maurizio. Poi, all’improvviso, la tensione si fa evidente, fino ad esplodere in un epilogo inequivocabilmente tragico e rivelatore. Lo smarrimento che possiamo avvertire dopo la lettura è l’anticamera ideale per conclusioni che ciascuno può facilmente trarre. La giustizia non è mai insensibile alla vita, così come la seconda può essere influenzata dalla prima. Anche l’uomo di legge, pertanto, è innanzitutto un uomo, e prendere le misure con questo comune destino non è meno difficile che scegliere il colore della lente con cui giudicare un colpevole.

Un’intervista all’Autore

Recensioni (di Giuseppe Di Stefano e di Domenico Mutino)

In “sottofondo”… Pink Moon, di Nick Drake, e Neanche un minuto di non amore, di Lucio Battisti

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