Nell’ufficio del rettore di un prestigioso college di Oxford, durante un’importante, ma sfortunata, cena – il cui ospite principale è un ricchissimo sceicco, potenziale eppure riottoso finanziatore per una nuova cattedra – viene ritrovato il cadavere seminudo di una giovane donna. L’indagine finisce casualmente nelle mani di una improvvisata e improbabile coppia di investigatori, Ryan e Ray. Che di cognome, per l’ironia della sorte, fanno entrambi Wilkins, ma sono completamente diversi, e non solo perché il primo è bianco e il secondo è di colore. Ryan, infatti, pur dotato di un istinto sorprendente, viene dai bassifondi, è totalmente indisciplinato, ha alle spalle un’infanzia difficile ed è ragazzo padre. Ray, invece, è benestante, ha studiato proprio ad Oxford, veste sempre elegante e si sforza di essere inappuntabile in ogni situazione. La dinamica, immaginabile, del loro rapporto è il sale del racconto. Pure lo schema della trama è assai prevedibile: una ridda di sospetti (c’entra direttamente il rettore? O forse lo sceicco? O c’entra Ameena, un’inserviente turbata da un passato oscuro?), con una serie di apparenze accattivanti (un nome misterioso, un anello ancor più strano, una serie di foto imbarazzanti, una pista mediorientale…). Il tutto è anche inframmezzato da un po’ di azione e dalle simpatetiche e umanissime vicende personali dei due detective, fino all’accelerazione dell’epilogo, che getta provvida luce – in modo del tutto classico – dove il lettore ormai non guarda più. Un omicidio a novembre, quindi, è il prototipo del giallo inglese 2.0: perché c’è un po’ di campagna con la sua nebbia, e perché l’assassino è sempre il maggiordomo, naturalmente; ma soprattutto perché quello che conta è la persuasiva caratterizzazione psicologica dei protagonisti (eroi di prossime avventure: questo romanzo è il primo di una serie, in patria fortunatissima); e perché lo scenario è pienamente calato nel contesto dei nostri giorni (questioni sociali, xenofobia, tratta di migranti, guerre, traffico di opere d’arte…), una cornice nel quale, ovviamente, come da copione ormai consueto, la progressiva crescita individuale e morale degli ispettori è criterio per sollecitare giudizi etici di più ampio respiro. Insomma, è un libro scontato, direbbe qualcuno. Tuttavia è quel genere di scontato che a volte si cerca appositamente e che, guarda caso, può accompagnare con un certo piacere gli attimi di pausa in queste prime giornate d’inverno.
Seconda guerra mondiale: Charles Ryder è un ufficiale dell’esercito inglese di stanza sul suolo britannico. Tra un’esercitazione e l’altra le truppe finiscono nella tenuta di Brideshead, proprietà storica dei Lord Marchmain. E Charles comincia a ricordare. In primo luogo, di quando è stato lì la prima volta, anni addietro, con Sebastian, giovane rampollo della ricchissima casata e suo compagno di studi e di bagordi a Oxford. Si avvia così il racconto di un’amicizia profonda, di una famiglia singolare, di una vita spensierata; ma anche di dissapori, confronti, distacchi e ritorni, come dell’amore tardivo con Julia, la sorella di Sebastian, figura a suo modo simbolica di un generale destino di trasfigurazione e decadenza, dalla quale, del resto, anche il fratello viene travolto. Questo romanzo, che ha ormai raggiunto da tempo la dignità di classico, non solo raffigura in modo semplice ed elegante le aspirazioni e fascinazioni di un’intera generazione; rievoca, più di tutto, un clima e un momento storico sospeso tra la rievocazione di un passato irripetibile e la percezione forte di un tracollo imminente. Forse sono le guerre che al principio del Novecento cambiano i connotati alla società europea, o forse è l’economia a dare ingresso a nuovi rumorosi protagonisti e a cancellare la grazia e l’imbattibilità di un tempo che fu (ma le due cose stanno perfettamente assieme). Ciò che il capitano Ryder apprende è che quel mondo non tornerà e che, tuttavia, la memoria può ancora alimentare una piccola fiamma nel cuore.
Le peculiarità e gli alterni successi di questo libro – con spunti curiosi sul suo carattere in tutto o in parte autobiografico, e sull’influenza che potrebbe aver avuto la conversione dell’Autore al cattolicesimo – sono ben ricordati da Alessandro Piperno nella prefazione che illustra la presente edizione. Va aggiunto che Ritorno a Brideshead è un romanzo che superficialmente si potrebbe definire sentimentale, anche se occorre capire di che sentimento, o di quali molteplici sentimenti, si tratta. Se ci si abbandona ai pensieri del protagonista e alle immagini che ci proietta di fronte, si passa, certo, per stati d’animo molto diversi. Ciò che prevale, però, è un marcato struggimento, talvolta nostalgico: per una giovinezza sospesa e ancora gravida di occasioni, per quel senso di indeterminatezza che prima della maturità permette di pensare davvero a una felicità possibile, per la intrinseca bellezza di una civiltà che si percepisce irrimediabilmente superata. Naturalmente, a quest’ultimo riguardo, le vicende raccontate da Waugh costituiscono anche il ritratto fedele della nobiltà inglese – e quindi delle sue magioni, dei suoi luoghi notevoli, riti e tipi psicologici – nel momento storico della grande crisi: a chi è piaciuta la serie TV Downtown Abbey, o anche Saltburn, Ritorno a Brideshead non può non piacere. Ma il punto è che qui, prima di tutto, oltre al fascino dell’ambientazione, c’è la letteratura nel suo formato più puro e spontaneo, con le parabole universali di uomini e donne. E con l’effetto che, lasciandosi andare, quella di Charles Ryder diventa una personalissimastoria per tutti.
Brideshead revisited (la serie del 2008)
Nel 1928 Virginia Woolf tiene due conferenze in due collegi universitari femminili. Il tema è Le donne e il romanzo. Nel 1929 da quegli incontri emerge questo libro, che non è esagerato definire un vero e proprio masterpiece. L’argomentazione di fondo è scoperta sin dalle prime pagine: a una donna, per poter scrivere davvero, servirebbero una piccola rendita e una stanza tutta per sé. Le servirebbero, cioè, al di là di qualsivoglia conquista ideale, pochi ed essenziali strumenti materiali, per consentirle di uscire dallo status di costrizione e di inferiorità che per secoli l’ha esclusa da molte possibilità, limitandola a uno specifico confine domestico. Woolf spiega l’assunto con un complesso itinerario di riflessioni e associazioni mentali, talvolta improvvise e tutte apparentemente casuali e animate da un flusso di coscienza. Ma la casualità non è tale, tanto che il saggio va al di là del suo preannunciato punto di arrivo: non solo perché funge quasi da dichiarazione di poetica per il romanzo – Orlando – che, in quel momento, Woolf stessa aveva pubblicato; ma soprattutto perché, in questa sua funzione teorica, si allontana dalla contingenza, come da qualsiasi allusione al profilo biografico dell’Autrice, e acquista valore fondativo di una nobilissima progenie di scrittrici e di un filone di pensiero particolarmente forte.
Nel primo capitolo vediamo la scrittrice calarsi nei panni di una donna immaginaria, che passeggia nei pressi dell’università, anch’essa immaginaria (ma fin troppo realistica), di Oxbridge, i cui luoghi sono per lo più riservati ai maschi. La stessa donna misura le differenze che esistono con i collegi femminili, che, nonostante ciò, sono stati creati quando alcune donne, come lei, hanno avuto la disponibilità di una somma di denaro sufficiente ad avviare quell’esperienza. Nel secondo capitolo, la protagonista si trova a Londra, alla Library del British Museum. Qui scopre che la donna è oggetto di innumerevoli opere, tutte per lo più maschili; e zeppe, in larga parte, di assunti pregiudiziali sull’inferiorità fisica e morale del genere femminile. Intuisce che i “professori”, gli autori maschi di quelle opere, sono animati da una sorta di rabbia, da un sentimento che in parte è veicolato dalla volontà di trattenere la donna nel suo ruolo di specchio passivo del dominio maschile, e per altri versi è animato da un’incessante tensione al possesso, che travalica i rapporti tra i sessi e che ne alimenta una peculiare dimensione psicologica. Nei capitoli successivi (il terzo, il quarto e il quinto) la traiettoria comincia gradualmente a curvarsi sulla questione letteraria che l’ha stimolata. Si apprende che prima del Settecento sarebbe stato difficilissimo che una donna potesse essere una scrittrice. Avrebbe potuto essere, come è stata, un’eroina della letteratura d’immaginazione. Mai avrebbe potuto diventare come Shakespeare. Avrebbe incontrato difficoltà insormontabili e sarebbe stata costretta, se ce l’avesse fatta, a nascondersi dietro un nome maschile, pena il rischio di essere esposta all’ironia diffusa, se non alla pubblica derisione. Tra la fine del Seicento e l’Ottocento le cose cominciano a cambiare. Si stagliano figure come Lady Winchilsea, Margareth di Newcastle, Aphra Behn. Ma a tratti sono ancora pervase, anch’esse, dalla rabbia per la condizione che continuano a vivere. È una peculiarità che si può percepire anche nelle più famose Jane Austen o Charlotte Brontë, che, nonostante le indubbie qualità stilistiche, ancora non accedono all’integrità tipica dello scrittore. Tuttavia questa lunga meditazione giunge a un possibile punto di svolta, a una figura di scrittrice che non sembra aver paura di raccontare di sentimenti e occupazioni femminili diversi da quelli della tradizione, e soprattutto che non scrive più con rabbia: che non ha più bisogno, cioè, di “salire sul tetto” e “rovinarsi la pace desiderando viaggi, esperienze e quella conoscenza del mondo e dei caratteri che le era stata negata”. Questa scrittrice può finalmente esprimersi come una donna e arrivare anche a deridere le vanità dell’altro sesso, anche se, per emergere del tutto, ha ancora bisogno di un po’ di denaro e di una stanza tutta per sé. Nell’ultimo capitolo si traggono delle conclusioni. Se è vero, da un lato, che per la donna scrittrice il percorso non è ancora definito, e che l’intelletto e la poesia hanno comunque bisogno di “cose materiali” (mentre “le donne sono sempre state povere”), è altrettanto vero che, forse, sul piano artistico dell’integrità tanto agognata, l’obiettivo dovrebbe essere quello di aspirare a una “mente superiore e androgina” o ad un “matrimonio dei contrari”; in altri termini, di diventare “una donna-maschile o un uomo-femminile”. Nonostante questo sia un raggiungimento difficile (visto che oggi tutti sono assai consapevoli del proprio sesso), è solo così che si può uscire dalle polarizzazioni maschile / femminile, da “quella fase scolastica dell’esistenza umana in cui ancora esistono squadre”.
Perché Una stanza tutta per sé è un grande libro? Innanzitutto perché è ben scritto. E lo è perché, pur a fronte di una tesi di fondo dichiarata esplicitamente in via preliminare, l’andamento non è scontato, è sempre sorprendente. A Woolf basta sostare sulla riva di un fiume, sedersi a cena, prendere appunti in biblioteca, vedere un taxi fuori dalla finestra… Le basta questo per catturare il lettore e condurlo nel labirinto avvolgente delle sue sensazioni e dei pensieri che, per ciò solo, prendono una certa forma, parola dopo parola. In questo modo Woolf inaugura un canone vero e proprio, un modello che nel corso del Novecento sarà acquisito da altre grandi autrici. Ma è questa stessa cosa del canone a dire dell’importanza di Una stanza tutta per sé. Woolf, in sostanza, anticipa e teorizza Harold Bloom, creando e quasi incarnando la medesima ispirazione. Per rendersene conto basta leggere un passo: “I libri, chissà come, s’influenzano fra di loro. (…) D’altronde, se considerate qualunque grande figura del passato, Saffo, la Murasaki, Emily Brontë, scoprirete che è sempre erede di una tradizione, e la sua figura letteraria ha potuto esistere perché le donne avevano preso l’abitudine di scrivere con naturalezza” (p. 148). È un estratto utile per comprendere anche un altro aspetto rilevante, un punto di forza tutto originale. La qualità artistica cui Woolf sembra tendere come sommo valore e, al contempo, come più alto parametro di valutazione della conquistata libertà espressiva della donna è la scrittura naturale, spontanea, emancipata perché svincolata da qualsiasi condizione. Sono i prodromi di un umanesimo assoluto ed esigente, di un canone ulteriore, dunque, ancor più progressivo, che si è costituito e rinsaldato nel tempo, e che da Woolf è passato per Ursula K. Le Guin ed è giunto oggi fino a Jeanette Winterson. L’età delle poetesse che Virginia attendeva si è finalmente dischiusa.
Un gettone di letteratura su Virginia Woolf e questo libro (da raiplaysound.it)
Dal famoso autore di Fatherland e di altri bestseller è giunto quest’ultimo romanzo. Nella sua versione originale, Act of Oblivion, il titolo del libro richiama l’Act of Free and Generall Pardon Indempnity and Oblivion, approvato dal Parlamento inglese nel 1660, primo anno del governo “restaurato” di Carlo II Stuart. Si trattava di una sorta di amnistia (un regime normativo, per la verità, molto articolato e ricco di eccezioni) per i crimini variamente commessi durante la guerra civile e la “dittatura” di Oliver Cromwell. Da essa erano rimasti esclusi soprattutto i regicidi, coloro, cioè, che avevano partecipato alla condanna o sottoscritto l’ordine di decapitazione del re Carlo I e che, perciò, sono stati oggetto di una vera e propria caccia. Chi è stato catturato, poi, è stato sottoposto a un’esecuzione terribile e prolungata. Harris ricostruisce fedelmente la fuga e l’inseguimento di due regicidi, Edward Whalley e William Goffe, ex ufficiali dell’esercito puritano, realmente esistiti e tra loro imparentati. Essi non sono, però, gli unici protagonisti di queste vicende. C’è anche un personaggio di pura invenzione, un funzionario del Privy Council del sovrano e capo dell’intelligence, Richard Nayler, che, animato da una personale e inarrestabile sete di vendetta, cerca i fuggitivi ovunque e in ogni modo. La scena si divide tra l’Inghilterra e le colonie d’Oltreocenano, dove i due veterani, assistiti da alcuni correligionari, sono costretti a vagare da un nascondiglio all’altro e a vivere ora come reclusi, ora in stato quasi selvaggio. In un susseguirsi di illustrazioni d’epoca assai dettagliate e di accelerazioni quasi western, le avventure proseguono fino all’epilogo, nel 1674, quando si consuma un ultimo e drammatico regolamento di conti.
Il racconto ha alcuni pregi. Scava in una pagina di storia non troppo conosciuta e descrive abilmente luoghi, situazioni e persone, facendo calare il lettore assai bene nel tempo che fa da sfondo alla trama. Tratteggia in modo efficace il fervore e il milieu dei seguaci di Cromwell, spiegando indirettamente moltissime cose sui rapporti tra il retroterra ideologico delle rivoluzioni inglesi e la futura rivoluzione americana. Descrive, infine, con precisione, usando lo stratagemma del memoriale del colonnello Whalley, alcuni snodi critici dell’ascesa e delle aspirazioni largamente utopistiche del New Model Army. Nonostante ciò, in Oblio e perdono c’è qualcosa che, di primo acchito, non torna. Sicuramente manca di risolutezza, una pecca che si traduce in un ritmo molto lento e in intermezzi talvolta noiosi. Ma soprattutto c’è – ed è forse alla base di questa indecisione – una tensione non completamente risolta tra due obiettivi che costantemente si ripropongono e si alternano: da un lato, la decostruzione dei processi, anche psicologici, individuali come collettivi, di chi si ostina a restare ostaggio di pulsioni totalizzanti (il messaggio è: se fare giustizia è necessario, è altrettanto necessario superare il passato e abitare il presente); dall’altro, la riflessione su di uno stadio preciso dell’evoluzione delle istituzioni inglesi, presa come pretesto per valorizzare l’importanza di un’intera tradizione costituzionale e dei suoi equilibri complessi e concretissimi (e, così, della monarchia costituzionale inglese, indipendentemente dall’identità o dalla moralità del “reggente”). Il primo livello, ovviamente, non esclude il secondo. Anche se, nella narrazione, è proprio il primo che pare prevalere, specie nella conclusione, dove chi si salva – meglio: chi Harris immagina salvarsi – è chi appare oramai propenso a cominciare davvero una nuova vita. Occorre aspettare le ultime pagine per sciogliere il dubbio e quello che sembrava un difetto potrebbe anche risultare un pregio, visto che continua a far lavorare il lettore, anche a libro chiuso.
Terzo della “trilogia dello spazio”, che ha come protagonista il dottor Ransom, filologo di Cambridge, That Hideous Strenght sviluppa una trama che questa volta si svolge tutta sulla terra, in Inghilterra, nella piccola (e immaginaria) città universitaria di Edgestowe e nei suoi immediati dintorni. Le forze celesti, tuttavia, non stanno a guardare; e ciò perché il pericolo è grande. Infatti, con la complicità di alcuni professori “progressisti”, un fantomatico N.I.C.E. (National Institute for Co-ordinated Experiments) si sta per impadronire dell’antico bosco di Bragdon, proprietà del Bracton College. L’oscuro disegno, in principio, è quasi imperscrutabile e il giovane e ambizioso Mark Studdock, nuovo sociologo del Bracton, si lascia facilmente irretire nel quartier generale del N.I.C.E., nella vicina Belbury, dove si mette a disposizione di un eccentrico e misterioso gruppo di comando, capitanato dal vice-direttore Wither. Nel frattempo, però, Jane, la moglie di Studdock – che Wither vorrebbe a Belbury per poterne sfruttare le innate capacità predittive – trova ricovero a St. Anne, in una strana dimora, nella quale convergono, come a “corte”, tutti gli alleati di Ransom, ivi compreso un grande e docile orso chiamato Mr. Bultitude. Il filologo, reduce dai suoi viaggi interplanetari, è perfettamente cosciente della gravità della battaglia che si va preparando e dell’importanza della posta in gioco: il piano del N.I.C.E. è chiaro, c’è un’orribile e temibile forza che lo muove e che si propone di minacciare definitivamente quello che resta di un antico ordine naturale, muovendo da Edgestowe, instaurandovi un regime di polizia e trasformando tecnologicamente gli uomini in meri strumenti di una nuova religione scientista. Fortunatamente, l’alleato che il perfido Wither cerca nel bosco di Bragdon si risveglia prima di essere scoperto e si presenta, quasi provvidenzialmente, al cospetto di Ransom: dopo secoli di sonno, Merlino è tornato e, grazie alla sua intermediazione, la potenza di Maleldil si manifesterà con tutta la sua forza e non lascerà alcuno scampo ai suoi sventurati avversari.
Pubblicato nel 1945, e subito recensito da Orwell, questo romanzo offre un gradevolissimo spaccato della missione letteraria di Lewis: modernità, disincanto e fede nella scienza hanno convertito l’uomo e la sua visione del mondo, dandogli l’illusione di averlo consegnato a se stesso e per ciò solo liberato; ma la perdita di una prospettiva cosmologica può essere fatale e preludere al dominio irresponsabile di pulsioni tanto incontrollabili quanto apparentemente razionali. Occorre, dunque, tornare al mito, che può essere, in questa cornice, anche un fedele alleato della religione, nella comune finalità di rammentare all’uomo quanto la sua vita possa essere realmente apprezzata se non nella piena accettazione di un limite foriero di gioia e semplicità. In That Hideous Strenght – il cui sottotitolo spiega ogni cosa: “una favola per adulti” – il messaggio è quasi più efficace che nelle Cronache di Narnia; e forse, qui, addirittura, Lewis si rivela, per un attimo, più diretto di Tolkien e di molti altri Inklings. In primo luogo, infatti, ci sono passaggi, dal tenore scopertamente pedagogico, in cui la visione di Lewis si fa particolarmente esplicita, e non solo per gli insegnamenti di cui i personaggi si fanno testimoni, ma anche per il modo assai felice con cui questi se ne fanno portavoce dal punto di vista antropologico. In secondo luogo, è l’ironia a farla da padrone, in un susseguirsi di scene, talvolta esilaranti, nelle quali la pochezza – certamente spirituale, ma non solo… – dei cattivi e delle loro schiere viene messa totalmente alla berlina: come se l’Autore avesse voluto rappresentare, ridicolizzandola, l’estrema debolezza dei poteri cui l’umanità rischia di mettersi al servizio; poteri che sono, viceversa, tremendi solo per i danni che possono causare all’umanità stessa e alla terra che li ospita. Si può restare sorpresi dal tratto talvolta misogino e conservatore dell’universo lewisiano. E non è una mera impressione. Ciononostante il racconto dello scrittore britannico, gustoso e divertente come pochi, trasmette ancora intuizioni che fanno riflettere e che, anche a più di mezzo secolo di distanza, nascondono pillole di saggezza.
Recensioni (di Roberto Persico; di Gianfranco Franchi; di Andrea Monda)
Il romanzo in lingua originale
The Children Act è il titolo originale di questo romanzo, ed è anche la consueta denominazione del “codice dei minori” nella legislazione britannica. Protagonista del racconto, in effetti, è un giudice della High Court, Fiona Maye, impegnata nella sezione che si occupa di diritto di famiglia. L’avvio della storia è un riuscitissimo ritratto di questa figura, del contrasto tra la severità del suo ruolo pubblico e la fragilità della relazione con il marito geologo, e dei casi, molto difficili, che deve affrontare quotidianamente. Tra questi spicca da subito la vicenda di Adam Henry, un adolescente ricco di talento e di entusiasmo, ma malato di leucemia e bisognoso di trasfusioni che, tuttavia, non sono consentite dalla confessione religiosa cui appartiene. L’ospedale nel quale è ricoverato, viceversa, chiede l’autorizzazione a procedere in tal senso, ma i genitori si oppongono, e così dimostra di voler fare, risolutamente, lo stesso Adam. Prima di decidere, Fiona vuole andare fino in fondo e conoscere personalmente Adam. Il colloquio le sembra illuminante: il verdetto viene pronunciato in pubblica udienza e tutto pare risolto. Le cose, però, non sono così semplici, e il caso torna a ripresentarsi, anzi, ad imporsi nuovamente, con tutta la sua problematicità, intrufolandosi addirittura nella vita privata del giudice e condizionandone tutti i comportamenti e i pensieri, fino ad un epilogo sorprendente e disorientante.
Due ragioni per leggere questo McEwan (oltre al fatto che ci troviamo di fronte ad un grande scrittore): 1) i primi tre capitoli sono una lezione quasi perfetta su che cosa sia l’arte di giudicare, specialmente allorché siano in gioco complessi bilanciamenti tra diritti e libertà ugualmente predicabili e pertinenti: aveva davvero ragione chi ricordava che il diritto, più che opera di sola scienza, è necessariamente anche opera di sapienza; McEwan, dunque, ci aiuta a metabolizzare che, soprattutto oggi, di fronte alle hard choices del biodiritto, non possiamo proprio rinunciare a un sapere la cui autonomia diventa tanto più preziosa quanto più rischia di risultare permeabile a influenze – morali, scientifiche, politiche, religiose… – apparentemente irresistibili; 2) il quarto e il quinto capitolo ribaltano la prospettiva e la riaffermano allo stesso tempo, in un quadro di deliberata confusione tra sfera personale e doveri d’ufficio: capitolando dinanzi a un finale che può anche deludere, apprendiamo che il diritto e la sapienza del giudizio non ci rendono immuni davanti alla forza della vita, né possono essere invocati per risolvere ogni possibile questione; di qui l’importanza della coscienza del limite, e l’icona dell’umanità ferita di Fiona Maye – che si scopre, suo malgrado, e quasi per rimbalzo, l’eroina di un dramma degno del tema classico di Tristano e Isotta – è molto efficace. Che dire ancora? McEwan frequenta le cronache giudiziarie da tempo e più di altri ha compreso che il tribunale non è materia noiosa, né sede di sole trame da giallo o da vacuo feuilleton; in altri termini: la giustizia è tornata sulla scena della migliore letteratura, e questa è una buona notizia.
Recensioni (di Livia Manera, di Davide Turrini, di Massimiliano Parente, di Giovanni Dozzini, di Tessa Hadley, di Ron Charles)
C’è un nesso inscindibile tra democrazia e uguaglianza. E quando, di fronte alle disuguaglianze, crescono indifferenza o consenso, allora è a rischio anche la democrazia. Per questo uno dei più noti studiosi della democrazia si è dedicato anche all’uguaglianza, in un volume denso e formativo, che dopo un’appassionante ricostruzione storica propone alcune chiavi di lettura per il presente, giungendo anche ad ipotizzare i lineamenti una personale rivisitazione. Rosanvallon, infatti, ha l’obiettivo di immaginare come possa essere ancora predicabile e realizzabile una “società degli eguali” (e il titolo dell’opera nell’originale francese, pubblicato nel 2011, è proprio La société des égaux). Ma questa espressione non tradisce la fascinazione per un obiettivo utopistico e del tutto scongiurabile. Lo scopo è analizzare, viceversa, quali siano stati i fondamenti dell’uguaglianza dei moderni, per tentare di isolarne le trasformazioni e le degenerazioni, e per contribuire, così, ad una sua ridefinizione, idonea ad assimilare con successo le rilevanti mutazioni istituzionali, sociologiche e antropologiche che si sono date dall’epoca delle grandi rivoluzioni liberali ai giorni nostri (“Oggi si tratta di riformulare le cose tenendo presente che viviamo nell’epoca dell’individuo”: p. 24).
Il libro può essere articolato in tre momenti. Il primo (parti I e II) si occupa, innanzitutto, di illustrare quale fosse, nell’età della Rivoluzione americana e di quella francese, l’originario e costitutivo spirito di uguaglianza, concepito quale strumento di costante trasformazione sociale, ancorato a tre diverse figure di uguaglianza-relazione: la similarità (uguaglianza come titolarità di proprietà essenziali, con secondarizzazione di ogni altra differenza), l’indipendenza (uguaglianza come parità di equilibrio nello scambio economico) e la cittadinanza (uguaglianza come simultanea appartenenza e partecipazione ad una stessa comunità politica). A tali figure corrispondevano tre distinti, ma sinergici, dispositivi: i diritti umani, il mercato e il suffragio universale. Posta questa ricostruzione, però, Rosanvallon passa anche alla descrizione delle patologie che il modello ha ben presto conosciuto, già a decorrere dalla metà del XIX Secolo, al di qua e al di là dell’Oceano, anche se in modo e con ritmo diversi: la divisione in classi e la coeva formazione, nella comunità, di due distinte sub-nazioni; l’emergere di un’ideologia conservatrice, favorevole alla naturalizzazione delle disuguaglianze e all’affermazione di un rigido principio di parità nelle opportunità; la reazione del comunismo utopico e l’ambizione ad un mondo integralmente de-individualizzato; le distorsioni del nazional-protezionismo e della correlata idea di un’uguaglianza-identità di matrice negativa ed escludente; lo stabilimento paradossale di uno stretto rapporto tra uguaglianza e razzismo. Il secondo snodo dell’argomentazione (parte IV) approfondisce gli sviluppi delle politiche redistributive avviate sin dal principio del XX secolo, interpretandole come antidoti che l’intervento statale ha voluto mettere in campo per porre rimedio alle segnalate patologie. Progressività dell’imposizione fiscale; politiche sociali, assicurative e solidali volte a porre rimedio alle situazioni più svantaggiate; ruolo dei sindacati: sono i tre fattori che Rosanvallon considera centrali per l’affermazione dell’approccio redistributivo, vieppiù consolidato dopo il 1945. Sul punto sono molto interessanti i capitoli dedicati all’analisi dei fattori storici che avrebbero stimolato il ruolo attivo dello Stato, tra cui la comparsa del riformismo (anche a causa della “paura” indotta dagli eventi russi del 1917), il primo conflitto mondiale come vettore di una radicale nazionalizzazione delle esistenze, la rivoluzione sociologica e morale mediata dalla diffusione dell’idea del debito sociale. Il terzo momento del saggio (parti IV e V) guarda, infine, al “grande rovesciamento” prodottosi nell’ultimo trentennio – complice anche il cambiamento dei fattori di produzione e delle forme del lavoro – con la delegittimazione delle istituzioni solidaristiche e del sistema fiscale, e con la metamorfosi della preponderante lezione individualista. Vengono analizzati, con felice acutezza, la retorica del merito e dell’uguaglianza radicale delle opportunità, traguardati nel contesto della società della concorrenza generalizzata e del rischio, così, che si consacri, di fatto, un mondo ordinato in senso fortemente gerarchico. È così che Rosanvallon passa ad opporre un “primo schema” per la teorizzazione di una innovativa dottrina dell’uguaglianza-relazione, che non intende disfarsi dell’individualismo contemporaneo e che, anzi, si premura di valorizzarlo per ritrovare il perduto spirito dell’uguaglianza. Al criterio della similarità, quindi, l’Autore sostituisce quello della singolarità, temperato, però, dal principio di reciprocità e dall’imperativo della comunalità. Sotto l’ombrello di queste parole d’ordine Rosanvallon discute di discriminazione, di politiche di genere, di beni relazionali e di uguaglianza di coinvolgimento, pronunciandosi per l’abbandono del modello del cittadino-proprietario a favore di una versione più socializzante della cittadinanza.
Diversamente da quanto ipotizzato da Corrado Ocone nella sua pur incisiva prefazione, non pare possibile concludere che Rosanvallon abbracci le “posizioni del socialismo e persino di un soft comunitarismo”. Se ciò è vero, quanto meno si deve avere l’accortezza di ricordare che quei termini non richiamano, per Rosanvallon, ciò che normalmente identificano nell’immaginario più scontato. L’impressione, piuttosto, è che questo intelligente professore del Collège de France abbia tentato, con sforzo meritorio, di conciliare i segni distintivi della più attuale ed epidermica contemporaneità con la forza e con la dinamica morali del 1789, postulati ancora come risorse mai più ritrattabili. A chi scrive il libro di Rosanvallon sembra incarnare, semplicemente, la guida meditata per una verosimile ed auspicabile reinterpretazione riformista della realtà che ci circonda. Anche se la pars construens del ragionamento è ancora un po’ troppo vaga, simbolica e programmatica (il richiamo finale ad una rinazionalizzazione della democrazia è troppo stringato per acquistare un senso coerente con tutto ciò che lo ha preceduto), è opportuno rimarcare, in tutta la trattazione, un fil rouge notevole, che si dipana in due direttrici. La prima è quella che si risolve nel memento, talvolta esplicito, quasi sempre implicito, che la lotta per uguaglianza è vitale per la democrazia nella misura in cui ne incarna il veicolo dell’altrettanto vitale necessità del conflitto: volervi porre fine equivale invariabilmente ad agevolare pericolosi disegni di identificazione e di rigetto. Oltre a ciò, nel modo con cui Rosanvallon lascia esprimere e spiegarsi le tante letture che evoca nella sua lunga dissertazione, si intravede la valenza determinante, per le questioni dell’uguaglianza, e pertanto anche per quelle della democrazia, dell’immaginario collettivo e della proiezione di sé, nella società di appartenenza e nel mondo. Anche le procedure (quelle elettorali, ma pure quelle decisionali) non possono essere estranee a questa cornice. E le politiche sociali, del lavoro come dell’istruzione, sono funzionali proprio alla capacitazione effettiva dell’individuo, affinché, cioè, possa essere e sentirsi parte attiva e positiva della comunità. Dunque non si tratta, soltanto, di costi cui corrispondono diritti tanto fondamentali quanto condizionati; si tratta di azioni continuativamente costituenti della stessa forma sociale, visto che, per tramite di una parziale de-individualizzazione, rendono potenzialmente accessibile un certo e basilare grado di civismo, motore, a sua volta, di un più sano individualismo. Il punto non è banale. Bisogna sottolineare, infine, l’altra ricchezza di questo testo: che risiede nell’efficace e poderoso esercizio di storia delle idee che il tema dell’uguaglianza dischiude pagina dopo pagina. Ci si sente a diretto colloquio con molti grandi: da Sieyès a Tocqueville, da Adam Smith a Rousseau, da Guizot a Blanc, da Cabet a Proudhon, da Bourgeais a Jünger, da Rawls a Dworkin, da Barthes alla Nussbaum. Sono conversazioni che nell’attuale saggistica non si ha modo di praticare con analogo piacere e con altrettanta soddisfazione.
Interviste all’Autore (di Sylvain Bourmeau, di Fabio Gambaro)
Recensioni (di Massimilano Panarari, Anna Hollendung, Daniel Bel-Ami, Anais Camus)
Quale politica nell’età dell’estrema ineguaglianza (di Pierre Rosanvallon)
Leggere Wendy Cope significa comprendere nel modo più diretto ed istintivo che cosa voglia dire l’espressione “fare il verso” e come sia possibile conciliare in un’unica identità una normalissima insegnante del Kent e una pluripremiata e popolare poetessa. C’è del casalingo, del sicuro, in questa figura, soprattutto nella sua irrefrenabile ricerca della rima, che strizza sempre l’occhio ad un senso ordinario delle cose e all’opinione più scontata, forse a quella che, come tale, e sia pur nella sua linearità, è la più serena e felice. Nello stesso tempo, però, c’è anche grande ironia, voglia di prendere in giro e di prendersi poco sul serio, desiderio di non stupire e di dare voce anche alle più piccole emozioni: come se anche quelle più grandi non possano che essere comprese per assemblaggio di istantanei quanti di positività, magari nella speranza, volta per volta, che l’insieme, anche se appare vuoto, ci comunichi un tanto sperato e quasi sorprendente senso di pienezza.
Emergono diversi protagonisti in questo “assaggio” di Cope, comprese, per così dire, le sue più celebri hits. Spicca tra tutte la “creatura” per eccellenza, Mr. Strugnell, di Tulse Hill, piccolo sobborgo londinese, con gli imperdibili e saggi sonetti (pp. 69 ss.) e con i fulminanti e quasi comici haiku (p. 83) di cui questo alter ego figura come il disincantato e pur tormentato autore. Possiamo apprezzare, poi, Il mio amante, decisamente un capolavoro, così come tutti gli altri brevi pezzi sull’amore, “addormentati” e come “avvolti” in se stessi, tra evidenti parodie, passioni durature, istinti facili e una specie di “sconfortante dolcezza”. E, infine, perla tra le perle, L’angolo degli ingegneri, che in verità apre il volume e che dice molto, quasi con sarcasmo, sullo stato di solitudine in cui versa il poeta: L’incertezza del poeta (p. 87) è più di una scontata variazione sul tema, e Lettura poetica (p. 155) è la messa in scena della nozione farsesca che della poesia ha la maggior parte della gente, ivi compresa quella che si ritiene più “colta”.
Il curatore di questa prima silloge italiana – cui si deve senz’altro un plauso, perché non è per nulla semplice tradurre la semplicità fatta verso – avverte che la “leggerezza” è la cifra distintiva di Wendy Cope. In effetti, ci sembra di ritrovare qualcosa di Collins (nell’assunzione di uno sguardo quotidiano e nell’esser stata poeta laureato) e qualcosa di Ginsberg (nella tendenza alla canzonatura), ma anche, in alcuni passaggi, qualcosa di Wilcock (nel linguaggio paradossale dei sentimenti) e di Sermonti (per intendersi, di quello, inatteso, de Ho bevuto e visto il ragno).
È il gusto dello scherzo ad essere onnipresente, anche sotto forma di impertinente civetteria ed anche quando ci si potrebbero attendere, per immagini o temi, toni banalmente malinconici o comunque venati di agrodolce consapevolezza. Se si volesse individuare un divertito manifesto dell’atmosfera sostanzialmente light della poesia di Wendy Cope, allora si potrebbe dire che Progredire nella noia (p. 129) ne potrebbe essere un capitolo importante: Un compagno e una casa è tutto ciò che amo; / ho trovato un rifugio da cui non puoi distrarmi; / non ho altre ambizioni, e quel che bramo / è solo continuare ad annoiarmi.
Penso che l’immagine più ficcante per rappresentare l’idea che questo libro mi ha lasciato sia questa: nella poesia e nella letteratura, come anche nella vita, tra la coltivazione delle orchidee e quella dei gerani, scegli sempre la seconda; bastano piccole zappature serali e un po’ di fondi di caffè per rendere il balcone una cascata di coloratissimi spunti vivaci. Se poi hai anche il tempo di sorbirti una birra fresca al pub, in compagnia, allora il gioco è fatto.
Canzoncina per i poeti
Per me tutti i poeti erano byroniani,
perversi, un po’ pericolosi e strani.
Poi ne incontrai qualcuno. È buffa la realtà:
l’acqua tonica liscia è più frizzante,
un piano-pensionati è più rassicurante.
Eppure ti assicuro, non molto tempo fa
Per me tutti i poeti erano byroniani,
perversi, un po’ pericolosi e strani.
Definendo il problema
Non posso perdonarti. E se anche lo potessi
non mi perdoneresti tu d’averti visto dentro.
Ma non posso nemmeno guarire dall’amore
per ciò che mi sembravi prima di smascherarti.