In questa edizione, Adelphi raccoglie in volume unitario due libri di racconti di Kipling: Puck il folletto (Puck of Pook’s Hill, 1906) e Il ritorno di Puck (Rewards and Fairies, 1910). Del famoso e grande scrittore si conoscono e apprezzano, usualmente, titoli divenuti quasi leggendari, come Il libro della giunglaKimCapitani coraggiosi. Opere che a lungo sono state consegnate al genere spesso ambiguo della letteratura per ragazzi, pur affermandosi a più riprese il loro intrinseco valore formativo, anche per gli adulti. Da questo punto di vista, Kipling, che è stato pure un abile poeta, è ricordato universalmente come l’autore di If, un componimento che ha la stessa tensione pedagogico-esistenziale – e altrettanti successi di citazione – dell’altrettanto celebre Ithaca di Costantino Kavafis. Ma, in realtà, più che in ogni altro luogo, la statura di Kipling – “the power of observation, originality of imagination, virility of ideas and remarkable talent for narration which characterize the creations of this world-famous author” (cosi nella motivazione del Nobel, assegnatogli nel 1907) – si apprezza nei morbidi, caldi, e suggestivi pezzi di Puck. Questo, come è noto, è il nome dello spiritello che anima la trama di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. A lui, e alle sue improvvise comparsate, Kipling affida gli incontri che due bambini, Una e Dan, fanno – nel loro giardino, nel bosco e nelle campagne circostanti, in un borgo sulla costa sud dell’Inghilterra – con personaggi di ogni genere, piccoli e grandi protagonisti della millenaria epopea britannica. I quali, tra storia e invenzione, raccontano avventure mirabolanti, curiose e talvolta divertenti, eppure ricche di stimoli, ispirazioni e inclinazioni morali.

Gli interlocutori e i protagonisti di queste fairy tales sono vari: un’antica divinità sassone; un cavaliere normanno giunto in Inghilterra al seguito di Guglielmo il Conquistatore, che narra anche di un viaggio assieme a una ciurma di danesi alla volta dell’Africa; diversi nobili normanni, vissuti al tempo di Enrico I; un soldato romano che ha combattuto sul Vallo di Adriano prima della ritirata delle legioni; un ebreo proveniente direttamente dal tempo in cui è stata scritta la Magna Charta; una cortigiana della regina Elisabetta; un cacciatore dell’età del ferro; il marchese di Talleyrand e Napoleone; due guerrieri irochesi; un capomastro medievale; Francis Drake; un medico-stregone del Seicento. E la lista potrebbe continuare. Sicuramente la traiettoria scelta da Kipling è singolare e la scommessa è alta: come introdurre e appassionare un giovane lettore al cuore primitivo e profondo della storia del proprio paese? Con la magia e il mistero, naturalmente. Ingredienti che, a loro volta, si prestano a combinare una pozione utile ad altri scopi: trasmettere un messaggio sull’uomo e sul destino di ciascuno; e così sul coraggio, sull’attitude che quello stesso messaggio richiede. Perché, in verità, il mondo che si deve affrontare è come una cornice da cui è impossibile uscire. Ad essere incatenati, a ben guardare, ed anche da morti, sono tutti i personaggi che compaiono a Una e a Dan; sicché il simpatico Puck dimostra tutto il suo lato diabolico. La maledizione è messa in scena pressoché esplicitamente nel bellissimo Ferro Freddo, un racconto in cui Kipling quasi anticipa Tolkien e identifica proprio in un anello metallico l’immagine delle catene cui l’uomo è condannato dalla civilizzazione. Ma poco dopo, ne Il Coltello e il Nudo Gesso, l’orizzonte di una inevitabile dannazione sembra riscattarsi nella saggezza che sa dare la coscienza di appartenere alla medesima progenie. Chapeau al grande scrittore.

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Javier Marías è autore di grandi romanzi (in proposito bisogna dire – ne approfitto – che Nella schiena del tempo e Il secolo sono molto migliori de Gli innamoramenti e, forse, anche del celebrato Berta Isla). Il fatto è che Marías è forte pure nei racconti. Lo provano quelli riuniti in un unico contesto nel 2012 e proposti al pubblico italiano in questo volume del 2020. Sono davvero interessanti. Alcuni spiccano semplicemente per bellezza; perché tutto – tempi, articolazione, lunghezza – funziona alla perfezione. Altri, invece, oltre ad essere anch’essi gradevoli, offrono qualche spunto in più per capire meglio dove sia l’originalità dello sguardo, o del metodo, di Marías. Partiamo dai racconti veramente belli, che tra l’altro non sono pochi. Sangue di lancia, ad esempio, è quello che mi ha colpito di più: si scopre lentamente, è una specie di giallo, risolto per ostinazione a molti anni di distanza da un barbaro delitto, e la storia procede come un’allucinazione, per rivelare alla fine un’incredibile, ma semplicissima, verità. Le dimissioni di Santestieban è un’efficace e curiosa storia di fantasmi, che tuttavia serve per rappresentare in modo perfetto una simbolica traiettoria personale e, forse, anche antropologica. La canzone di Lord Rendall è un’altra forma di visione, in cui il tema classico del reduce è sublimato in una sorta di sogno drammatico. Un epigramma di lealtà, invece, è un arguto, indiretto tributo a tutti coloro che sanno dare un vero valore alla letteratura. La rassegna potrebbe continuare: il libro contiene una trentina di pezzi, che – come anticipato – si lasciano anche apprezzare per la loro natura sintomatica. Dicono di Marías moltissime cose. Penso, sempre in via esemplificativa, a Mentre le donne dormono, a Binocolo rotto, a Quand’ero mortale, a Meno scrupoli, ma anche a Un senso di cameratismo. In tutti questi racconti si produce la sensazione che l’Autore segua la tecnica di quel tipo di immaginifica immedesimazione di cui sono capaci, per lo più, soltanto i bambini: ora facciamo che eravamo… La differenza, rispetto a quell’approccio, è che Marías non lo applica in una dimensione di gioco, ma lo riserva a situazioni drammatiche, tristi o malinconiche, sulle quali si concentra con assolute e partecipate immersioni di pensiero. Ciò gli consente – quasi parlasse da solo, quasi si sforzasse in una costante e potente autoanalisi – di scavare con naturalezza e libertà in tutte le possibilità disponibili, sul piano degli accadimenti come su quello dei sentimenti, ed anche in quelle apparentemente più assurde o fantasiose; e di guardare, attraverso questa lente, anche se stesso, come dall’esterno, traendone una specifica, personale consolazione. Tutto ciò suscita irresistibile comprensione ed empatia, e produce un piacevole effetto anestetico di consapevolezza e di accettazione universali. Ecco, a leggere Marías viene spontaneo pensare, simultaneamente, a Edward Hopper e Calderón de la Barca. Niente male.

Recensioni (di M. Camerini; di V. Martinetto; di D. Mattei)

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