Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, l’esule Alberti, poeta spagnolo in fuga dal regime franchista, soggiorna anche a Roma. Prima in Via Monserrato, poi in Via Garibaldi. Diventa così un emozionato e curioso girovago: esperto di quello spazio singolare, al di là e al di qua del fiume, che da Trastevere passa per il rione Regola e arriva a Piazza Navona e poi a Piazza di Spagna. Roma, pericolo per i viandanti – pubblicato nel 1972 – è il frutto e la testimonianza, quasi diaristica, di quell’esperienza; oltre che dell’amicizia con Vittorio Bodini, che della raccolta è il finissimo traduttore. Vediamo Alberti, ironico e dissacrante, mettersi sulle tracce del nume ispiratore di Giuseppe Gioachino Belli; ascoltare rapito la voce dell’acqua che gorgoglia nelle fontane; schivare attento auto e spazzature (e fastidiosi odori) nei vicoli; frequentare ammirato altri artisti; osservare di soppiatto chiese e palazzi; fare la spesa a Campo de’ fiori; aggirarsi, e smarrirsi, nel buio, alla ricerca e alla captazione del mito, del sogno e della bellezza. Non ci sono pezzi mal riusciti in questa silloge, che del resto è punteggiata, sin dal principio, da esplicite invocazioni, o dediche, alla migliore e più grande tradizione iberica (Quevedo, Lope de Vega, Gongora, Cervantes). Quella di Alberti è una notevole prova di nobile ed elegante poesia.

Soprattutto – e pure oggi, quando tante cose paiono cambiate – questo libro è un efficiente apriscatole sentimentale: il che equivale a dire la bacchetta tuttora funzionante per chi intenda provare a scoprire Roma come un rabdomante del demone che le è segretamente impiantato. Perché Alberti ha compreso bene che per entrare nella città occorre lasciarsi catturare e guidare dalle vibrazioni che sono alimentate dai tanti battiti e dalle altrettante contraddizioni che la attraversano: tra alto e basso, sublime e volgare, luce e oscurità, pieno e vuoto, caducità ed eternità. È come entrare in un circolo vizioso, un anello di ricorrenze, inseguimenti e illusioni, rappresentato al meglio in alcuni dei Notturni qui offerti da Alberti, capace di formulare in versi quasi un algoritmo del disorientamento; o di accendere, se si vuole, una centrifuga che ammalia e disperde e infine riporta al punto di partenza: che in definitiva è il rapporto con se stessi, traguardato nella misura sempre variabile tra la posizione di sé e il miracolo di tante cose, piccole e grandi, brutte e graziose. Pericolosa, quindi, è Roma per chi vi fa approdo, perché suscita stupore, abbaglia e al contempo abbatte e disorienta, sferzando di banale, osceno e grottesco ogni possibile esaltazione. Ma proprio nel mezzo insiste l’occasione per accedere alla meraviglia e scoprirsi. E Alberti è pronto a indicarcela.

Alberti a Roma (da un documentario in lingua spagnola)

Ricordi su Alberti (da Teledurruti)



È un reato…?

È un reato sedersi al mattino

a udire la parola delle fonti,

diventare un rumore, essere l’eco

di un sussurro infinito assorto in sé?



È un reato far scivolare sugli alberi

lo sguardo, e poi calarlo giù dai rami,

rovesciarlo sul prato, distaccarlo

da un fiore per fissarlo su altri fiori?


Vagare ciechi amanti, ormai dimentichi

di quell’ora mortale che li accerchia,

sognar che il sogno può essere sogno

di un’altra vita senza soprassalti?



È un reato che tutto questo appaia

un reato, mentre il reato vero

è il nostro tempo che non dà respiro

a compiere ogni giorni tali crimini?

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