V13 è la sigla di un noto processo svoltosi a Parigi per gli attentati terroristici di venerdì 13 novembre 2015. Quel giorno un gruppo di giovani islamici radicalizzati e armati, partiti in auto da Bruxelles e operanti nel nome dell’ISIS, ha messo in atto una serie di azioni omicide: al di fuori dello Stade de France; dentro la sala del Bataclan, dove si stava svolgendo un concerto rock; davanti ad alcuni noti, e affollati, locali e caffè. Tra i killer c’è stato anche chi si è fatto saltare in aria, azionando cinture esplosive. Alla fine sono morte 130 persone. Ma le vittime (feriti, invalidi, persone in vario modo traumatizzate…) sono state molte di più. Come inviato freelance di un periodico, Carrère ha seguito tutto l’iter processuale, dalla prima udienza alla lettura della sentenza, pubblicando a puntate una serie di resoconti settimanali, che ora sono stati raccolti in volume e ordinati in tre parti: le vittime; gli imputati; la corte.

Nella prima parte lo scrittore spiega la struttura del giudizio e il relativo programma, dedicando, poi, apposito e ampio spazio alle voci e alle storie di chi ha subito l’attentato. È una galleria costellata di vite improvvisamente interrotte, di dolori profondi e paralizzanti, di immagini di sangue e di ferite, di sensazioni strazianti, e di rapporti che Carrère costruisce empaticamente anche con i familiari di chi è morto. La seconda parte, invece, è dedicata agli accusati, o meglio a chi non è esploso ed è stato infine catturato. È percorsa dal desiderio di capire, di ricostruire per quanto possibile i contesti familiari e sociali, e la psicologia, degli imputati, visti in azione nei mesi, nelle settimane, nei giorni e nelle ore antecedenti agli eventi. Ne esce un quadro contraddittorio, disegnato da un intreccio di silenzi e di dichiarazioni occasionali, e raffigurante, in larga parte, un complesso di traiettorie personali tanto sbandate quanto indecifrabili. La terza parte, infine, è quella delle arringhe di accusa e difesa, dell’analisi delle rispettive strategie e dell’attesa del verdetto. Carrère si sofferma bene sia sull’eloquenza degli avvocati, sia sulle capacità degli accusatori, sia – ancora – su specifici snodi tecnici di alcune questioni giuridiche (che dimostra di descrivere assai bene). È la fase in cui emerge nel modo più palpabile la speciale sensibilità che l’Autore manifesta sin dalle prime pagine per le dinamiche della giustizia.

Tutto il libro è percorso da interrogativi fondamentali, talvolta espliciti, talaltra impliciti, ma inequivocabilmente presupposti: a che cosa serve il giudizio? Qual è il ruolo dei soggetti che sono chiamati ad animarlo? Si possono difendere degli indifendibili? Si può davvero ristorare il dolore patito? Del processo, in realtà, lo scrittore avverte – si direbbe – una funzione catartica: come luogo privilegiato per il riconoscimento che le vittime cercano o per l’incontro che proprio lì possono fare con i loro carnefici e con i rispettivi parenti, e che può preludere anche percorsi esistenziali riparativi, particolarmente articolati; ma anche come margine istituzionale comunque necessario, in cui riaffermare le radici della convivenza e le ragioni di un nuovo inizio, perché, in questa prospettiva, il processo è il modo “per trasformare l’emotività in diritto” ed evitare che “vada persa” senza frutto. Più, e forse meglio, di altri e tanti testi V13 dimostra plasticamente come e quanto la giustizia dello stato di diritto e la sua ritualità, pur non riuscendo a risolvere ogni cosa, possano farsi filtro efficace di pulsioni pericolose o autodistruttive. E contribuiscano, dunque, in maniera determinante, a rilegittimare i poteri pubblici e a rinnovare il patto sociale.

Recensioni (di M. Cecchetti; C. Consoli; D. Coppo; V. Latronico; A. Mittone; M. Moca; G. Silvano; M. Zanon)

Un’intervista all’Autore

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Tra gennaio e febbraio dell’80 a.C., nella Roma di Lucio Cornelio Silla dictator, si intrecciano due diverse avventure: una ha per protagonista un centurione, Tito Annio Tuscolano, scortato dai suoi fidi compagni, Astragalo e Gabello; l’altra vede impegnato Marco Tullio Cicerone, al tempo ancora poco noto, nel suo primo importante processo penale. Tito Annio è stato ingaggiato dal potentissimo Marco Licinio Crasso e deve scoprire dove si rifugia Mezzo Asse, noto gestore di lupanari e unico superstite di una sanguinosa strage, nella quale ha trovato la morte anche un ricco e potente commerciante di tessuti, Marco Villio Cincio. Cicerone, invece, è stato contattato da Cecilia Metella Balearica Maggiore, influente e rispettata ex vestale, che vuole assicurare una difesa a Sesto Roscio, un imprenditore agricolo accusato dai cugini di aver ucciso il proprio padre. La materia su cui si intrecciano i due intrighi è rovente. I parenti di Cincio sono pronti a tutto, pur di vendicarlo. Soprattutto, Cincio, che era in stretto collegamento con il vittorioso ed emergente Pompeo, sarebbe diventato presto senatore. Qualcuno, forse, lo voleva morto? Non meno difficile è la situazione in cui si trova Cicerone: come mai i principi del foro hanno rifiutato di assistere Sesto Roscio? Perché ad affiancare il giovane oratore si presentano anche tre focosi e ambiziosi rampolli di famiglie notoriamente avverse allo strapotere di Silla? Mentre Tito Annio e i suoi compagni, tra risse, grandi bevute e lunghi inseguimenti, sono alla caccia di Mezzo Asse, Cicerone prepara meticolosamente il processo, maturando rapidamente la convinzione, pur riuscendo vittorioso, di essere egli stesso al centro di un inganno quanto mai torbido. È l’idea che, alla fine, si farà tragicamente anche Tito Annio, quando le due storie si uniranno, portando alla luce i collegamenti tra i delitti e la matrice cinicamente affaristica che li lega a Crisogono, spregiudicato e intoccabile protetto di Silla.

Romanzo storico e thriller allo stesso tempo, Il diritto dei lupi è una piacevole opera prima, che si legge con un certo trasporto, risultando perfettamente adatta allo svago da ombrellone. La lunghezza (si tratta di più di 700 pagine…) potrebbe spaventare – e non c’è dubbio che, forse, qualche passaggio è un po’ troppo prolisso – ma la scrittura è briosa ed efficace. Riesce suggestiva, inoltre, l’idea di trarre spunto da una reale vicenda processuale, quella di cui reca traccia la Pro Sexto Roscio Amerino, autentica orazione ciceroniana, che vien voglia di leggere integralmente. È come se gli Autori avessero voluto ricostruire il cantiere di quel testo, immaginando i timori, le ambizioni e anche le debolezze di un giovane, promettente avvocato, colto e intelligente, eppure ancora ingenuo, combattuto tra le virtù pratiche dei sofismi e la ricerca della verità. Sullo sfondo, poi, c’è la vitalità complessa di Roma antica, ricostruita e vissuta attraverso le gesta di Tito Annio, Astragalo e Gabello, e rappresentata molto bene nel contrasto tra il suo essere epicentro e modello etico, culturale e istituzionale, e la sua vocazione, anch’essa eterna, e purtroppo attualissima, a costituire il “mondo di mezzo” per eccellenza. Come a ricordarci, in sostanza, che tra le profondità oscure della Suburra e le ambizioni che si coltivano attorno ai palazzi del potere c’è sempre stata più di qualche comunicazione. L’ultimo dato positivo di questo romanzo è la figura stessa di Tito Annio, l’ex legionario di lunghe e dure campagne belliche, senza paura, in parte rozzo e in parte addomesticato, ma in ogni caso irriducibile, integro e a tratti quasi romantico. In poche parole, è il perfetto protagonista per ulteriori, auspicabili scorribande letterarie.

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Il corpo di una ragazza austriaca, Johanna Pichler, viene trovato nella campagna di San Stino di Livenza. Le indagini arrivano presto a Martin Scherer, un giovane di San Candido. La ragazza, infatti, indossa ancora la felpa di Martin e prima di sparire era stata vista in atteggiamenti intimi proprio assieme a lui. Quasi subito, inoltre, si scopre che, nella notte in cui è scomparsa, dal telefono di Johanna è partita una telefonata: è rimasta parzialmente registrata nella segreteria di un’amica e, ascoltandola, si conoscono sia il tentativo di Martin di trattenere Johanna a casa sua, sia la volontà di Johanna di tornarsene in autostop a Sillian, a soli tredici chilometri da San Candido. Martin, dunque, viene arrestato e Marco De Vitis, avvocato bolzanino di belle speranze, ne assume la difesa. Nella tesi degli inquirenti ci sono tante cose che non tornano. È vero che Martin, in passato, ha fatto il cameriere a Jesolo, ma non ha la patente; come avrebbe potuto trasportare il cadavere in un luogo così lontano? Si pensa, certo, a qualche complice, ma non è facile individuarlo. E poi Johanna è stata minacciata anche da un camionista, detto l’Olandese, che talvolta frequenta gli stessi locali. Per Marco – che istintivamente crede all’innocenza di Martin – il caso è importantissimo e vi si butta a capofitto. Cominciano in questo modo quasi tre anni di indagini e di attività processuali, durante i quali Marco, anche con l’aiuto del Prof. Serra, noto e affermato penalista, segue ogni pista possibile. Il giudizio di fronte alla Corte d’assise conoscerà alcuni colpi di scena e l’immersione di Marco nel caso e nei suoi misteri si rivelerà totalizzante e decisiva, fino alla fine.

Nella bandella laterale il libro si auto-presenta come un legal thriller. Ma lo spazio della fiction è totalmente sovrastato dalla ricostruzione giudiziaria. Ne risulta una sorta di ibrido, sospeso tra il true crime e il courtroom drama. È un carattere che conferisce al racconto una spiccata originalità. Ciò non dipende soltanto dal fatto che la fonte dell’ispirazione è una storia vera, messa su carta con il contributo diretto, e tecnico, di uno dei suoi protagonisti. È che la narrazione non aderisce ad un canone classico di verosimiglianza, bensì ad un registro realistico e quasi didattico. Se ci si aspetta un poliziesco, un giallo o un libro “alla Carofiglio”, si può restare spiazzati. Viceversa, se si vuole capire come possono funzionare delle indagini e come può articolarsi un processo penale, si può ricevere un quadro abbastanza fedele. Viene affrontato con chiarezza, ad esempio, il tema generale dei diritti della difesa e il problematico – e tutt’altro che raro – ricorso a tecniche indebite di interrogatorio. Si comprende bene, poi, come si devono formare le prove nel giudizio e come avvengono l’esame e il controesame di un testimone. Non mancano le allusioni al sensibile rapporto che può intercorrere tra le dinamiche della giustizia e il circuito dei media. Soprattutto, è rappresentata in modo assai efficace la tensione strutturale tra la verità storica e quella processuale, specie se la seconda lascia sul terreno qualcosa di irrisolto o di non spiegato. C’è anche un altro profilo – non meno importante – che va sottolineato. Il libro rappresenta un itinerario di intenso e progressivo apprendimento e, ciò facendo, mette in scena in modo convincente ciò che è noto non solo a qualsiasi avvocato, ma ad ogni professionista che voglia ritenersi tale: che l’esperienza sul campo è un costante e irrinunciabile esercizio; e che ci sono sempre vicende e prove difficili, che fanno crescere più di altre.

Una doppia recensione (da Il Corriere dell’Alto Adige)

Un’intervista a Giovanni Accardo

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In una prestigiosa villa sulle colline lucchesi viene commesso un duplice delitto. Esther Bonarrigo, moglie e socia di Daniel, famoso e affermato imprenditore globale della ristorazione made in Italy, viene trovata sgozzata nel parco della tenuta. Non lontano viene scoperto anche il corpo – pluripugnalato – di Jacopo Corti, un restauratore che lavorava proprio lì, alla villa dei Bonarrigo, e che però era stato da poco licenziato. I clamori della cronaca e i fari della giustizia si accendono subito su Daniel: è lui che ha trovato i corpi; suoi sono i vestiti sporchi di sangue che la polizia ha trovato in un pozzo; e si vocifera anche di una relazione clandestina tra Esther e Corti, cosa che potrebbe costituire il movente perfetto. Di lì a poco, dunque, si avvia il processo – anche mediatico – a carico del ricco imputato ed è su queste premesse che comincia la memorabile esperienza dei giudici popolari, che per l’occasione vengono improvvisamente catapultati in Corte d’assise. Il collegio giudicante è bene assortito: Emma è un’imprenditrice snob e ha un negozio di abbigliamento; Serena è una precaria perenne, che da ultimo fa la cameriera in una catena di birrerie; Terenzio è un petulante e arrogante infermiere in pensione; Malcom, giovane italo-scozzese esperto di videogame, è un classico, irriducibile nerd; Iris fa la bibliotecaria, si muove solo in bici e vive ai margini di un bosco; e Ahmed è uno dei tanti forzati che di notte scaricano merci e riempiono scaffali nei grandi centri commerciali. Ciascuno di loro racconta uno spezzone della storia: del processo, naturalmente, e dell’interazione con i giudici togati; delle indagini, delle strategie difensive e del giallo, con l’inevitabile finale a sorpresa, che tuttavia il lettore più attento intuirà senz’altro un po’ prima; ma anche della sua percezione personale di giudice popolare, delle impressioni sugli altri colleghi e, soprattutto, della sua vita e delle sue fragilità, che in qualche caso finiranno per intessere, a latere del giudizio, sia relazioni molto pericolose, sia occasioni particolarmente fruttuose. A ben vedere, in questo romanzo – pur piacevole – non c’è traccia di novità: John Grisham e, prima ancora, Sidney Lumet hanno sdoganato il format da molto tempo e in modo forse definitivo. Scrivere di giurie o di giudici popolari è insidioso. Simoni, certo, rappresenta con correttezza alcune dinamiche processuali e riconfeziona il tutto nel cuore della più credibile e varia (e gradevole) provincia italiana, ma disegnando situazioni e personaggi troppo stereotipici, che finiscono per strizzare l’occhio a ciò che il pubblico di solito si aspetta.

Rassegna stampa

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Dopo averne parlato con alcuni amici e colleghi, mi ritrovo presto tra le mani questo celebre romanzo breve, costretto quasi dagli eventi, quindi, a confrontarmi nuovamente con il sarcasmo e con l’innato istinto del canovaccio e della scena di un autore che si pone tra Kafka e Beckett, e che quindi mi ha sempre disorientato. Ci provo, allora, perché difficilmente resisto a simili tentazioni, e in una serata ripercorro concentrato le pagine di La panne.

Rivedo, così, Alfredo Traps, di professione rappresentante, incappare nella “panne” della sua bella automobile e fermarsi in un paesino, dove è costretto a passare la notte, presso l’unico alloggio disponibile, la bella casa di un giudice in pensione. Era in cerca di “avventure” Traps, speranzoso di incontri fortuiti che quelle occasioni talvolta possono offrire, eppure la delusione è solo momentanea, perché gli altri strani commensali del giudice, suoi ex “compagni” di lavoro, lo coinvolgono, durante una cena tra le più sontuose, in un gioco tanto surreale quanto piacevole e affascinante. Viene inscenato, in questo modo, un “processo”, in cui Traps è l’imputato, e il cui esito, tra risate, motti, disincanti improvvisi e situazioni più o meno confuse, pare quasi inevitabile, essendo il risultato di un’irresistibile, naturale ed improvvisa conquista, per l’ignaro rappresentante, di un’autocoscienza assai gravosa e insopportabile.

Quando spengo la luce, prima di cercare il sonno, sono quattro i motivi che, alla fine, rendono utile la rilettura di un opera non scontata:

1. Dürrenmatt è Dürrenmatt: della serie, “qualunque occasione è buona”, sicché è meglio tenere l’edizione Feltrinelli di tutti i Racconti sempre sul comodino. E dopo La panne – nel mio caso letta proprio in quell’edizione economica e ri-letta ora nella più recente versione Einaudi – si può anche rileggere, per stare in tema, Giustizia, questa volta ri-edito da Adelphi, e poco tempo fa, invece, edito da MarcosYMarcos.

2. Le prime quattro pagine (che con il racconto c’entrano e no, allo stesso tempo, e che, come tali, non si ricordano mai con sufficiente attenzione): perché sono, per Dürrenmatt, l’Arma virumque cano, la protasi di un’intera produzione letteraria, la dichiarazione poetica che ci rammenta che questo eccentrico scrittore e drammaturgo svizzero è originale perché è inattuale, ed è inattuale perché è classico e perché cerca ostinatamente l’incrocio novecentesco tra l’epica, la tragedia e la satira. La storia ancora possibile, così, è un esercizio artistico di ricomposizione tra più forme e più sostanze, ma è anche la migliore denominazione di una parabola, di innegabile impegno morale, capace di rivelare, anche al tempo presente, le dimensioni farsesche e l’ipocrisia delle relazioni umane e delle regole che le governano.

3. La riduzione cinematografica di Ettore Scola (da lui stesso recentemente rievocata): nel senso che La più bella serata della mia vita (1972) è il film che può assicurare – assieme alla lettura de La panne, da cui è comunque tratto abbastanza liberamente – una delle più belle serate del periodo estivo, e peraltro senza il rischio di “fare la fine” del protagonista. Di più, può farci scoprire che la risata di Alberto Sordi, nelle parti del “povero” signor Traps (alias, nella pellicola, Alfredo Rossi), spiega tutto da sola, pur inserendosi in un finale parzialmente alternativo e pur “scoppiando” in un contesto diverso da quello immaginato da Dürrenmatt.

4. La sottile, elegante ed inquietante ambiguità: che è presente nella progressione narrativa e nella potente metafora, cosmica ed esistenziale, che “la panne”, testualmente, propone e addirittura insinua nella mente del lettore; ma che finisce, in particolare, per distendere le sue ombre sulla nostra realtà, sulle corrosioni che l’ambizione e il potere generano in una società perbenista e sulla nostra esperienza della giustizia, che pare poter “trionfare”, ma soltanto drammaticamente, come “incidente di percorso” e come risultato fatale di una rappresentazione esclusivamente grottesca.

Scheda su una fortunata riduzione teatrale (di Edoardo Erba, autore dell’adattamento)

Il Centre Dürrenmatt di Neuchâtel

Un’intervista a Dürrenmatt (del 1969)

Altri suggerimenti (specifici):

1. Il giudice e il suo boia

2. La morte della Pizia

3. La promessa: un requiem per il romanzo giallo

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Succede sempre più spesso che la lettura di incoraggianti recensioni sia la base di promesse altissime che difficilmente vengono mantenute. Eppure, il nuovo libro del giovanissimo Giorgio Fontana, pur rappresentando, purtroppo, una delle tante conferme di questa constatazione, rimane comunque un’ottima e confortante “prova d’artista”.

Il disorientamento e il disappunto derivano dalla sola considerazione della storia che questo libro si propone di narrare. In una battuta: si tratta di un tema tanto significativo quanto “troppo facile”.

Doni, p.m. presso la Procura Generale di Milano, è una figura esperta, che ha sempre lavorato con diligenza, guidato da una stella polare fissa ed immutabile: fare le cose per bene, anche tra tanti colleghi mediocri, anche nel ricordo di un amico e magistrato prematuramente e drammaticamente scomparso. Ora, però, Doni deve affrontare il caso Ghezal e sostenere in appello l’accusa nei confronti di un immigrato apparentemente coinvolto in un tragico caso di cronaca nera. Ma una giovane giornalista freelance, un po’ ingenua e un po’ spiantata, non ci sta e cerca di avvicinarlo e di convincerlo a non fidarsi totalmente delle risultanze processuali. In Doni il dubbio si fa strada, allargandosi alle certezze, molto fragili, della sua vita privata, del suo rapporto con la moglie e con la figlia, del suo microcosmo fatto di abitudini e di sicurezze fin troppo fragili, borghesi e stereotipate. I conti con la vita sono ancora tutti aperti e la città viene in soccorso. Guidato dall’insistenza della giornalista, Doni indaga e scopre un’altra Milano, medita su se stesso e sulle ragioni del suo impegno quotidiano, anche se rischia di mettere a repentaglio la sua carriera e l’orto conchiuso di una tranquillità familiare solo formale…

Come si vede, si tratta di una situazione classica, quella dell’uomo di legge che si interroga sul rapporto tra la sua opera di interpretazione della legge e di applicazione di una “tecnica” e la “vita” che lo circonda, che è complessa, che non riesce a ridursi in fattispecie astratte e nella quale, nonostante ciò, l’umanità esige sempre molte risposte. Ma tutto questo è, come si diceva, un po’ troppo banale. Così come è banale l’idea che la crisi personale sia un’occasione per provare a ridare un senso ai propri affetti.

Il romanzo, invece, è vincente nello stile e nella scrittura, nelle descrizioni di Milano, nell’asciuttezza e nella freschezza di parole che sono sempre adeguate, calzanti, espressive ma misurate, nella definizione psicologica dei personaggi; ma anche in alcune intuizioni felici, come quella sulle “armi leggere”, verso cui la giovane giornalista invita anche il navigato p.m., come a significare che esiste un livello di coscienza civile, e per ciò solo eminentemente “giuridica”, che nasce certo dal fare ciascuno il proprio mestiere, ma dal farlo, innanzitutto, con animo sempre aperto e sensibile, senza timori e senza ruoli predefiniti. Con un attitudine che è accessibile, quindi, ad ogni cittadino.

In questo specifico punto, precisamente, Giorgio Fontana colpisce l’obiettivo, perché connette la dimensione pubblica a quella privata, in un andirivieni propriamente “salutare”, per noi tutti e, naturalmente, per il suo stesso personaggio, nel quale, credo, si debba riporre ancora un po’ di fiducia, dandogli tempo per crescere e dimostrare tutte le sue virtù.

Il blog dell’Autore

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