La Legislatura in corso prevede, tra i suoi appuntamenti più caldi, il dibattito sul cd. “premierato”, un disegno di legge costituzionale presentato al Senato nel novembre dello scorso anno e concernente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Naturalmente la discussione è già montata e si è fatta presto arroventata, sia nel discorso pubblico (sono stati molti, ad esempio, gli editoriali sulle testate giornalistiche nazionali), sia nelle riflessioni strettamente giuridiche (a quest’ultimo riguardo v. i commenti e i contributi prodotti da un gruppo di lavoro formatosi in seno alla Fondazione Astrid; ma cfr. anche le audizioni svolte in Parlamento). Il libro di Michele Ainis, noto costituzionalista, saggista e romanziere, si pone un po’ a metà strada. Con lo stile arguto che lo contraddistingue, l’Autore non cerca solo di fornire ai comuni cittadini gli strumenti conoscitivi per collocare la proposta italiana di riforma nell’ambito delle diverse forme di governo che attribuiscono una diretta legittimazione democratica all’Esecutivo (il “modello statunitense”, la “variante francese”, il “brevetto israeliano”). Né si ferma a soppesare pregi e difetti delle possibili ricette presidenzialiste (rispettivamente, alle pp. 77 e 85). Non gli interessano i “figurini” della modellistica. Più che analizzare in dettaglio la “proposta italiana” (di cui si mettono in luce le imprecisioni, le aporie e le mancanze), gli preme porre in luce alcuni profili, metodologici come di tendenza. 

Dal primo punto di vista, Ainis invita a riflettere su come sia necessario, per poter fare realmente le riforme, riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica. In proposito non rinuncia a qualche provocazione, immaginando, ad esempio, che si possa scegliere (eleggere? Sorteggiare?) un gruppo di persone comuni, cui affidare la formulazione di idee specifiche, ovvero che si possa anche costringere il circuito politico-rappresentativo e le sue articolazioni decisionali a raccogliere nel modo più diffuso, anche online, sollecitazioni o spunti utili al cambiamento. Oltre a ciò, Ainis descrive la tensione trasformativa verso modelli presidenziali come qualcosa di tipico nell’evoluzione più recente dei sistemi parlamentari. Così suggerendo, quasi, che sia quanto mai urgente riallineare la forma alla sostanza anche nel contesto nazionale, che pure, tuttavia, egli descrive in termini assai scettici e preoccupati, data l’onnipresenza – ad ogni livello – di una sfibrante cultura del capo. Se i rilievi concernenti la partecipazione paiono un po’ troppo ingenui, quelli sulla dilagante “capocrazia” – e sulla dubbia opportunità di assecondare un certo trend – oltre a palesarsi come parzialmente contraddittori, finiscono per generare una sorta di irrimediabile pessimismo (tradito in modo assai plastico dal sottotitolo del saggio: “Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno”). Al punto che, in definitiva, il libro lascia il lettore con l’amaro in bocca e con la sensazione che la (lunga) rassegna degli intoppi e degli errori del passato (e del presente) sia destinata a completarsi e a consolidarsi anche nel prossimo futuro. Ma qualcosa di interessante, nei pensieri ad alta voce dell’Autore, rimane. Vale a dire il duplice insegnamento che le riforme che funzionano sono quelle che davvero si configurano come un meditato atto collettivo, e che quest’ultimo evento va in qualche modo promosso e coltivato con una seria consapevolezza dei fallimenti già sperimentati.

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Con l’8 settembre ‘43, in Italia, tutto finisce e, al contempo, tutto comincia. Il fascismo è caduto a luglio e la nuova fase è l’anticamera per un vuoto vero e proprio. La fuga del Re, la “svestizione” di larga parte dell’esercito e l’occupazione del suolo nazionale da parte delle grandi potenze in conflitto abbattono il vecchio Leviatano e lasciano spazio a una situazione di diffusa anomia. In questo contesto, per chi si fa partigiano, prendere le armi e far parte di una banda significa assumere il rischio della morte per affermare uno spazio di autonomia, partecipazione e libertà, in nome di una sovranità da ricostruire dal basso, su basi completamente diverse. Dietro questa ricerca di sovranità si prefigura il modello di un nuovo cittadino. Per una buona parte della guerra di Liberazione, infatti, la “Costituzione dei fucili” non si riduce ad una serie di piccoli eserciti di partito, ma dà vita a un originalissimo dinamismo istituzionale; un’esperienza che cerca di distinguersi e di legittimarsi anche mediante un’ossessiva e rigorosa ricerca della giustizia. Da questo punto vista, si tratta di un elemento da inserire senz’altro nella catena di fattori costituenti che porteranno alla fondazione dell’ordinamento repubblicano. Eppure, secondo l’Autore, si tratta anche di un’energia che tende gradualmente a spegnersi: in parte per la tendenza dei partiti antifascisti a coordinarne e assorbirne la forza; in parte per la parallela resurrezione della vecchia struttura dello Stato; in altra parte per la tensione normalizzatrice che anche nell’Assemblea Costituente privilegia il ruolo principale delle formazioni politiche. Oltre a ciò, a non cogliere la valenza ispiratrice della lotta partigiana sono anche i giuristi. Salva qualche rara eccezione (non solo Piero Calamandrei, ma anche il “primo” Vezio Crisafulli e il Giovanni Miele di Umanesimo giuridico), o tendono a interpretare quella lotta come espressione di un momento di “caduta” o si propongono espressamente di ricostituire una continuità “di apparato” e agevolare una ricostruzione ufficiale.

Storia partigiana della Costituzione è il sottotitolo di questo saggio intenso e originale. La specificazione, però, consente di anticipare soltanto in parte l’importanza dei contenuti del libro e del metodo di ricerca e di riflessione da cui è stato ispirato. Non si tratta di una storia della Resistenza, né del tentativo di riannodare i fili della guerra di Liberazione con le riflessioni e i “risultati” della Costituente. Anzi, per Filippetta quei fili risultano per larghi tratti interrati o addirittura interrotti. Il valore aggiunto del testo risiede, in primo luogo, nell’utilizzo della teoria dell’ordinamento giuridico per spiegare la rilevanza istituzionale delle scelte partigiane, individuali come collettive; in secondo luogo, nel recupero della memorialistica e delle fonti letterarie, unitamente ad una puntuale documentazione d’archivio; in terzo luogo, nella dimostrazione concreta che il dialogo interdisciplinare tra ricerca storica e scienza giuridica è particolarmente fruttuoso. In relazione a quest’ultimo profilo, il libro può considerarsi come una mappa capace di riunire in un legame sinergico i vari approfondimenti che negli ultimi anni sono stati compiuti sul rapporto tra Resistenza e diritto pubblico: di fatto, fa emergere gli snodi salienti di una tipica transizione, di una situazione che corrisponde anche ad una categoria di raccordo, conosciuta dalla storiografia, dalle scienze sociali e dagli studi giuridici. Da questa visuale l’Autore riesce sia a delineare la fenomenologia plurale – e pluri-potente, oltre che extravagante – del (di ogni) potere costituente, sia a spiegare il carattere ambiguo e mutante della (di ogni) dottrina giuridica della crisi, oscillante per definizione tra prospettive apocalittiche e sperimentazioni autoriflessive e pionieristiche. C’è poi un altro dettaglio: l’allusione conclusiva ad una forma di postura giuridica ideale della Resistenza, ad una “Resistenza giuridica perfetta”, che quasi traduce nella rievocazione dell’esperienza giuridica della transizione la lettura “normativa” avanzata da una efficace e conosciuta interpretazione storica. Così facendo, Filippetta prova che c’è sempre una scelta, anche per il giurista.

Recensioni (di A. De Benedictis; di S. Calamandrei)

Resistenza e Costituzione per Giovanni Filippetta

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Come si è giunti in Italia, dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, alla soluzione della “questione costituzionale”? Quali sono stati gli snodi e i protagonisti del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente? Che cosa è accaduto, in particolare, dopo le prime elezioni del dopoguerra, avvenute nel 1948? E come si è sviluppata, in seguito, nella vita del nuovo contesto repubblicano, la discussione sulle possibili riforme della Costituzione? Il saggio di Paolo Pombeni cerca di fornire un contributo articolato allo scioglimento di tutti questi interrogativi, e lo fa – un po’ in modo innovativo, un po’ sulle tracce di un noto saggio di Giuseppe Maranini – collocando il tema in una prospettiva di lungo periodo, e muovendo innanzitutto dalla ricostruzione del problema costituente prima e dopo lo Statuto albertino. Sul punto pare persuasiva la tesi volta a dimostrare come quel problema fosse rimasto sostanzialmente e a lungo inevaso, vuoi a causa dei tanti fallimenti dei moti ottocenteschi che se ne erano fatti promotori, vuoi per l’estrema – ma forse fallace – fiducia della dottrina politica e giuridica nazionale dell’Unità nei confronti di un’assimilazione un po’ ingenua della “teoria inglese” sul ruolo del Parlamento (e sulla naturale idoneità della legge ordinaria a trasformare e ammodernare le regole del gioco). Non sono, inoltre, privi di acutezza anche i passaggi sul valore determinante che, sempre nella prospettiva della mancata soluzione del problema costituente (anche in età fascista), hanno avuto i grandi esponenti della scuola italiana di diritto pubblico, da Vittorio Emanuele Orlando a Santi Romano, preoccupati più per lo studio (certamente all’avanguardia) del linguaggio e della dogmatica dello Stato amministrativo che per la chiara giuridicizzazione (inedita nel Paese) delle relazioni tra le istituzioni di “governo.” Da questo punto di vista, per Pombeni, i tempi sarebbero diventati maturi soltanto dopo il Patto di Salerno, nel 1944, momento in cui, come è risaputo, le forze politiche antifasciste hanno avviato il lungo percorso che ha portato alla formazione della prima vera costituzione nazionale.
L’Autore, nello specifico, analizza in dettaglio alcuni grandi crocevia del dibattito costituente, riferendo soprattutto delle posizioni e delle strategie dei tanti e diversi alfieri di quella fase, dentro e fuori l’Assemblea. Risultano molto interessanti, così, le pagine sul rapporto tra il nuovo Stato e la Chiesa, sulla forza motrice delle proposte dei giovani “professorini” democristiani, sull’astuto pragmatismo di Togliatti e sul disagio – talvolta intelligente, talvolta miope – dei vecchi liberali. Ma non sono meno significative le osservazioni sulla sottovalutazione con cui quella classe politica guardò alla previsione della Corte costituzionale e sulla peculiare posizione di De Gasperi, tanto assente, formalmente, dal lavoro costituente quanto presente, col suo pervicace disegno di governo, nell’opera di necessaria stabilizzazione dello Stato e del circuito politico-rappresentativo democratico, presupposto indispensabile per qualsiasi nuova costituzione. In quanto dedicato a simile profilo, il lungo e denso capitolo centrale, che l’Autore dedica al famoso politico cattolico, dà supporto, lasciandola emergere pienamente, all’ispirazione che regge tutto il volume: le difficoltà della Repubblica, prima e seconda, stanno tutte nell’omesso completamento della trasformazione del 1946, un’impresa che avrebbe dovuto offrire al Paese una dinamica politica, e di governo, fisiologicamente più stabile ed efficace, e che tuttavia è rimasta ancora imprigionata nelle intuizioni di coloro che hanno dato vita alla Costituzione del 1948. Che questa fosse quasi destinata ad essere a lungo “bloccata”, era previsione che aveva animato anche le critiche di Calamandrei: pur imputando il “difetto” ai modi di formulazioni normative del tutto originali, e non tanto alla questione del governo, l’autorevole costituente aveva preconizzato che, in futuro, due istanze sarebbero state determinanti, il Presidente della Repubblica e la Magistratura. E quanto tale vaticinio si sia rivelato (almeno in parte) corretto è un dato facilmente verificabile anche oggi. Conclusivamente, al di là della visione complessivamente espressa da Pombeni – nella quale a tratti ci si può anche ritrovare – il valore del libro sta nella sua capacità di spingere il giurista ad assumere uno sguardo obliquo, una chiave di lettura che lo porti a misurare le rispettive ragioni di note ricostruzioni dell’esperienza costituzionale italiana, tradizionalmente opposte, e a comprenderne con ciò la relatività e, soprattutto, la reciproca insufficienza.
Recensioni (di Mauro Campus; di Matteo Monaco)
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Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli. Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione. Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta. Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore. Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità. Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati). Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui.

Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

L’Autore a Fahrenheit

Due recensioni (rispettivamente, di Sabino Cassese e di Armando Massarenti)

Due ottimi libri sull’eguaglianza (perché oltre a Piketty c’è dell’altro…): Stiglitz e Rosanvallon (su quest’ultimo, v. la recensione)

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Per la preparazione di un convegno ho avuto modo di ripescare questa bellissima lettura, il cui titolo completo è Gli anciens régimes e la democrazia diretta, testo oggi disponibile anche on line con la premessa che fu di Arcangelo Ghisleri. Il volume adelphiano del 1995 riproduce l’ultima versione dell’opera e riporta in chiusura le due prefazioni che l’Autore – avvocato e filosofo socialista di natali svizzeri (1871-1941) – ha dedicato alle diverse e fortunate edizioni del libro (le due del 1902 e quella del 1926). La rilevanza del saggio va ben al di là di ciò che si può immaginare fermandosi alla copertina. La tesi del giovane Rensi è la seguente: tra gli assetti di potere dell’ancien régime e le forme di governo parlamentari può non esservi, di fatto, alcuna differenza se il popolo non ha la possibilità di intervenire direttamente per correggere le ricorrenti degenerazioni del governo rappresentativo. Perché l’effettiva realizzazione della sovranità popolare è sempre cosa molto difficile: la classe dirigente, in primo luogo, tende a ridurre i cittadini in soggetti meramente amministrati, a favore delle strutture burocratiche; ma anche le istituzioni rappresentative possono farsi autoreferenziali, prestandosi facilmente a servire gli interessi dei gruppi al potere. E così, prendendo prevalente ispirazione dalle esperienze statunitensi ed elvetiche, Rensi suggerisce l’introduzione di specifiche forme di referendum, dell’iniziativa legislativa popolare, di un “diritto di revisione” (come possibilità di condizionare il processo di modifica della costituzione), di un sistema elettorale proporzionale e della “nazione armata” (quale principale modo d’essere dell’esercito statale, svincolato dal controllo del solo ceto politico).

Le analisi di questo eccentrico interprete – che spesso è stato vicino a posizioni prettamente liberali, tanto più con l’affermarsi del fascismo, del quale per una prima parte del suo percorso fu strenuo oppositore – stupiscono per molte ragioni: l’acutezza delle considerazioni critiche dedicate all’ordinamento costituzionale della monarchia; la valorizzazione degli studi di Gaetano Mosca, con cui Rensi ebbe anche un interessante carteggio; le considerazioni illuminanti, oltre che attualissime, sul ruolo delle “seconde camere”, sulle propensioni pericolosamente “espansive” degli esecutivi e della loro funzione, sugli inganni e sulle tante trappole che si nascondono nella complessità redazionale dei testi legislativi; l’attenzione costante per l’argomentazione storica e per i raffronti comparativi. La modernità estrema dell’approccio di Rensi si può apprezzare del tutto leggendo anche l’articolo su Lo Stato di diritto (del 1900), che è quasi contemporaneo alla redazione di questo libro e che nel testo di Adelphi è opportunamente posto in Appendice. Basti, sul punto, menzionare che, tra le “riforme urgenti” che Rensi propone già sotto la vigenza dello Statuto albertino vi sono, oltre alla previsione del referendum, anche l’istituzione di una Corte Suprema (sul modello americano, come essenziale guarentigia giuridica della democrazia) e la riforma del Consiglio di Stato (per “garantire l’indipendenza dei suoi membri”) e della Corte dei conti (per eliminare la registrazione “con riserva”).

Sappiamo, certo, che la Costituzione repubblicana del 1948 ha parzialmente raccolto buona parte dei suggerimenti di Rensi. L’importanza di tornare nuovamente al suo messaggio, però, è ancora apprezzabile in un frammento tristemente presago, che è correttamente evidenziato (p. 233) nella Nota di Nicola Emery (curatore del volume e appassionato conoscitore del Nostro) e che risale ad un intervento giornalistico del 1925. È una sorta di monito estremo sul destino politico-giuridico cui rischia sempre di essere ricondotta l’Italia, a causa della reiterata incoscienza dei tanti problemi cui Rensi si è dedicato: “Troppo modesti erano stati quei fascisti che hanno limitato a sessant’anni la previsione della durata del loro governo. Questo sarà invece, probabilmente eterno, nel senso che la ‘fase fascista’ non cesserà più per l’Italia. Non si ripristinerà più per l’Italia il sistema di Governo normale, diciamo lo ‘Stato di Diritto’, l’ordine politico in cui v’è una legge o consuetudine forte come la legge che determina e regola le condizioni e il modo del pacifico succedersi dei partiti al potere. Un tale sistema di Governo fu forse per sempre infranto con l’ottobre 1922. E con quest’epoca l’Italia è entrata forse per sempre nel sistema di governo di quella che, in un certo senso, si potrebbe chiamare la periferia europea”.

Un’intervista al Curatore dell’opera

L’importanza di Rensi filosofo della vita (di Roberto Esposito)

Giuseppe Rensi e il problema della democrazia diretta (di Paola Lubelli)

Aporie dell’autorità e della democrazia. Politica, diritto, filosofia in Giuseppe Rensi (di Francesco Mancuso)

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Dopo la prima puntata sul lavoro, l’autorevole costituzionalista prosegue nell’illustrazione di ciò che sta alla base della nostra Costituzione. È la volta, quindi, della cultura, che qui viene affrontata in modo molto diverso da quello con cui la si considera usualmente nell’ambito degli studi giuridici. Zagrebelsky, cioè, non ce ne parla come del doveroso oggetto di una politica pubblica di tutela e di promozione (in base a quanto previsto dall’art. 9 Cost.); preferisce, per così dire, prenderla per le corna e, dunque, enfatizzarne l’indispensabile funzione sociale, già intrinsecamente costitutiva di ogni ordinamento, al pari dell’economia e della politica. Questa è la ragione per cui l’arte e la scienza devono essere libere e libero dev’essere il loro insegnamento (art. 33 Cost.): in caso contrario, la cultura, da fattore di potenziale emancipazione, può dimostrarsi veicolo di estrema oppressione o di strisciante e quasi spontaneo asservimento. Il ruolo degli intellettuali, così, è decisivo. Il fatto che si possano ridurre solo a consulenti o a consiglieri o a specialisti comporta il rischio che la cultura si faccia servizio, strumento efficiente di conformismi o di posizioni prevalentemente conservatrici. Zagrebelsky passa, di qui, ad un vero elogio delle idee, della loro varia tipologia e delle relazioni reciproche che, in una specie di scala, consentono loro di essere potenti elementi di trasformazione – progettazione – della realtà. Ma ciò accade solo se lo sguardo della cultura e alla cultura è disinteressato e svincolato. L’approccio che i moderni hanno delle idee, infatti, non mira ad una risoluzione o ad una lettura esatta delle cose: i moderni pongono anche i problemi, e sono questi che stimolano la politica e garantiscono, in una conoscenza il più possibile aperta e “non governata”, che la democrazia rimanga tale e per l’interesse generale. 

Le sollecitazioni che si possono trarre da questo piccolo libro sono molteplici e, per un giurista, molto accattivanti, dal momento che risvegliano l’interesse per altre letture più tecniche e ugualmente significative (e con ciò il rinvio corre automatico al classico contributo di Enrico Spagna Musso o ai noti studi di Peter Häberle). I ragionamenti di Zagrebelsky, tuttavia, consentono anche di formulare qualche osservazione su di un dibattito molto attuale. In una contingenza storica nella quale tanto si discute di riforme istituzionali, non è mancata la proposta di sostituire il Senato della Repubblica con una camera della cultura. Anche le reazioni critiche non sono mancate, e i motivi, in effetti, possono essere molti. Non è detto, innanzitutto, che un possibile vuoto debba essere sostituito inevitabilmente: non è detto, cioè, che il sistema debba restare bicamerale. Nel merito, poi, con una camera della cultura si prefigurerebbe un modello di rappresentanza corporativa che anche in Assemblea costituente, pur se autorevolmente sostenuto, non aveva riscosso grandi successi. Infine, esiste già al di fuori dei nostri confini un esempio simile, vivente ed operante, certo, ma di rado additato a riferimento universale, quello del Senato irlandese, che, anche in considerazione della sua composizione quasi-accademica, ha funzioni consultive scarsamente incisive sul piano politico. La lettura del saggio di Zagrebelsky, però, induce a considerare anche un altro e fondamentale profilo: la rilevanza della cultura non si misura soltanto con riguardo all’esistenza di una sede rappresentativa ad hoc. Anzi, la forza delle idee si dispiega proprio quando proviene da una condizione di presupposta libertà del pensiero, che non tollera corsie preferenziali e che riesce a vivificare tutta la comunità e, con essa, tutto l’ordinamento abbracciandoli in ogni loro singola manifestazione. La Repubblica, pertanto, è davvero fondata sulla cultura in quanto gli intellettuali siano liberi anche, se non soprattutto, al di fuori delle istituzioni.

Recensioni (di Simonetta Fiori, di Silvana Calcagno, di Nando Cianci, di Guido Vitiello, di Luigi Mascheroni)

L’Autore a Fahrenheit

La nostra Repubblica fondata sulla cultura (di G. Zagrebelsky)

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Da oggi il blog ospita una nuova “sezione”: La Costituzione… in una pagina. Si tratta dell’avvio di un Commento alla Costituzione italiana, da completare progressivamente (e senza alcuna scadenza…). Per il momento è disponibile una rapida introduzione alla lettura dell’art. 1.

Come recita l’Avvertenza posta in calce al quadro generale del Commento, l’iniziativa non ha alcuna pretesa: non ha ambizioni di completezza scientifica; non vuole sostituirsi agli ottimi, tradizionali ed autorevoli commentari già esistenti; né vuole immaginare o proporre itinerari interpretativi originali o percorsi didattici innovativi. Ha tuttavia due scopi.        

Il primo è di carattere semplicemente informativo e consiste nella disseminazione di un livello minimo di cultura costituzionale e, con essa, di sensibilità giuridica. In proposito, pur non potendosi affermare che nella Costituzione si trova tutto, si può senz’altro azzardare che la sua lettura e il suo studio rappresentano una formidabile palestra, per il giurista come per il comune cittadino. Si tratta, dunque, di un invito alla scoperta e alla prosecuzione, anche su altri terreni, di un’esperienza sempre intrigante, oltre che utile.         

Il secondo obiettivo di questo Commento si risolve nella volontà di creare un canale aperto di dialogo con tutti coloro che vogliano provare ad interagire sui temi di cui la Costituzione si occupa e sulle possibilità applicative di questa importantissima fonte. Non sono in grado, in verità, di sostenere un’interlocuzione personale, rapida e costante con chiunque ne sia interessato. Nonostante ciò, chi ne avrà tempo e voglia potrà segnalare le proprie osservazioni, il proprio parere o le proprie richieste di approfondimento ulteriore al seguente indirizzo: fulvio.cortese@unitn.it. Nei limiti del possibile, sarò lieto di rispondere e, soprattutto, di trarre spunto proficuo per un miglioramento progressivo del Commento.

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“Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri ma a produrne delle nuove, che siano in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali” (p. 11). Per questo oggi è indispensabile discutere di religione civile, e il pamphlet di De Luna, in effetti, contribuisce senza dubbio a fornire precise coordinate sui (tanti) vizi e sulle (poche) virtù che sul punto la società politica italiana ha dimostrato dall’Unità ai giorni nostri. 

Trasformismi genetici e ricorrenti, localismi radicati e familismi trasversali, speranze tanto nobili quanto disattese, possibili punti di svolta e occasioni perdute: l’implacabile rassegna dello storico colpisce al cuore del problema e illustra con efficacia la frustrante continuità con cui il nostro Paese – in età liberale, durante il fascismo, nella Resistenza, nella Prima come nella Seconda Repubblica – ha sperimentato l’incapacità di costruire uno spazio pubblico e riconosciuto di appartenenza e di cittadinanza. Sono due i profili su cui la ricostruzione si sofferma in modo particolare. Da un lato, i reiterati e scoraggianti fallimenti dei tentativi volti ad instaurare un sano e maturo equilibrio tra sfera politica e orientamenti religiosi, con conseguente pregiudizio per il processo fondativo di un vero Stato laico e di un’autentica coscienza civica; dall’altro, la mancata metabolizzazione della necessità di un patto sulla memoria, dell’instaurazione, cioè, per la costituzione e la sopravvivenza della democrazia, di un certo rapporto con il passato. Le pagine migliori del volume sono quelle in cui De Luna spiega l’importanza che a tale riguardo avrebbe potuto avere, e avrebbe tuttora, l’esperienza del Partito d’Azione, fatalmente travolta, anche nella sua feconda eredità costituzionale, da una costante ondata di “desistenza”. Tuttavia, non sono meno efficaci i richiami alle profetiche raffigurazioni di Pasolini, sinistramente presàgo della montante melassa di ignoranza, conformismo e “consumismo all’italiana” in cui è destinata a galleggiare, ormai, soltanto l’idea di una “cittadinanza bancomat”, costruita sui bisogni e sulle paure, distante anni luce dal senso ultimo della partecipazione civile quale “scelta”.      

Occorre dire che la descrizione della situazione attuale è quasi disperante, e tale appare, a suo modo, anche la conclusione. Citando Leopardi – e rammentandoci che “Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci del nostro stato presente” – l’Autore ci motiva ad andare oltre le ultime righe e a ripercorrere le profonde intuizioni del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1827). La questione, infatti, non è meramente istituzionale, non è soltanto quella, pur ragguardevole e centrale, sulla tecnica più efficiente e proficua con cui aggiustare l’equilibrio dei poteri e delle competenze. Il tema è, ancora oggi, quello della drammatica  latitanza di una “società stretta”, che faccia sì che l’opinione pubblica abbia “buon tuono” e che la nazione intera possa alimentarsi di virtù e di valori sempre e comunque capaci di essere matrice comune di posizioni anche assai diverse. Può sorreggerci la Costituzione? Ecco, se c’è un altro e finale interrogativo sul quale questo piccolo saggio può aiutarci a meditare, esso coincide proprio con la riflessione che induce a compiere sulla Carta del 1948, sul dibattito che tanto si agita attorno alla sua riforma e sulle ragioni per le quali prendere posizione a favore di una delle tante tesi – e delle tante motivazioni – che si stanno fronteggiando.

Recensioni (di Emilio Gentile, Antonio Carioti, Simonetta Fiori, Gianfranco Sabattini)

Un’ulteriore lettura sulla religione civile (di Vito Mancuso)

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Questo volume, curato da Giorgio Agamben, non fornisce un’introduzione completa all’opera o al pensiero di Carl Schmitt. Che merita di essere frequentato, per la verità, nei lavori più classici e fondamentali, dalla Dottrina della Costituzione a Le categorie del politico, da Terra e mare a Il nomos della terra, dalla Teoria del partigiano a Cattolicesimo romano e forma politica, da Teologia politica I a Teologia politica II. Tuttavia, i saggi e le interviste raccolti nel testo edito da Neri Pozza offrono nitide istantanee di alcuni degli sguardi più acuti ed obliqui del grande giurista tedesco, fornendo, così, un complemento forse indispensabile per la rappresentazione della sua peculiare esperienza.

La lettura, infatti, ci fa presto avvertire che Schmitt si lascia comprendere al meglio soltanto nei suoi itinerari più insoliti e tormentati, nelle affermazioni più intuitive e talvolta urticanti, nel retroterra culturale e religioso della sua educazione familiare, nell’ostentata consapevolezza del ruolo di interprete storicamente organico di processi politici ed istituzionali tanto drammatici quanto decisivi per tutta la storia della tradizione giuridica occidentale. Per Schmitt, essere giurista – esserlo, cioè, scientificamente – significa innanzitutto viverlo, e dunque cogliere le forze e le tendenze proprie di una determinata realtà sociale per poterne tradurre gli stimoli in strumenti organizzativi e criteri interpretativi intrinsecamente coerenti, immedesimandosi totalmente in queste operazioni e mettendosi in gioco, come egli stesso riconosce, “sulla bilancia della storia” (p. 218). In questo, in fondo, Schmitt si sente del tutto solidale e compartecipe con gli unici due giuristi che ricorda come grandi maestri, Maurice Hauriou e Santi Romano. Ed è una prospettiva che in questi contributi emerge pienamente, sia in quelli che ritraggono Schmitt, esplicitamente, al cospetto del suo impegno come giurista del nazionalsocialismo (v. il Colloquio radiofonico del 1° febbraio 1933, il Colloquio con Dieter Groh e Klaus Figge o l’articolo Stato, movimento, popolo, nel quale si giustificano in modo spietato anche gli argomenti razziali), sia in quelli in cui il giuspubblicista travolto dalla disfatta del suo Paese si ripropone quale lettore privilegiato del nuovo ordine mondiale sorto dal declino dello jus publicum europaeum (così in La rivoluzione legale mondiale o ne L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale o, ancora, ne il Colloquio sul partigiano).

Il punto davvero centrale, e qualificante, di questa prospettiva non lo si avverte, però nelle specifiche opzioni ricostruttive che di volta in volta Schmitt dimostra di aver sostenuto o di assecondare: si rischierebbe di incorrere, nuovamente, nell’impressione comune (da Löwith in poi) di trovarsi di fronte ad un ineguagliabile opportunista, ad un giurista “pifferaio” capace di ammaliare i suoi interlocutori grazie ad una abilità narrativa non comune. D’altra parte, Schmitt vuole sempre stupire, vuole porsi sempre al di là, se non al di sopra, di tutte le interpretazioni possibili: anzi, nell’intervista rilasciata a Fulco Lanchester pochi anni prima della morte (riprodotta nel brano che dà il titolo al volume: Un giurista davanti a se stesso) il tipico senso di superiorità schmittiano può anche irritare. Il fatto è che l’ostinazione e la radicalità di questo singolarissimo giurista si spiegano per la ragione che egli si è sempre sentito spinto a confrontarsi senza sosta con la ricerca di significati generali ed assoluti per le fasi concrete ed effettive dell’evoluzione storica dell’uomo occidentale e delle sue esperienze politico-istituzionali.

Da qui deriva la propensione per le concezioni olistiche e l’avversione per il modello costituzionale di Weimar e per le fragilità proprie di tutte le esperienze costituzionali pluraliste o di tutte le letture esclusivamente normativiste del diritto. Da qui deriva anche l’interesse inesausto per la teologia politica e per le prospettive escatologiche, testimoniato, anche nella presente antologia, dal breve ma acuto intervento su Tre possibilità di una immagine cristiana della storia: sicché, a ben vedere, il famoso decisionismo di Schmitt non è l’ipostatizzazione di un (facile) volontarismo, bensì la traduzione teorico-generale di un problema quasi esistenziale, di una ricerca dell’esserci giuridico di una determinata collettività in uno specifico momento storico. Il dato è evidente anche nel complesso Colloquio su Hugo Ball, poiché in esso si ha l’opportunità di interrogarsi su quale potesse essere lo stretto ed indecifrabile legame tra Schmitt e quel famoso ed originale dadaista. Da un lato, certo, un tale legame è un’ulteriore traccia del clima particolare che anche Schmitt ebbe modo di vivere nelle sue frequentazioni giovanili del quartiere bohémien di Schwabing, a Monaco (v., in proposito, il bel saggio di L. Garofalo su Schmitt e Kandinsky). Dall’altro, però, non si può che maturare l’idea che quello stesso legame derivasse anche dalla consapevolezza di un comune destino / approccio, vuoi personale, vuoi conoscitivo. Non è un caso che Schmitt si riconosca integralmente nella definizione che di lui stesso aveva dato proprio Ball: “Nella forma di coscienza della sua attitudine vive il proprio tempo” (p. 148).

Delle numerosissime, e suggestive, sollecitazioni che provengono dalle pagine di questo libro, molte possono essere considerate utili anche per i giuspubblicisti dell’era globale, in primis tutte le riflessioni che Schmitt dedica all’affermazione, post secondo conflitto mondiale, di un “pluralismo di grandi spazi” (p. 238 ss.): ossia di un’esperienza politico-giuridica in cui si sovrappongono dimensioni istituzionali e normative differenti, che non coincidono più con le proiezioni fisiche e territoriali degli Stati e che pongono al centro dell’attenzione il problema dell’individuazione dello “spazio dello sviluppo industriale” e del governo della sua “irresistibilità” (p. 246). In questa cornice di ragionamenti, ciò che sembra essenziale è il metodo, poiché per Schmitt il livello internazionale o globale non è per nulla estraneo al livello statale, le cui categorie ed i cui strumenti operativi ed organizzativi si sono sempre articolati anche con riguardo al modo con cui lo Stato stesso si pone nei confronti di ciò che è collocato oltre la propria esperienza. Se qualcuno, dunque, chiedesse che cosa è veramente vivo, a tutt’oggi, dell’opera di Schmitt, una buona risposta potrebbe essere questa: l’appello all’inestricabile unità di tutte le scienze pubblicistiche.

Una recensione (di Gianfranco Cordi)

Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978) (di Carlo Galli)

Un confronto tra Carl Schmitt e Santi Romano (di Stefano Pietropaoli)

Il nomos della terra (presentato da Carlo Galli)

Il diritto europeo nella globalizzazione: fra terra e mare (di Maria Rosaria Ferrarese; v. a p. 11 ss.)

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In occasione della pubblicazione, nel 2004, del suo bel volume sulle Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana – una delle letture più formative in cui può imbattersi qualsiasi studioso di diritto pubblico – Sergio Bartole aveva suscitato un vasto dibattito. Sul sito dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, infatti, gli si era presto “opposto” Giovanni Bognetti, con una lunga recensione, alla quale, tuttavia, lo stesso Bartole aveva “replicato”, sempre nella stessa sede. La discussione si era gradualmente estesa anche alle pagine delle più importati riviste di settore, coinvolgendo altri interpreti e dando vita ad una serie di confronti stimolanti e di nuove riflessioni, capaci di riproporsi per diversi anni e di dimostrarsi via via più attuali che mai. Personalmente, al di là della proficua lettura dei tanti contributi così prodotti, ricordo anche il piacere suscitato dall’ascolto della relazione con cui, tornando ancora una volta sul tema di quel fortunato saggio, Bartole partecipò a Trento, nel 2008, all’inaugurazione del V anno della Scuola di Dottorato in Studi Giuridici Comparati ed Europei.

La Costituzione è di tutti riprende le fila della precedente ricerca, con il medesimo rigore, con la stessa chiarezza e con altrettanta lucidità. In quel caso si trattava di approfondire lo sviluppo delle teorie costituzionali che in ambiti particolarmente importanti hanno guidato la dottrina e la Corte costituzionale, e di evidenziare il ruolo determinante di quest’ultima ai fini dell’implementazione, con esiti talvolta inattesi, dei significati della Costituzione. Ora Bartole – dal 2010 emerito di Diritto costituzionale, nella sua Università di Trieste – si spinge oltre, cercando di comprendere quale possa essere la teoria della Costituzione che ha sorretto interpretazioni tanto innovative e trasformazioni costituzionali così profonde e, in qualche caso, apparentemente contraddittorie. Il quesito oggetto dell’indagine è molto semplice: simili risultati sono la conseguenza di un difetto originario, di un’intrinseca debolezza della Costituzione e dei suoi precetti, o devono considerarsi, piuttosto, come declinazioni puntuali di una scelta ben precisa, quella, cioè, di concepire la Costituzione come fonte destinata a “trarre aliunde elementi atti a integrare il contenuto normativo di quei precetti, aperta dunque a una contaminazione con l’esperienza politica e sociale?” (p. 8).

Nei cinque capitoli in cui svolge l’itinerario argomentativo dell’Autore, si comprende progressivamente che la risposta non può che essere la seconda, e che il titolo stesso del libro si presta ad efficace formula di sintesi di un’acquisizione per nulla scontata: “La Costituzione è di tutti proprio perché è una costituzione di principi, ed è una costituzione di principi perché solo essendo tale poteva e può fornire – secondo il compromesso costituzionale e con l’introduzione di precetti anche discordanti – protezione ad un largo spettro di posizioni e interessi anche diversi e contrastanti (…). Le modalità della sua redazione non impongono, ma nemmeno consentono una interpretazione unidirezionale. Essa offre, invece, ai titolari di diritti e di interessi diversi di declinare i suoi contenuti secondo il mutare delle esigenze del tempo e il variare delle condizioni storiche” (p. 116).

I passaggi che consentono a Bartole di arrivare a questa formulazione e di sottolinearne alcuni corollari sono veri esempi di ottimo ragionamento giuridico. Si muove dalla differenza tra la concezione dei principi costituzionali espressa nella vigenza dello Statuto albertino e il “salto” qualitativo che contraddistingue l’esperienza dei principi della Costituzione repubblicana e la questione sulla loro utilizzabilità pratica (Cap. I). Si passa, poi, ad analizzare il problema della lenta attuazione della Costituzione del 1948 e del suo complesso rapporto con le leggi ad essa pre-vigenti (Cap. II), ma anche del modo con cui, in tale difficile percorso, si sono variamente comportate le forze politiche, specialmente negli scontri parlamentari sorti attorno all’approvazione di alcune fondamentali riforme (ad esempio, quella regionale, quella sull’istituzione del CSM, quella sullo Statuto dei lavoratori, quella sulla riforma sanitaria: Cap. III). Si analizza, quindi, l’interazione che si è creata tra Parlamento e Coste costituzionale in taluni ambiti sensibili (soprattutto del diritto di famiglia: Cap. IV), dimostrando, infine, la connotazione pluralistica e anti-maggioritaria della Costituzione repubblicana, quale fonte, a sua volta, oltre che risultato, di una sorta di consuetudine costituzionale interpretativa che ne rinnova costantemente il carattere vivente: sicché le norme “estratte dalla Costituzione nei vari momenti di applicazione / interpretazione della Costituzione stessa” hanno per l’appunto “una vita che è legata alle sorti degli atti d’autorità che ne attestano l’epifania” (Cap. V).

Al termine della lettura, l’impressione forte è che ci si trovi di fronte ad un testo-chiave, che consente non solo di reperire e coltivare innumerevoli ed utili insegnamenti (molto significative, ad esempio, le pagine sull’interpretazione “per principi”: in partt. 188 ss.), ma anche di cogliere interessanti ed acuti spunti di lettura (come sono, ad esempio, quelli sulla laicità dello Stato – pp. 135 ss. – o sulla concezione “civica” della Nazione: v. pp. 150 ss.). In tale prospettiva, si può dire che Bartole riprende e consacra, proprio in questo testo, un lascito metodologico di particolare rilevanza, che al nitore della ricostruzione tecnica affianca sempre una particolare sensibilità storica e culturale. Questo è, in definitiva, il messaggio rivolto ad un’intera generazione di giovani giuristi, perché, come egli ricorda, “il lavoro del costituzionalista non può procedere senza guardare ad un quadro extratestuale, cui rapportare l’elaborazione del testo costituzionale, restando però sempre legato al vincolo di quest’ultimo” (p. 189).

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