Quanto è importante trovare casa? E quanto è difficile sistemarla alla bisogna? In questo libro Katharina von Arx – la giramondo e giornalista svizzera divenuta famosa come “viaggiatrice leggera” – racconta la sua personale ricerca, dall’infanzia alla maturità, quando finalmente, in quel di Romainmôtier, si imbatte in un maniero quasi abbandonato e si propone assieme al marito, reporter e scrittore, di abitarlo e ristrutturarlo. La storia delle avventure (e disavventure) che la coppia deve affrontare per compiere una tale impresa è il cuore, tutt’altro che romantico, del volume. Si tratta del resoconto, un po’ tragicomico, delle più classiche difficoltà di qualsiasi refurbishment, aggravate dalla circostanza che l’immobile viene ben presto dichiarato monumento di interesse nazionale, con tutto ciò che ne consegue sulla tipologia, sull’entità e sui costi (elevatissimi) degli interventi. Albert, un manovale, formula la massima universalmente nota che si è soliti usare per fronteggiare l’immancabile scoramento dei proprietari: “Per fare ordine bisogna cominciare dal disordine”. E di disordine ce n’è tanto. Pagina dopo pagina, passiamo dai complicati rapporti con i sospettosi e invidiosi vicini e paesani a quelli con i puntigliosi e implacabili esperti, storici e architetti; dalle peripezie di ogni singola lavorazione agli espedienti che di volta in volta Katharina cerca di mettere in atto per far fronte ai tanti debiti o per contribuire in prima persona alle opere di muratori e artigiani; dalle insidie di improbabili speculazioni edilizie ai ricorrenti momenti di tensione e scoramento che la coppia impara a sperimentare. Alla fine, però, il castello, che avrebbe potuto rimanere per sempre nel cassetto, sostituito da un vero e proprio buco nero finanziario, riemergerà dal passato come la suggestiva casa del priore, perno sempre più vivo di un borgo medievale in graduale e fortunata rinascita. Qualcuno potrebbe vedere in questa vicenda un caso esemplare della tortuosità che spesso devono affrontare le esperienze pubblico-privato di recupero e valorizzazione di beni particolarmente significativi. Ma ciò che del libro si lascia meglio apprezzare è il tono disincantato, divertito, con cui l’Autrice, rievocando una traiettoria esistenziale che parte da lontano, riesce a dimostrare che le case e gli oggetti che le riempiono sono molto di più di ciò che appaiono. Ci danno l’occasione di dare una necessaria proiezione materiale al nostro io ovvero, come direbbe qualcuno (E. Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Torino, 2021), compongono “una macchina pampsichistica di animazione universale, un meccanismo che rivela che dentro ogni cosa c’è (…) uno spazio di animismo involontario”. Che è un altro modo – sorprendentemente casalingo – per rammentarci, con Talete, che tutto è pieno di dei.
Anche con questo libro, forse, il “caso Silone” potrebbe tornare a far parlare di sé. Accade ciclicamente da tempo, specialmente da quando, nel 2000, è stata pubblicata la ricerca che ha individuato i documenti che proverebbero i legami tra il giovane militante comunista e la polizia. È proprio su questa ricerca che, almeno in parte, si fonda il lavoro di Renzo Paris, che sembra ricostruire i primi trent’anni dello scrittore di Pescina sulla falsariga della tesi che ne vuole ormai assodata una profonda ambiguità: personale, politica, morale e financo sessuale. In quest’ultima ricostruzione, d’altra parte, il rapporto tra Secondino Tranquilli, il vero nome di Silone fino al 1947, e il misterioso Guido Bellone, il commissario che ne riceveva le missive, è catalogato come “amicizia amorosa”. Il pericolo, quindi, su Silone, è che si riaccenda la polemica tra i difensori del “santino” e i “colpevolisti”, o che si discuta, ancora, sulle ragioni politiche del suo distacco dal PCI, dall’Internazionale e dall’Unione Sovietica. Ma chi volesse soffermarsi su questi profili – che pure innervano profondamente il testo, unitamente a quelli relativi ai rapporti tra Silone e altri importanti dirigenti comunisti: Gramsci, Togliatti, Longo… – rischierebbe di non accorgersi che si tratta di un romanzo e che il suo Autore lo ha immaginato, innanzitutto, come un viaggio sentimentale, non come il frutto di una nuova indagine storiografica. Valutare il lavoro di Paris al di fuori del clima introspettivo che lo avvolge significa non accorgersi della cifra particolare di questo racconto, che certo può suscitare critiche più o meno forti, e che, nonostante ciò, ha un obiettivo molto diverso da quello di stabilire una verità.
Le direttrici su cui si muove l’Autore sono tre: – la ricostruzione dello shock subito da Secondino, che già aveva perso il padre, dopo la morte della madre nel terribile terremoto del 1915: questa via consente a Paris di ripercorrere le orme di un orfano ridotto in stato di estrema povertà, dalla Marsica a Roma, alla ricerca di una nuova figura paterna (da don Orione a Guido Bellone) e di una famiglia altrettanto nuova (dalla chiesa al partito); – la decifrazione del carattere inevitabile, e allo stesso tempo anormale, di un processo frantumato e confuso di formazione della personalità: ciò al fine di dimostrare una sorta di originario e condizionante spaesamento interiore, tra la necessità di convivere con le difficoltà quotidiane e l’innata aspirazione a sfogare tutte le proprie energie in un impegno di riscatto personale e sociale; – la connessione tra l’esigenza di ricomporre questo dissidio e l’uscita dal partito comunista, con la riscoperta delle ragioni religiose della propria vocazione e con l’avvio, mediante la stesura di Fontamara, dell’esperienza letteraria, da intendersi come luogo privilegiato per l’autoanalisi permanente del proprio percorso personale e degli ideali che l’hanno motivato. In proposito, l’accento del romanzo viene a cadere proprio sull’influenza determinante che sulla nascita del Silone-scrittore avrebbe avuto la terapia psicanalitica seguita a Zurigo. Occorre evidenziare, ad ogni modo, che, lungo questi itinerari, Paris si muove con la sensibilità dell’artista, del poeta: non cerca conforto soltanto in documenti più o meno attendibili, ma si abbevera alla lettura diretta delle opere di Silone, lasciandosi spesso tentare da una sorta di confusione di ruoli e intrecciando la vita di Secondino con la propria. Questo tentativo di abbraccio empatico è il valore aggiunto della proposta di Paris, perché ci spiega che anche la letteratura pura ha le sue ragioni e che spesso queste non coincidono con quelle della storia, bensì con quelle ben più indecifrabili del nostro animo di lettori.
Recensioni (di F. La Porta, di O. La Stella, di G. Pollicelli)
Per la preparazione di un convegno ho avuto modo di ripescare questa bellissima lettura, il cui titolo completo è Gli anciens régimes e la democrazia diretta, testo oggi disponibile anche on line con la premessa che fu di Arcangelo Ghisleri. Il volume adelphiano del 1995 riproduce l’ultima versione dell’opera e riporta in chiusura le due prefazioni che l’Autore – avvocato e filosofo socialista di natali svizzeri (1871-1941) – ha dedicato alle diverse e fortunate edizioni del libro (le due del 1902 e quella del 1926). La rilevanza del saggio va ben al di là di ciò che si può immaginare fermandosi alla copertina. La tesi del giovane Rensi è la seguente: tra gli assetti di potere dell’ancien régime e le forme di governo parlamentari può non esservi, di fatto, alcuna differenza se il popolo non ha la possibilità di intervenire direttamente per correggere le ricorrenti degenerazioni del governo rappresentativo. Perché l’effettiva realizzazione della sovranità popolare è sempre cosa molto difficile: la classe dirigente, in primo luogo, tende a ridurre i cittadini in soggetti meramente amministrati, a favore delle strutture burocratiche; ma anche le istituzioni rappresentative possono farsi autoreferenziali, prestandosi facilmente a servire gli interessi dei gruppi al potere. E così, prendendo prevalente ispirazione dalle esperienze statunitensi ed elvetiche, Rensi suggerisce l’introduzione di specifiche forme di referendum, dell’iniziativa legislativa popolare, di un “diritto di revisione” (come possibilità di condizionare il processo di modifica della costituzione), di un sistema elettorale proporzionale e della “nazione armata” (quale principale modo d’essere dell’esercito statale, svincolato dal controllo del solo ceto politico).
Le analisi di questo eccentrico interprete – che spesso è stato vicino a posizioni prettamente liberali, tanto più con l’affermarsi del fascismo, del quale per una prima parte del suo percorso fu strenuo oppositore – stupiscono per molte ragioni: l’acutezza delle considerazioni critiche dedicate all’ordinamento costituzionale della monarchia; la valorizzazione degli studi di Gaetano Mosca, con cui Rensi ebbe anche un interessante carteggio; le considerazioni illuminanti, oltre che attualissime, sul ruolo delle “seconde camere”, sulle propensioni pericolosamente “espansive” degli esecutivi e della loro funzione, sugli inganni e sulle tante trappole che si nascondono nella complessità redazionale dei testi legislativi; l’attenzione costante per l’argomentazione storica e per i raffronti comparativi. La modernità estrema dell’approccio di Rensi si può apprezzare del tutto leggendo anche l’articolo su Lo Stato di diritto (del 1900), che è quasi contemporaneo alla redazione di questo libro e che nel testo di Adelphi è opportunamente posto in Appendice. Basti, sul punto, menzionare che, tra le “riforme urgenti” che Rensi propone già sotto la vigenza dello Statuto albertino vi sono, oltre alla previsione del referendum, anche l’istituzione di una Corte Suprema (sul modello americano, come essenziale guarentigia giuridica della democrazia) e la riforma del Consiglio di Stato (per “garantire l’indipendenza dei suoi membri”) e della Corte dei conti (per eliminare la registrazione “con riserva”).
Sappiamo, certo, che la Costituzione repubblicana del 1948 ha parzialmente raccolto buona parte dei suggerimenti di Rensi. L’importanza di tornare nuovamente al suo messaggio, però, è ancora apprezzabile in un frammento tristemente presago, che è correttamente evidenziato (p. 233) nella Nota di Nicola Emery (curatore del volume e appassionato conoscitore del Nostro) e che risale ad un intervento giornalistico del 1925. È una sorta di monito estremo sul destino politico-giuridico cui rischia sempre di essere ricondotta l’Italia, a causa della reiterata incoscienza dei tanti problemi cui Rensi si è dedicato: “Troppo modesti erano stati quei fascisti che hanno limitato a sessant’anni la previsione della durata del loro governo. Questo sarà invece, probabilmente eterno, nel senso che la ‘fase fascista’ non cesserà più per l’Italia. Non si ripristinerà più per l’Italia il sistema di Governo normale, diciamo lo ‘Stato di Diritto’, l’ordine politico in cui v’è una legge o consuetudine forte come la legge che determina e regola le condizioni e il modo del pacifico succedersi dei partiti al potere. Un tale sistema di Governo fu forse per sempre infranto con l’ottobre 1922. E con quest’epoca l’Italia è entrata forse per sempre nel sistema di governo di quella che, in un certo senso, si potrebbe chiamare la periferia europea”.
Un’intervista al Curatore dell’opera
L’importanza di Rensi filosofo della vita (di Roberto Esposito)
Giuseppe Rensi e il problema della democrazia diretta (di Paola Lubelli)
Chi non conosce la storia di Guglielmo Tell? Per gli smemorati, è la famosa vicenda di quel cacciatore svizzero che è costretto ad impegnarsi nella folle sfida di colpire con la sua balestra la mela posta sul capo del figlio: che fare? Ritirarsi, e cedere così al sopruso del potente che lo ha provocato in tal modo; o difendere l’onore, proprio e della propria gente, aggrappandosi alle sue innate capacità di tiratore? Questa storia, connotata dai lineamenti incerti che si addicono alla leggenda, è anche al centro del mito fondativo della Svizzera e della conquista della sua autonomia e della sua neutralità: il potente che sfida Tell, infatti, non è altro che un rappresentante dell’autorità imperiale degli Asburgo, e la vittoria del valligiano, che si rifiuta di omaggiarne pubblicamente le insegne e che per questo è spinto alla celebre prova, fissa un confine che per quell’autorità non sarà mai più valicabile. Si tratta, quindi, di una cosa seria, che per ogni svizzero assume tuttora un significato particolare.
Tuttavia, ecco irrompere il simpatico libretto di Max Frisch, che presenta il suo Guglielmo Tell e si misura nel genere originalissimo, se non unico, del racconto glossato, di una sequenza semiseria di tanti brevi capitoli che, alternati ad un cospicuo e gustoso apparato di note, riescono in un effetto tra il comico e lo straniante. È comico, questo Tell, perché è buffo, pigro e per nulla imperioso il suo antagonista, che peraltro è il personaggio principale della trama disegnata da Frisch e che viene ritratto, per così dire, sin dai primordi della sua avventura: ha un nome sempre incerto; non desidera altro che andarsene via al più presto; cerca di interloquire ed integragire con gli autoctoni, ricevendone spesso l’indifferenza e l’ostilità; si sente a disagio ed è preso in giro anche dai bambini, che lo scambiano per uno spiritello malvagio; se si propone qualcosa, poi, lo fa soltanto per ripristinare un po’ di legalità, di buon gusto e di correttezza. Allo stesso tempo, il Tell di Frisch è straniante: perché nelle note si apprende che, stando alle poche fonti realmente attendibili, le possibili variazioni del tema leggendario sono molte e che, forse, alla base delle rivendicazioni locali, non ci sono solo atti di nobile resistenza, ma anche aspirazioni puramente egoistiche o, semplicemente, la pervicace consuetudine ad una vita appartata e ad orizzonti spaziali e mentali completamente rigidi ed autoreferenziali. Inoltre, proprio sul più bello – proprio nel momento in cui si cerca di capire che cosa avrebbe scatenato l’incidente diplomatico ed accelerato il corso degli eventi – lo smaliziato romanziere arriva quasi al punto di combinare la comicità e lo straniamento, avvalorando l’idea che a dominare la scena sia stato soltanto un equivoco e che il povero balivo si sia trovato, suo malgrado, a doverne pagare l’indebita conseguenza.
Frisch riesce nell’impresa di “smontare” una gloria nazionale senza, con ciò, travolgerne del tutto l’importanza storica e senza, soprattutto, sminuirne l’originalità. Si può dire, anzi, che il puntuale apparato critico, se da un lato enfatizza gli ironici strali che il grande scrittore rivolge nei confronti di ogni retorica, dall’altro facilita la contestualizzazione più seria e il confronto più critico, nella prospettiva di chi tiene al passato, ma (preferibilmente) a quello più autentico e sincero. È un’opera “per la scuola”, in effetti: perché l’operazione di memoria che Frisch compie ha un chiaro intento culturale e pedagogico, alla ricerca di un’identità che non sia il frutto di stereotipate e comode rappresentazioni. Ma Guglielmo Tell per la scuola è anche un manifesto letterario, l’ottimo esemplare dei canoni teorizzati in Quadrato nero, per i quali la realtà più vera può solo essere inventata e l’immaginazione presenta chiavi di lettura che la ragione, da sola, non permette di azionare completamente. In questo testo, alla fine, l’Autore dell’indimenticabile Homo Faber sembra davvero molto vicino a Dürrenmatt e ci offre, così, un’altra buona occasione per conoscere meglio e per comprendere appieno quella profonda capacità decostruttiva che lo ha reso famoso e che non sorge esclusivamente da un esercizio estremamente analitico, ma sa trionfare specialmente quando esplode, nelle pieghe di un sorriso, da una considerazione del tutto onesta delle naturali debolezze degli uomini.