
Socrate si intrattiene con alcuni suoi conoscenti (Erissia, Erasistrato e Crizia) quando un incontro con i facoltosi ambasciatori di Siracusa suscita un improvviso e vivace dibattito. Il tema generale è il rapporto tra ricchezza e virtù, variamente affrontato in una breve serie di interlocuzioni, secondo il classico genere del dialogo. Per prima cosa, Socrate pone Erasistrato di fronte alla constatazione che la vera ricchezza è la sapienza, perché bene dal sommo valore. Ma Erissia dubita che la conclusione sia accettabile, perché non è detto che la sapienza garantisca i beni di prima necessità. Di più: di fronte alle immediate controdeduzioni di Socrate, Erissia, piccato, provoca il filosofo quasi in modo personale, alludendo al fatto che il sapiente può forse dirsi meno ignorante del più agiato degli ateniesi, senza che ciò, tuttavia, lo renda più ricco. Si avvia, allora, un “botta e risposta”, inscenato ad arte da Socrate per far emergere le fallacie delle diverse, possibili argomentazioni. Se da un lato pare corretta la posizione di Crizia – per cui non è detto che la ricchezza sia sempre un bene in assoluto, e che, anzi, vi sono uomini, malvagi o intemperanti, per i quali essere ricchi costituirebbe addirittura un grande rischio – dall’altro è lo stesso Socrate, ricorrendo a un efficace, e impertinente, espediente narrativo, a spiegare che la virtù è qualcosa di trasmissibile e, soprattutto, che, in un discorso, la condizione specifica del soggetto non può comunque mutare la giusta comprensione dell’oggetto. Sicché il punto è identificare quali siano veramente le ricchezze. L’acquisizione permette a Socrate sia di illustrare che la fisionomia stessa della ricchezza (come mezzo di scambio) è relativa (variando da popolo a popolo), sia che, in fondo, le ricchezze non sono sempre utili, perché tutt’al più si rivelano strumentali a fornirsi delle cose utili. Cose che, a loro volta, possono essere procurate anche per il tramite di ciò che – come i “saperi” – ricchezza propriamente non è. In un crescendo di vis persuasiva il filosofo arriva all’esito sottinteso sin dal principio: che la ricchezza, concepita in senso stretto e materiale, non rende felici, giacché mette gli uomini nella condizione di essere braccati dal bisogno e dal desiderio.
L’Erissia è un dialogo pseudo-platonico: non è opera di Platone, perché è stato composto dopo la sua morte, anche se nell’ambito dell’Accademia e (pare) pur sempre nel IV sec. a.C. Un giovane filologo ne offre, ora, una nuova edizione critica, corposissima e minuziosa (e fornita di un ulteriore volume a supporto), restituendo al piacere della lettura un testo nel suo genere esemplare, oltre che interessante. È paradigmatico, innanzitutto, per costruzione ed escamotages dialettici. Nella sua sinteticità, infatti, il dialogo permette di identificare e apprezzare le caratteristiche essenziali e i luoghi salienti dell’archetipo letterario in cui si risolve: la vocazione pedagogica; la struttura retorica, con impianto quasi teatrale; la configurazione della trattazione filosofica come dibattito; la concezione maieutica del magistero, come forma graduale di accompagnamento e, in certo senso, di autoformazione; la ricercata opposizione tra il livello della doxa e quello dell’aletheia; la ribadita differenziazione dagli estremismi del sofismo; il ricorso all’ironia come alle immagini più semplici e intuitive della vita quotidiana e della cultura comune e popolare; il riuso di stilemi o di insegnamenti già consolidati. Verrebbe quasi da affermare, da questo punto di vista, che, sul piano strettamente didattico, la valenza intrinseca dello studio di questo piccolo dialogo spurio è, oggi, più accattivante di quella delle opere platoniche più note e celebrate. Che sono senz’altro più dense ed elaborate, ma il pezzo scolastico – se così si può definire l’Erissia – rende meglio visibile la partitura e i suoi segreti, e anche l’appartenenza ad una tradizione. Naturalmente i problemi che Socrate e le sue controparti in questo piccolo dialogo discutono hanno pure un’importanza sostanziale: perché delineano i tratti di un’invariante fondamentale della riflessione filosofica occidentale; e perché anticipano in modo sorprendente intuizioni e sviluppi che, spesso, si intendono a torto come squisitamente moderni, se non contemporanei. Basta concentrarsi, ad esempio, sulla chiusa del testo, in cui emerge il rapporto tra bisogno e desiderio, con disvelamento delle decisive ricadute antropologiche e sociali che la coscienza e il governo di quel rapporto può sortire. In questo Socrate – al di là della prefigurazione di motivi che saranno propri delle correnti ciniche – c’è già René Girard, e pure un po’ di Christopher Lasch. Ecco che cosa può voler dire tornare agli antichi.
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